W l'Italia ... fra memoria e attualità ...
Genova per noi
Il fatto più importante degli ultimi dieci anni (vedi “L’ora di Matrix”) è stato cancellato. La
memoria non è esattamente il punto di forza della Terra dei cachi, e le mille realtà virtuali che dobbiamo vivere grazie al peggior giornalismo di tutti i tempi (come opportunamente denunciato da Sabina Guzzanti in “Viva Zapatero”) aiutano incredibilmente l’oblio. Anche un apostolo della non violenza avrebbe un istinto animale a sentire i nostri politicanti parlare, per il ventesimo anno consecutivo o giù di lì, di riforma della legge elettorale, che poi pone il dilemma della lista unica, delle soglie, dei premi di maggioranza, e tutte queste grandi questioni che ci toccherà sorbire, per il decimo anno di fila, nel salotto di quell’onanista di Bruno Vespa.
E’ solo su questi temi e in queste circostanze, fra le cosce di Alba Pariettti e quelle di Alessandra Mussolini, che la nostra classe politica appare modesta ma non troppo, tutto sommato innocua, “moderata”, centrista, placidamente borghese .Ma Genova ci ha fatto vedere il lato brutto del Potere, così brutto che ci siamo voltati tutti dall’altra parte. Tutta la miseria morale di un’intera classe dirigente e la passività di una società civile troppo spaventata e meschina per fare di più e di meglio sono emerse per un breve periodo, e poi sono state oscurate di nuovo. Oggi stiamo tutti un po’ meglio, siamo tutti un po’ più rilassati, rispetto a quel luglio 2001, possiamo perfino tornare a rincoglionirci di reality show, calcio e gossip senza troppi sensi di colpa. Ma nel luglio 2001, almeno per qualche giorno, tutti si erano dovuti interrogare un po’.
Per contestualizzare i fatti di Genova, bisogna partire un po’ prima, giusto un paio di anni, alla fine del secolo scorso. Il drammatico Novecento, nato nell’esaltazione del futuro dell’umanità, stava terminando nel più banale dei modi . Incapace del minimo slancio, il cosiddetto mondo occidentale si affidava alla vuota retorica del “Terzo Millennio”, alle carnevalate programmate da Tony Blair e alla solita leggenda metropolitana, quella del “Millennium bug”, il virus telematico che avrebbe dovuto mettere a repentaglio il mondo del computer. Andava tutto per il meglio, nel 1999: finita la guerra assurda per il Kosovo, la prima accompagnata dall’aggettivo “umanitario” (meno male che i kosovari avevano i parenti poveri in Albania ad accoglierli), il governo D’Alema poteva dedicarsi a ben altri impegni (nessuno sa quali), mentre qualche intellettuale compiacente sparlava di “Ulivo mondiale” (ebbene sì), visto che molti paesi importanti, fra cui gli Stati Uniti di Bill Clinton, erano guidati da governi “progressisti”.
Si veniva da qualche anno di vacche grasse, per via del boom di Internet e dei titoli telematici, e Giuliano Amato, considerato una delle migliori teste pensanti della repubblica, avrebbe proposto ad un G8 l’adozione di Internet come chiave di risoluzione del problema dello sviluppo, un’idea geniale, soprattutto se destinata a gente che non sa leggere e scrivere ed è priva di elettricità.
Il clima di relativo consenso, pace e benessere venne fastidiosamente disturbato dalle manifestazioni al vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, uno degli organi internazionali preposti a garantire costantemente gli interessi dei più forti facendo finta di fare il contrario (gli altri sono la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale), che si svolgeva a Seattle, e che non consentì al povero Clinton di uscire di scena come avrebbe voluto (a parte i pompini di Monica Lewinsky, che erano già stati dimenticati).
Tutto il cosiddetto mondo occidentale rimase esterrefatto: ma che volevano, questi rompiscatole, questi esaltati in cerca di protagonismo, questi fumatori di canne e reduci degli anni Settanta? In questi casi si trova sempre il sociologo a pagamento che cita la noia borghese, il radicalismo chic, la voglia di provare il brivido rivoluzionario (è un meccanismo psicologico noto, si chiama “proiezione”, visto che molti di quelli che dicono così sono proprio ex manifestanti a tempo pieno). Per i re del talk show, dei salotti televisivi, tutto è moda, solo moda, da seguire (per la sinistra) quando non se ne può più fare a meno (infatti a Genova non c’era quasi nessuno, a Firenze per il Social Forum Europeo c’erano quasi tutti, almeno per la foto ricordo).
