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La calda notte dell’ispettore Prodi


“Dio c’è, e vota all’estero”. La battuta di un elettore dell’Unione, fra il sacro e il profano, rende bene l’idea, e fa il paio con il divertente slogan apparso a Bologna in mezzo alla gente che salutava la sofferta vittoria di Prodi: “Tremaglia santo subito”.
Sono solo tentativi di esorcizzare i fantasmi di una situazione pesantissima. Difficile infatti non vedere un intervento della provvidenza (scritto con la minuscola per non mescolare fede e politica, come troppi fanno a sproposito) nella lunga, indimenticabile notte elettorale del 10 aprile scorso. Dopo che la Cassazione ha spazzato via gli ultimi dubbi (in realtà, le indecenti provocazioni istituzionali di Berlusconi e soci) sul conteggio dei voti, si può tentare un’analisi di questo passaggio “storico” (le virgolette sono d’obbligo, visto che nessuno può prevedere i reali sviluppi futuri).
Il fatto importantissimo è che per la prima volta dall’esordio politico del 1994, Berlusconi non ha più il consenso della maggioranza degli italiani. Oltre 19 milioni di cittadini, in elezioni con un’affluenza record, hanno stabilito che il Cavaliere doveva lasciare Palazzo Chigi. Quelli che ce lo volevano tenere erano solo poche decine di migliaia in meno, ma meno. Ogni altra considerazione passa in secondo piano, e va ad alimentare un dibattito virtuale in cui la retorica della Prima Repubblica proporzionalista si confonde con quella della Seconda Repubblica del presunto maggioritario. Tutti ragionamenti buoni per i salotti di Bruno Vespa, che non a caso è passato indenne da una repubblica all’altra: i voti calcolati per ogni partito (per cui “il primo partito italiano è Forza Italia”; “no, il primo partito è l’Ulivo”), con o senza raffronti rispetto alle elezioni precedenti, a seconda di come fa più comodo; i voti considerati attraverso le aspettative pre-elettorali, considerando i famosi sondaggi (gli stessi che hanno fatto coniare il termine “sondocrazia” a Gustavo Zagrebelski, una delle poche menti limpide fra i commentatori politici degli ultimi vent’anni); i voti determinanti per vincere o per perdere, che possono essere quelli dei radicali, quelli di Mastella, dei pensionati, di chiunque; i voti che contano di più o di meno, quelli del “nord produttivo” o del “sud statalista”. Sono tutte spiegazioni che non spiegano, e alimentano il paese virtuale che è (stato) il regno di Berlusconi. Un paese virtuale in cui, purtroppo, anche gran parte dei politici del centrosinistra ha vissuto fin qui piuttosto bene.
E’ proprio a causa di questa continua rappresentazione teatrale che la migliore testimonianza sull’Italia del 2006 è opera di un regista, Nanni Moretti, con il suo film “Il Caimano”. In questo scenario incerto e anomalo, si può essere sicuri solo che fra un po’ di anni “Il Caimano” rimarrà una pietra miliare per descrivere l’Italia di Berlusconi. L’intuizione geniale di Moretti è stata quella di non fare un documentario alla Michael Moore, ma una pura finzione, il racconto di un produttore cinematografico in difficoltà che vuole fare un film su Berlusconi. La sensazione di amarezza che prende allo stomaco lo spettatore è provocata proprio dal messaggio di realtà rovesciata. E’ come se Moretti ci dicesse: “Guardate che questo film è la realtà che stiamo vivendo da anni”. Una realtà che sembra davvero troppo brutta, esagerata, assurda, per essere vera. E invece è proprio così. Il primo errore che si commette parlando dell’Italia, un errore in cui cadono anche diversi commentatori stranieri, è di ragionare come se il nostro fosse un paese normale. Magari con un po’ di problemi, anche gravi, in una fase economica di crisi, ma pur sempre una democrazia europea avanzata.
No, l’Italia non è un paese normale, e non nel senso umoristico o folcloristico del termine.
Il fatto di non rendersene conto è il primo sintomo di quanto sia grave la deriva della nostra povera democrazia. Siamo talmente abituati alla marea assurda di parole, battute, esternazioni, discorsi sul nulla, siamo talmente inquinati dalla totale mancanza di discernimento, di distinzione fra il vero e il falso, fra ciò che è importante e ciò che è non lo è, che non ci accorgiamo più di quanto siamo immersi in questo orrendo reality show che è diventata la vita politica del paese.
