La guerra dei sessi per il potere procreativo
Riflessioni sul libro “Le ferite degli uomini”, Vera Slepoj
Per quanto possa sembrare incredibile pare che nell'era paleolitica, all'inizio dell'umanità, gli uomini non conoscessero il proprio ruolo nel processo procreativo e le donne venissero considerate le uniche artefici della procreazione con l'aiuto degli spiriti o della forza divina. A riprova di ciò, ancora oggi questa credenza è ritenuta valida da alcune tribù primitive, ad esempio dalle popolazioni che abitano nelle isole Trobriand della Melanesia.
Nel Neolitico si afferma poi il culto della Dea madre o madre terra comune alle religioni dell'India, della Persia e dell'Europa orientale. Tra gli storici si discute sull'organizzazione sociale di quelle società, ma al di là delle diverse interpretazioni, quello che è certo è che si trattava di società matrilineari in cui il ruolo della donna era centrale senza che ciò significasse un'esclusione degli uomini in quanto anch'essi partecipavano al potere politico ed economico. L'elemento femminile aveva però un ruolo centrale nella simbologia e nelle religioni e il potere procreativo delle donne era oggetto di venerazione.
Tutto cambia, secondo l'autrice, quando gli uomini comprendono la propria funzione biologica nella procreazione, probabilmente durante l'età del bronzo quando, dedicandosi all'allevamento, hanno modo di accorgersi della funzione maschile nell'accoppiamento degli animali.
E' a partire da quel momento che un intero sistema socio-giuridico viene messo in piedi al fine di assicurare il ruolo del padre, in altre parole vengono poste le basi di quella che chiamiamo società patriarcale. La trasmissione del nome diventa patrilineare, mentre comincia l'ossessione per il controllo dei comportamenti sessuali della donna, primo fra tutti l'adulterio femminile. Ciò si spiega anche col fatto che nel frattempo si era affermata la pratica della proprietà privata, cosa che comportava da parte dell'uomo la paura di trasmettere i propri beni a figli non suoi. Sembra che la stessa istituzione del matrimonio si sia consolidata in tempi relativamente recenti (verso la fine del IV millennio a. C.) andando a sostituire la pratica della poliandria (molti uomini per una donna).
Questa rivoluzione culturale si riflette anche nella sfera religiosa, dove la Dea Madre viene sostituita inizialmente da coppie di dei in cui la dea diventa la sposa del dio signore, e successivamente da divinità maschili, come avverrà poi anche nelle religioni monoteiste. L'onnipotenza della Dea Madre viene così sostituita da quella del Dio Padre.
La lettura psicologica che viene data di questa gigantesca costruzione socio-giuridica che ha portato gli uomini a imporre il proprio potere anche nell'ambito procreativo è che, una volta scoperto il proprio ruolo biologico, gli uomini abbiano creato tutto un sistema di “compensazione” che ridesse loro la piena centralità in questa sfera dalla quale erano stati inizialmente esclusi. Anche questa lettura sarebbe comprovata da alcune pratiche antiche diffuse in molte aree e che sopravvivono in alcune popolazioni, definite dagli antropologi dell'Ottocento “covata maschile”. Al momento del parto l'uomo si mette a letto ed è lui a ricevere le visite di felicitazione di parenti e amici per il nuovo nato, mentre la donna poco dopo aver partorito si alza e si mette a servire il marito. Un'eredità di quella pratica si può rintracciare nella presenza sempre più frequente dell'uomo moderno nella sala parto e nella condivisione della preparazione al parto durante la gravidanza. E' vero che in questo caso è l'uomo ad avere una funzione di sostegno e quindi a porsi in una posizione di servizio nei confronti della compagna, tuttavia la sua presenza può anche essere letta come il tentativo di esorcizzare le paure legate a quel potere femminile profondo collegato al legame speciale che si crea tra la madre e il figlio.
