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Pali, paletti e palinsesti


Il mostro ha compiuto 21 anni e sembra godere di ottima salute. Come la Medusa, è capace di pietrificare gli uomini e addormentare le anime. Il mostro ha sei teste e sembra diviso in due corpi, ma in realtà ha un solo sistema nervoso e non si sa se è cieco o se ci vede benissimo. Non è un indovinello come quello della Sfinge a Edipo, è che ci vuole la mitologia per definire la televisione italiana, cioè il duopolio creato nel 1984 che Curzio Maltese definì “Rainvest” (oggi sarebbe “Raiset”): un mostro, appunto, con tre canali in mano allo stato e tre di Berlusconi, che sembrano due cose opposte ma non lo sono. Un mostro che obbedisce solo agli impulsi del sistema nervoso chiamato Auditel , e che sembra specchiarsi in se stesso, ma poi ci dice che siamo noi che ci specchiamo in lui, e forse è vero.
“Esiste un solo paese al mondo con tre canali nazionali di stato, la Turchia, e un solo paese al mondo con tre canali nazionali in mano ad un gruppo privato, il Messico: l’Italia è un mix di Messico e Turchia”. Intendeva il peggio del peggio, Giovanni Sartori, esperto di mass media, nel presentare, una decina d’anni fa, la sua indagine sulle televisioni mondiali. Era un critico preparato e impietoso, Sartori, talmente critico che ha trovato subito impiego come capo delle relazioni esterne della Rai. Cioè pagato per lodare la televisione che aveva tanto contestato. Non bisogna meravigliarsi: il fascino che la nostra televisione–Medusa esercita, soprattutto sugli intellettuali, è praticamente irresistibile.
Soldi, potere, visibilità: la TV dà, la TV toglie. Ma come abbiamo fatto a creare il mostro e a renderlo così potente? Occorre fare un ulteriore passo indietro, non al momento della nascita, ma a quello del concepimento, esattamente trent’anni fa. Per rispettare il lato mitologico della faccenda, proviamo a raccontare la favola della Televisione italiana, qualcosa fra l’ingenuità dei personaggi di Andersen e la malvagità di quelli dei fratelli Grimm.
C’era una volta, tanto tempo fa, un paese povero che stava crescendo. Era un paese un po’ coglione ma fiducioso, dove i bambini andavano a letto dopo Carosello (da Bolzano a Siracusa), e dove si guardava un solo canale, come avviene ancora adesso in certi paesi del cosiddetto Terzo Mondo. In televisione non si vedeva né sesso né violenza (non troppa, almeno), perché si pensava che la TV, come la mamma, avesse una funzione pedagogica. La cosa più strana è che in TV si parlava sempre un italiano perfetto (dovevamo ancora unificare la nazione dei cento dialetti), privo di accenti e di volgarità. Ma alla fine degli anni Sessanta cominciarono a soffiare potenti i venti dell’insoddisfazione, che presero tutte le direzioni, compreso la via dell’etere. Iniziarono a nascere piccole radio e piccole televisioni, in una caotica ma gioiosa improvvisazione. Il vento arrivò fino alla Corte costituzionale, che nel 1975 riconobbe la nuova libertà di antenne e ripetitori, ma stabilì anche che il Parlamento doveva regolare il caos, fissando pali e paletti. Il Parlamento impiegò 15 anni ad affrontare la materia, e a quel punto i pali e paletti fissarono soltanto lo spazio occupato dal mostro, che aveva avuto molti padri, alcuni consapevoli, altri ignari.
I padri consapevoli furono almeno tre, di cui due visibili ed uno occulto. Quello occulto era stato il primo a vedere nella palla di vetro, quello che aveva avuto la visione. Si chiamava Licio Gelli, si occupava di materassi e di complotti, e voleva uccidere in modo silenzioso lo strano stato cattocomunista uscito dalla Costituzione, un paese a forte vocazione egalitaria che aveva ridotto moltissimo le distanze abissali fra le vecchie gerarchie e il popolo. I due padri visibili erano un imprenditore e un politico. L’imprenditore aveva anche lui la capacità di vedere nel futuro, solo che a differenza di Licio Gelli, il cattivo della favola, agiva quando l’altro tramava e basta. Silvio Berlusconi, uno dei mille palazzinari disinvolti della nostra repubblica del cemento, trovò nella Tv commerciale la sua vera vocazione, probabilmente ispirandosi (o copiando spudoratamente) il suo modello, il brasiliano Francisco Marinho, potentissimo padrone di Rede Globo nonché inventore delle telenovelas, che gli resterà sempre superiore. Il politico, Bettino Craxi, all’epoca capo di governo, sicuramente si credeva il più intelligente dei tre, e forse per questo è quello che è durato di meno, il che non attenua le sue gravissime responsabilità.
