24 settimane per vivere o morire
Si può abortire al quinto mese di gravidanza? Se lo chiedono donne e uomini del Regno Unito, dove una gravidanza si può interrompere anche alla 24esima settimana. Quasi il doppio dei 90 giorni concessi dalla legge 194 in Italia. La ratio del legislatore britannico è molto semplice: un bambino eventualmente partorito intorno al quinto mese non ha quasi nessuna possibilità di sopravvivere. Il confine fra vita e morte è fissato dalla scienza, in linea con lo spirito laicista e razionalista della Common Law. Ma la scienza, o meglio, le nuove tecnologie, possono fornire argomenti anche a chi contesta il limite delle 24 settimane, non solo per le immagini sconvolgenti che circolano su Internet per iniziativa delle associazioni anti-abortiste, ma anche e soprattutto grazie ai progressi della diagnostica neonatale. Nuovi strumenti ecografici hanno portato a familiarizzare con la vita dei feti nell’utero materno e hanno contribuito alla consapevolezza che, soprattutto a 20-24 settimane, l’aborto ha tutte le sembianze di una soppressione violenta di un altro essere umano.
Capace non solo di respirare e nutrirsi, ma anche di giocare, spaventarsi, rasserenarsi, e molto probabilmente soffrire.
Il leader dei cattolici britannici, cardinale Cormac Murphy O’ Connor, aveva invocato un mutamento profondo delle menti e dei cuori. Recenti sondaggi di opinione e il costante riaffiorare del dibattito su una legge percepita sempre di più come troppo permissiva, dimostrano che questo mutamento è ormai in corso già da qualche tempo, anche in una società che ha una forte tradizione di tolleranza delle libertà individuali e di difesa dei diritti della persona. Seppure con percentuali diverse (a seconda della fonte), l’opinione pubblica inglese sembra a favore di una revisione della legge in senso restrittivo, anche se meno della metà degli intervistati considera questo tema determinante nel dibattito politico. Recentemente la questione dell’aborto è tornata di attualità in occasione del quarantesimo anniversario dell’Abortion Act, e soprattutto sotto la spinta di una proposta di legge che renderebbe ancora più semplice il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza affidando le procedure chirurgiche più semplici (gli aborti nei primi tre mesi) a infermiere specializzate anziché ai medici.
I sostenitori dell’attuale legislazione sostengono che degli oltre 190mila aborti praticati in questo Paese nello scorso anno, in realtà solo una piccola percentuale vengono di fatto praticati oltre la 20esima settimana (e spesso in caso di malformazioni gravi e pericolo di vita per la madre). Ma si tratta comunque di una realtà drammatica, sia dal punto di vista delle molte vite non nate, sia dal punto di vista delle donne, spesso giovanissime e disagiate, che si trovano a dover fronteggiare questa scelta.
Gli oppositori dell’interruzione di gravidanza in Inghilterra sono costretti, per avere una qualche speranza di successo, a giocare le proprie carte sul terreno del ragionamento medico. La richiesta di revisione del limite legale avanzata al ministero della Sanità inglese è infatti basata sulla percentuale di sopravvivenza (pari oggi all’11%) dei feti di 23-24 settimane. Anche le Chiese cattolica e protestante si sono adeguate e anziché spingere per l’abolizione totale, più realisticamente si battono per una riduzione anche solo di qualche settimana.
L’impressione è che occorra aspettare ancora del tempo perché il cambiamento in atto nella coscienza pubblica porti qualche risultato concreto. Riconoscere i diritti del non nato anche contro quelli di libertà della madre qui, in un Paese che vanta un numero record di gravidanze indesiderate tra le adolescenti, in un Paese dove le cliniche che praticano l’interruzione volontaria di gravidanza affiggono cartelli pubblicitari in metropolitana, qui avrebbe decisamente il sapore di una rivoluzione. Non a caso il ministro della Sanità del governo laburista in carica, Dawn Primarolo, si è detta non convinta delle necessità di cambiare una legge che al momento, ha detto, sembra funzionare bene. Il giudizio di Mrs.Primarolo suona strano, almeno da un punto di vista italiano: l’aborto in Gran Bretagna (che all’incirca la stessa popolazione dell’Italia) è in costante aumento, quando nel nostro paese è successo il contrario (il ricorso all’interruzione di gravidanza diminuisce costantemente dal 1978): vent’anni fa c’erano più aborti in Italia che in Inghilterra, ma le tendenze opposte hanno determinato il sorpasso e scavato un fossato fra i due paesi, tanto che se i rispettivi trend si confermassero, nel giro di pochi anni il Regno Unito avrebbe il doppio delle interruzioni di gravidanza dell’Italia., e non sembra tanto un primato da sbandierare con orgoglio, quanto il sintomo di un disagio profondo. Dawn Primarolo, comunque non si scompone, anche se il ministro ha ammesso (bontà sua) che, sebbene le percentuali di sopravvivenza di un feto sotto la 24esima settimana siano bassissime, l’opinione del ministero sulla legge potrebbe cambiare di fronte ad ulteriori progressi della scienza neonatale.
Sullo sfondo resta il tragico paradosso che tutta la questione ha portato a galla in un Paese eticamente “rilassato”, se così si può dire. La giusta volontà di garantire alle donne il diritto di scegliere non attenua il disagio per una pratica che in stadi così avanzati non ci concede più alcuna ipocrisia pacificatoria, e mostra l’interruzione di una gravidanza in tutta la sua realtà di dolore e di violenza allo stesso tempo. E in questo senso dibattere sul fatto che un feto possa o meno sopravvivere oltre le 24 settimane ha il sapore di una farsa, messa in piedi per mascherare la difficoltà di decidere tra il valore della libertà e quello della vita, tra i diritti legittimi di chi esiste già e quelli di chi tra sé e l’esistenza riconosciuta ha, in fondo, solo lo schermo dell’organo materno che lo contiene.
Manuela Mirkos