Non è importante stabilire chi erano o chi sono i “no global”, che già sembrano essere quasi spariti, come attori politici. E’ importante capire che cosa è successo a Genova, due anni dopo l’”epifania” del movimento a Seattle.
A Genova si doveva riunire il solito, inutile consesso dei Grandi della Terra, il G8. I precedenti, a parte Seattle, non erano incoraggianti. A Goteborg c’era scappato il morto, a Napoli il governo di centrosinistra aveva assistito impassibile alle botte da orbi menate dalla polizia, per quanto provocata, sui manifestanti. Parlare delle tematiche cruciali che il movimento no global (brutto nome, meglio il francese “altermondialiste”) metteva in luce era secondario. Troppo imbarazzante per i nostri leader, abituati da anni a cavarsela a battute, misurarsi con le mille promesse disattese dalla globalizzazione, assumere un atteggiamento critico nei confronti di un modello capitalista che mostra sempre più chiaramente le sue aberrazioni, dalla scandalosa ingiustizia sociale al disastro ambientale, e soprattutto esprimere idee che andassero oltre l’Italietta, cioè avere una visione all’altezza dei tempi.
Niente da fare, la riunione del G8 doveva restare soltanto un problema di ordine pubblico, di “sicurezza” (una delle parole feticcio più usate nella Terra dei Cachi). E se la questione era di ordine pubblico, ne conseguiva come corollario la criminalizzazione di un intero movimento, cosa che permetteva ancora una volta a lorsignori di non confrontarsi con i temi mondiali, quelli che “Nigrizia” pone da anni forse nella maniera più lucida (vedi “La messa è finita”).
Il tam tam giornalistico precedente al G8, basato sul niente (o quasi) per alimentare la paura generale, ha rappresentato una delle pagine più buie per l’informazione. Il fatto che il fatidico undici settembre non fosse ancora arrivato dimostra ancora più chiaramente quanto già era forte la volontà di spaventare il popolo, sempre più abituato all’idea di vivere in una cittadella assediata dai nuovi barbari, paralizzato di fronte al futuro proprio nel momento in cui sarebbe necessario un surplus di coraggio.
La grande manifestazione degli extracomunitari che aprì le giornate genovesi venne quasi oscurata (come avverrà per buona parte delle manifestazioni contro la guerra). In
compenso, a riprendere i pochi Black Bloc che agivano indisturbati per la città, c’erano
tutti. La manifestazione di venerdì 20 luglio 2001 era una trappola vergognosamente organizzata dal governo e dalle forze dell’ordine. Il movimento non ha avuto la scaltrezza di non abboccare. Sarebbe stato molto meglio lasciare i tanti Rambo a fare la guardia al nulla, e riuscire così a far emergere i contenuti della manifestazione.
Però il coraggio dei manifestanti ha permesso di gettare una luce sull’anima nera, in senso criminale e fascista, di una parte rilevante delle forze dell’ordine e del governo, cioè dello Stato. La stessa anima nera che ha accompagnato fin troppo la storia della Repubblica italiana.
Nei caotici commenti del dopo Genova, le responsabilità gravissime dello Stato sono state in gran parte occultate, nonostante le denunce vibranti di svariati commentatori, fra cui il moderato Gian Paolo Ormezzano, giornalista sportivo di “Famiglia Cristiana”, che ha visto il figlio rischiare di perdere un occhio per le botte prese.
Per fortuna in Italia esiste ancora una magistratura indipendente, che dopo una lunga indagine ha stabilito che 45 fra semplici poliziotti e alti funzionari di PS, Digos e quant’altro, devono essere processati per rispondere di accuse gravissime, che vanno dalla violenza premeditata al sequestro di persona, dall’abuso di potere alla fabbricazione di prove false. La notizia del rinvio a giudizio, davvero sensazionale rispetto a tante idiozie della politica, non ha avuto nemmeno l’onore della prima pagina su molti quotidiani, fra cui “La Stampa”. “Il Corriere della Sera” se l’è cavata con un semplice richiamo, quasi fosse una normale questione giudiziaria di qualche interesse. Il mondo politico ha completamente rimosso la faccenda. Il processo dovrebbe iniziare in questo triste inverno.
Ma i nostri politici sembrano appassionarsi molto di più a Celentano (bravissimo) e alla sua amara “Rockpolitik”.
Cesare Sangalli