I padri inconsapevoli non possono che essere i democristiani e i comunisti, che agli inizi degli anni Ottanta si accordavano ormai su tutto (vedi puntate precedenti). Si erano accordati anche sulla televisione, ma era stato un compromesso talmente al ribasso che dovrebbero vergognarsene ancora (ma la vergogna è un sentimento ormai bandito, nella Terra dei Cachi). Abituati gli uni a comandare, gli altri a rosicchiare quello che la Balena Bianca concedeva, si spartirono le reti Rai manco fossero Roma e Bisanzio, destinate a durare nei secoli. I comunisti in realtà fecero peggio di Esaù col famoso piatto di lenticchie della Bibbia: si accontentarono di Rai Tre, che per i primi dieci anni non guardava praticamente nessuno (a parte “Il Processo” di Aldo Biscardi), lasciando Rai Due ai socialisti, che avevano la metà dei loro voti, e tutto il resto a chi voleva prenderselo (Berlusconi). Berlinguer, da galantuomo d’altri tempi, sicuramente non capiva molto di televisione, ma morì proprio quando stava nascendo il mostro, e quindi si merita un’assoluzione postuma. Sugli altri compagni, invece, meglio stendere un velo pietoso: si fecero scavalcare perfino dalla sinistra DC di Ciriaco De Mita, “l’intellettuale della Magna Grecia”, un altro con la vista di un cieco, che fece dimettere i “suoi” ministri per protesta contro la Legge Mammì (1990). La legge legittimava a posteriori la più grande appropriazione indebita della storia repubblicana: quella dell’etere.
Gli italiani sono stati convinti, de facto, che l’etere fosse a disposizione di tutti, una res nullius (un po’ di latino, che fa più giurista), mentre invece è un bene demaniale, come le spiagge o le foreste, il cui utilizzo è soggetto a concessione statale. E’ come se un grande tour operator avesse occupato chilometri e chilometri di coste, cacciando abitanti, pescatori e bagnini, e lo stato avesse acconsentito al furto con tanto di legge su misura, nel silenzio assordante di chi per orientamento ideologico ha sempre anteposto il pubblico al privato, lo stato agli imprenditori (la sinistra).
Certo, al cosiddetto “Grande Pubblico” lo scippo è piaciuto. Dal momento che il Parlamento sovrano si è ritirato in stile “otto settembre”, il paese ha fatto quello che sapeva fare (poco, a essere onesti), aggrappandosi al telecomando, spacciato tuttora come lo strumento della sua emancipazione, quando era quello del suo asservimento. Così, nella vergognosa vacatio dei legislatori, le regole le ha stabilite l’Auditel, inaugurando la più fasulla concorrenza di tutti i tempi, quella fra Rai e Fininvest (oggi Mediaset). Sono 21 anni che vediamo gli eroi del piccolo schermo emigrare tranquilli da un polo televisivo all’altro, quasi sempre secondo un percorso di andata e ritorno, strapagati dallo stato come dal privato, a partire da Mike Bongiorno e dal piduista Maurizio Costanzo, per finire a Bonolis (senza dimenticare l’attuale vittima Michele Santoro, che pure fu ottimo dipendente di Berlusconi). Inutile fare l’elenco: è infinito. E il prodigio finale di questa orribile favola è che la carta stampata, strozzata dalla voracità del mostro a sei teste che si mangia il 90 per cento della torta pubblicitaria Tv, e il 65 di quella totale, continua a raccontarci la storiella delle epiche sfide dei palinsesti (ultima in ordine di tempo, quella fra il maggiordomo Mentana e il maggiordomo Vespa).
Lo spettatore, che tutti blandiscono come protagonista e giudice ultimo della televisione, è cornuto e mazziato, e nonostante ciò (ammettiamolo) per molti anni è stato pure contento.
E’ cornuto perché si sorbisce la più grande quantità di pubblicità d’Europa, anche sulla rete pubblica che si becca pure il canone, guardando sei reti tutte uguali (con qualche lodevole eccezione degli “indiani” di Rai Tre e pochissimi altri) e tutte brutte. E’ mazziato, perché paga tutta questa pubblicità quando compra qualsiasi prodotto, come Beppe Grillo urla da anni, e perché paga le tasse per stipendiare quelli che dovrebbero vigilare sul mostro, e magari addomesticarlo, e invece ce lo mantengono così com’è, dai parlamentari ai componenti delle Authority. Gente come Santaniello, che da capo dell’Authority sulla Tv si appellò alla magnanimità di Berlusconi quando si trattava di tutelare l’informazione. O come il minuscolo Petruccioli (DS), che è passato a presiedere la Rai che prima vigilava, nominando come direttore un signor nessuno (Meocci) che stava all’Authority delle Telecomunicazioni. Controllori e controllati si scambiano tranquillamente i ruoli, con la stessa disinvoltura con cui i personaggi televisivi cambiano padrone e i calciatori la maglia.
Tutti “grandi professionisti”, todos caballeros.
Il mostro a sei teste sta in piedi grazie ad una convinzione che è diventata un dogma: agli italiani va bene così, questa è la televisione che vogliono. Finché ci sarà gente che è convinta di essere più libera perché può passare da un canale all’altro, il dogma resisterà.
E poi la soluzione è semplice, a portata di mano: basta abbonarsi a Sky, e portare i soldi a Rupert Murdoch, uno dei grandi sostenitori della politica di Bush. Nella favola della televisione italiana vincono sempre i cattivi, anche perché molti telespettatori sono convinti del contrario. Per loro la storia finisce come tutte le fiabe: “…e vissero sempre felici e contenti”.
Cesare Sangalli