Libri

 



Cuore di cactus


Sul palco un pianoforte a mezza coda, un cancello che si apre e chiude, una sedia, una macchina da scrivere, per terra, sparsi, giornali.
Sul palco un attore e un pianista. Sul palco un racconto.
Sul palco Fausto Russo Alesi, bravo attore e regista, cantore siciliano, in una pièce che va in scena a Milano, comincia a raccontare.
Un racconto in prima persona, un racconto fatto di notte. Certe notti, quelle notti in cui si vuole solo leggere o scrivere.
Sono le notti di Antonio Calabrò, giornalista palermitano emigrato (fuggito? trasferito?) a Milano, il quale ripercorre la sua storia e la storia della sua Sicilia.
Una Sicilia cantata da illustri autori, Goethe afferma che senza la Sicilia non si può capire l'Italia.
Calabrò parla del suo viaggio, di come è andato via dalla sua terra; è partito dalla Sicilia in nave, perché la nave, con i suoi tempi, dà modo di vivere tutto il tempo dell'allontanamento, di pensare alla partenza.
Parla, il nostro cantore notturno, dei suoi incontri e cita un vecchio “maestro” che gli regala un libro e lo dedica “A te, e a quelli che hanno ali d'aquila e il cielo gli sembra piccolo”.
E parla del suo lavoro, che è andare in giro, capire e spiegare, rendere comprensibile, su carta, quello che si è visto, connettere gli eventi, ragionarci intorno.
E della passione parla, la passione per quel mestiere che è il giornalismo.
Si ritrova in Levi “Amare il proprio lavoro è la migliore approssimazione alla felicità sulla terra”. Lavora, Calabrò, per l'Ora, giornale finanziato da una borghesia industriale siciliana, una borghesia che sa che la promozione sociale di tutti, porterà ricchezza e benessere e che crede nella funzione educatrice della stampa; il direttore è Vittorio Nisticò che vuole, insieme agli editori fare della Sicilia un luogo dove chi ci nasce, ringrazi Dio di avercelo fatto nascere.
E' in questo giornale, con altri animati dalla stessa curiosità e impegno che Antonio Calabrò lavora. La speranza è quella che i siciliani smettano di essere dei professionisti dell'emigrazione.
L'attore/scrittore Calabrò ci racconta che negli anni Settanta, quando è passato il divorzio, anche in Sicilia si respirava un bel clima, sembravano maturare novità, sembrava si stesse formando una nuova classe dirigente, un nuovo modo di fare politica.
Era necessario rimanere, lavorare al cambiamento. Occorreva segnalare, distinguere, valorizzare tutto ciò che non era mafioso. La musica si ferma, e Calabrò ci dice che l'eccesso di orgoglio aveva in sé il germe della sconfitta. Cambia qualcosa: la politica, l'economia, i problemi sociali si intrecciano e ritrovano nella cronaca nera. 1978: ucciso un carabiniere; ucciso Mario Francese, giornalista che indagava sul clan Riina; 1979: ucciso Boris Giuliano poliziotto che indagava tra Italia e USA.
Poi un magistrato.
La cronaca deve occuparsi di Sindona, della P2, dei traffici di eroina. Il 6 gennaio 1980 viene assassinato Piersanti Mattarella, presidente della regione. Solo nella prima metà degli anni Ottanta vengono assassinate mille persone. Mille persone. Mille persone, cinquecento platealmente, per strada, omicidi ben visibili, ma altri cinquecento uccisi dalla lupara bianca, gente sparita nel nulla, persone che non lasciano traccia.
Non è una guerra quella descritta in un crescendo anche di note. Dal pianoforte stilla sangue che macchia giornali, volti, parole. Non è una guerra, è una mattanza. E' una tale mattanza che Palermo, terra di mercato e di mercanti da millenni, terra di passaggio, terra di accoglienza, terra di tante culture, si chiude, si ferma, si spopola.
Molti intellettuali avevano individuato nella cultura non solo il rifugio per la Sicilia, ma la possibilità di un nuovo slancio, di riscatto politico e sociale.
Ma la mattanza continuava.
Calabrò usciva sempre meno, solo per lavoro. La Sicilia era invasa da coloro che reputavano che tutto lo sfoggio di “antimafia” desse cattivo lustro alla propria terra (era un'ammissione implicita di una terra resa alla mafia) e anche da coloro che si dichiaravano garantisti ad oltranza.
Alla fine, nel Novecentoottantacinque, in estate, regnava come una calma apparente, una specie di flemma muoveva tutti.
Ma. Dall'Ucciardone arriva la notizia di liste di magistrati, poliziotti, giornalisti da uccidere. Giovanni Falcone diceva: “Chi tace e piega la testa, muore ogni volta che lo fa; chi parla e cammina a testa alta muore una volta sola”.
Ricomincia la mattanza. 6 agosto 1985, Calabrò è in redazione, la radio della polizia alla quale sono sintonizzati lancia un allarme, prima di sentirlo con le orecchie, Calabrò sa col cuore che hanno ucciso Ninni Cassarà, funzionario di polizia come scelta di impegno e civiltà, ma prima ancora suo compagno di scuola, suo amico, la vita insieme.
Il funerale di Cassarà è uguale a tutti gli altri che Calabrò ha seguito: sdegno, richiamo alla giustizia, condanna dell'omicidio, alte si levano le voci degli oratori, imponente il lutto che accompagna il feretro. Ma qualcosa è cambiato.
Per Calabrò quelle che fino al giorno prima erano speranze, appaiono ora come illusioni; la paura con la quale ha convissuto sempre, lascia il posto a un'angoscia sconfinata; risuona in lui l'eco delle parole di Ninni Cassarà, parole dette sorridendo, quasi uno scherzo “siamo morti che camminano”.
Davanti al corpo dell'amico morto, Calabrò subisce il crollo delle passioni comuni, e non è più un cronista, non più un testimone, ma solo un uomo in lutto. Moriranno anche Falcone, Borsellino, dalla Chiesa, Grassi, don Puglisi...
E' folle voler cambiare la Sicilia o è folle rinunciare a cambiare? E' giusto che i luoghi dei ricordi siano diversi dai luoghi della realtà del vivere? Lui è partito, altri son rimasti.
Lui è partito ma il suo cuore è là alla sua terra, al suo destino. Bisogna avere ali d'aquila e pretendere di volare.


Silvia Cutaia

Antonio Calabrò
“Cuore di cactus”
Sellerio editore
Pagine 143
15 euro