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Giordano Bruno Guerri
FOLLIA?
Vita di Vincent Van Gogh


Il mostro cammina lento dentro la sua camicia troppo grande, sotto un cappellaccio di paglia, che pure ha il vezzo di decorare con nastri azzurri o gialli, ma che a malapena nasconde i capelli radi di un colore indefinito.
Fa pendere dalle labbra una pipa vecchia e consumata, non abbassa gli occhi pur muovendosi curvo e incerto, solitario come al solito, mentre qualcuno gli tira un torsolo di mela, i ragazzetti del paese lo inseguono e lo insultano solo perché lui non risponde, gira lo sguardo allucinato da una parte e dall’altra, poi prosegue.
Non dà confidenza il mostro, e forse è proprio questo che spaventa, nemmeno quando ha bevuto – e capita spesso – è mai molesto o davvero pericoloso. Anzi riesce, a suo modo, a trasmettere una vena di triste e infantile dolcezza, mentre confessa al sacerdote del manicomio: «di non avere comunque fatto male a nessuno, nonostante continuassero a dargli la caccia, arrampicandosi anche alle grate delle finestre, come fosse una bestia rara».
Il mostro frantuma le convenzioni sociali, non può essere emarginato perché è già solo, è sporco, ma non entra a casa tua, si nutre di pane e olive, ma non ruba, e quando non regge il peso delle allucinazioni, dei suoi squilibri mentali magari accentuati dall’assenzio, non ti colpisce, il pazzo, piuttosto si mutila.
Il sangue cola sulla sua nuca, ma non ricade su di te e sul mondo che rappresenti. Nemmeno quando decide di morire.
Il pazzo ha un percorso da compiere, sa dove vuole arrivare, l’ha scoperto davanti a una tavola bianca, che prima lo spaventava e ora non può farne a meno, è il suo strumento per provare a cogliere l’infinito di ciò che lo circonda, fino a spogliarsi completamente di se stesso perché la sua esistenza ne sia irradiata. Ma deve fare presto, lui è il diverso, all’ipocrita coscienza della gente comune non importa se divora immagini o ne è divorato, se la sua follia consuma il suo genio o ne è consumato: da una parte repressione, integrazione, negazione di sé, dall’altra l’assoluta libertà.
Secondo Artaud «è per questo che nasce la psichiatria, per difendersi dalle investigazioni di certe lucide menti superiori, le cui facoltà divinatorie scardinano il quieto vivere».
Vincent dialoga con la natura, lei gli parla, lui «stenografa».
Non ha penna e foglio ma i pennelli, le sue non sono allucinazioni, ma visioni potenti dell’interazione fra sé e la realtà che si può cogliere in ogni campo giallo o verde, o nella luna avvolta di luce che sorge fra le striature blu del cielo, dietro una vigna rossa.
Ma anche una brocca o una sedia prendono forma e vitalità, sono creature non più inerti ma in movimento, come in preda a delle pulsioni proprie che «sento levarmisi incontro come a rinascere dallo spaventoso caos della non-vita, dal baratro della irrealtà ».
Il pazzo ha raggiunto lo scopo, la natura gli parla, gli altri lo evitano, non è il momento di sopravvivere, lui è lo strumento, che dà forma e colore a quell’allucinato dialogo. Vivere senza compromessi.
Va bene tutto, in quell’ estate del 1889. Il ritorno in manicomio e i gorilla del paese che lo rincorrono come fosse una bestia rara, i medici che vogliono curarlo a tutti i costi e i ragazzetti che gli tirano torsoli di mela.
Sembra remissività, ma è solo attesa. Basta che lo lascino dipingere. «Mi stanno tormentando che ho fumato e bevuto. E va bene. Ma nonostante la loro sobrietà, che mi causa nuove miserie, non hanno potuto impedirmi di cogliere quell’alta nota di giallo che percepivo di poter raggiungere ».
L’ultimo sforzo in un’esistenza che l’ha consumato dentro e fuori, l’ultimo prima di morire in una misera locanda, l’anno successivo, puzzolente di sudore, sangue e sterco, dopo essersi sparato in una porcilaia, come a volere annullare anche la sacralità della morte.


Michele Castelvecchi

Giordano Bruno Guerri
FOLLIA?
Vita di Vincent Van Gogh
Bompiani
€ 17,50