Il sistema patriarcale non ha avuto però solo lo scopo di ridare agli uomini la parte che era stata loro tolta, quanto piuttosto di relegare le donne in una posizione subalterna e proprio a questo fine la maternità ha perso quell'iniziale connotato di sacralità divenendo mera espressione biologica.
La donna viene infatti associata alla natura in contrapposizione all'uomo che rappresenta invece l'elemento sociale del fare, l'artigiano, l'artista, il guerriero, il legislatore. Non c'è più alcun merito nel fare figli, le donne prestano passivamente il proprio corpo per la riproduzione della specie.
Come è noto, i fondamenti di quell'organizzazione patriarcale sono oggi messi in discussione dal movimento di emancipazione femminile che ha portato alla parità, quantomeno giuridica, tra uomini e donne. Il diritto di famiglia che prima considerava l'uomo capo-famiglia, prevede ora una posizione paritaria dei coniugi tra loro e nei confronti dei figli che hanno l'obbligo di mantenere, istruire ed educare. Per inciso è bene ricordare che la riforma del diritto di famiglia è avvenuta in Italia solo nel 1975 e che in molte aree del mondo questo è uno degli ambiti in cui permangono leggi discriminatorie. In Italia si comincia anche a discutere della possibilità di trasmettere ai figli il doppio cognome, cambiamento che se può sembrare di scarsa importanza pratica, rappresenterebbe invece una grande conquista simbolica.
D'altro canto nei paesi occidentali si fanno sempre meno figli, l'Italia ha uno dei tassi di fecondità più bassi del mondo. Le donne sono uscite dalla sfera domestica e sempre di più partecipano alla vita lavorativa, sociale e culturale. Alcune legittimamente non desiderano avere bambini, ma altre lo vorrebbero o vorrebbero averne più di uno se le condizioni sociali ed economiche lo consentissero. Gli stati si sono accorti che non è più possibile delegare alla volontà delle donne e alla loro capacità di sacrificio la decisione di fare figli, è necessario che la società tutta si faccia carico di questo riconoscendo il cosiddetto “valore sociale” della maternità. Da qui le misure per la conciliazione della vita familiare con quella lavorativa, gli asili nido, i congedi per maternità divenuti ora congedi parentali.
La sensazione, tuttavia, è che tutto ciò sia ancora vissuto, specialmente in società come la nostra, come un fardello, come l'ennesimo ostacolo della modernità a cui si è costretti a fare fronte rimpiangendo il bel mondo antico quando le donne stavano a casa e badavano alla famiglia. Non ci si accorge invece che questo potrebbe essere uno di quei fondamentali passaggi storici in cui ad un sistema di valori se ne viene a sostituire un altro.
Proviamo per un attimo ad immaginare una società, come ce la descrive Charlotte Perkins Gilman nel suo Herland dove la cura e lo sviluppo fisico, mentale e spirituale dei bambini viene considerata l'occupazione più importante e anche la più retribuita. E questo non perchè come nel romanzo della Perkins gli uomini sono scomparsi e le donne hanno imparato a riprodursi da sole, ma perchè gli uomini hanno riconosciuto la centralità e la sacralità della procreazione e hanno imparato a condividere la cura dei figli con le donne.
Un esempio che potremmo essere in cammino verso questo nuovo modello sociale è il ruolo sempre più attivo che ormai la maggior parte dei giovani padri svolge anche nella cura dei bambini.
La speranza è che questo nuovo rapporto con i figli possa rappresentare per gli uomini un'occasione per entrare in contatto con la loro parte femminile che, come ben spiega Vera Slepoj, hanno spesso dovuto reprimere a caro prezzo, dando loro l'opportunità di arrivare ad una personalità più integrata e consapevole.
Ed è ovvio che un tale cambiamento non avrebbe conseguenze soltanto nel rapporto padre-figli o in quello uomo-donna, bensì nel lungo periodo potrebbe avrebbe ripercussioni su tutta l'organizzazione sociale.
L'auspicio, in particolare, è che possa condurre a società dove l'elemento simbolico del dare e nutrire la vita possa avere più importanza di quello di toglierla.