Ogni richiamo alla realtà è percepito quasi con fastidio. La questione morale? Roba vecchia, fissazione dei giustizialisti: noi ci possiamo permettere la rielezione di Previti, corruttore di giudici, di Dell’Utri, condannato per mafia, di Calogero Mannino (idem), di Totò Cuffaro (processo per mafia), e perfino dei vecchi tangentisti Cirino Pomicino, Gianni De Michelis e compagnia; tanto il pluricondannato Berlusconi supera e sublima le colpe di tutti quanti; e se non bastasse, abbiamo come senatore a vita Giulio Andreotti, con una condanna per mafia andata in prescrizione (per un intero paese, è come se fosse stato assolto). Il conflitto di interessi? Una cosa noiosa, che “alla gente non interessa” (Berlusconi docet), noi ci possiamo permettere la più spaventosa concentrazione di potere mai vista in un paese occidentale moderno, a fronte della quale i casi “minori” (come il ministro Lunardi che affida i lavori della famosa TAV alla ditta dei figli, o perfino il ministro Pisanu che concede in trattativa privata il conteggio elettronico dei voti ad una ditta americana in cui lavora il figlio) non sono neanche degni di essere portati all’attenzione del pubblico, che infatti non ne sa niente. La riforma delle televisioni? Per carità, la televisione commerciale “ha aperto spazi di libertà”, infatti nessuno, da vent’anni, riesce a scalfire il doppio monopolio di RAI e Mediaset, un vero mostro a due teste, autentico pilastro mediatico di un sistema malato, che viola ogni normativa europea, da quella sull’affollamento pubblicitario alle regole dell’antitrust. E a Berlusconi non basta nemmeno quella misera foglia di fico che è la “par condicio”: è riuscito a violare pure questa.
Si potrebbe andare avanti a lungo, nell’elenco delle anomalie italiane (dall’intervento in Iraq spacciato per “missione umanitaria” al processo – occultatissimo - per i fatti di Genova del 2001; dalla morte dimenticata di Calipari agli scandali bancari che hanno travolto il governatore della Banca d’Italia Fazio) ma è bene fermarsi qui. Si può dire che l’Italia produce più notizie di quante se ne possa permettere. La confusione è enorme, la memoria cortissima e l’attenzione dell’opinione pubblica è continuamente spostata su cose inesistenti, o irrilevanti, dal peggior giornalismo di tutti i tempi, quello capace di dedicare decine di prime pagine ad una malattia che non ha colpito nessuno (l’influenza aviaria, e già si sono dimenticati della mitica SARS) o ai mille “allarmi terrorismo”, senza che ci sia stato un solo attentato in cinque anni (era molto più a rischio l’Italia degli anni Settanta, con il terrorismo tutto fatto in casa).
No, per uscire dal “blob” mentale a cui siamo costretti da oltre un decennio, ci vogliono appunto poche, chiarissime considerazioni.
Primo: l’Italia non è un paese normale, è bene ripeterlo; ragionare come se lo fosse (vedi neurodeliri sulla “Grande Coalizione”) è il miglior modo per restare nel tunnel.
Secondo: l’anomalia italiana si chiama Silvio Berlusconi , che significa concentrazione vergognosa di potere (la stessa definizione “conflitto di interesse” è riduttiva, alla fine), sistema televisivo indegno di un paese civile, ma soprattutto totale negazione della legalità, che poi diventa, più in generale, questione morale.
Quindi, se la maggioranza di centrosinistra intende salvare il paese, deve farlo uscire dal berlusconismo. Come? Con una legge rigorosa sul conflitto di interessi; con una riforma radicale del sistema dell’informazione; con la cancellazione di tutte le leggi vergogna e l’introduzione di severe norme di comportamento per tutta la classe politica. Tutto ciò, sia ben chiaro, solo per restituire un minimo di dignità e normalità alla repubblica. Non può bastare una migliore gestione dei conti pubblici e un miglior andamento dell’economia per uscire dal tunnel: lo si è già visto nel ’96, e non ci possiamo permettere un bis di quella grigia, squallida esperienza che non ha cambiato il paese di una virgola.
La nostra repubblica compie 60 anni fra pochi giorni. La vittoria sulla monarchia fu ottenuta per pochi voti, neanche troppo limpidi. Anche allora il paese era diviso, ma in modo drammatico, sull’orlo di una guerra civile vera (che in parte c’era già stata), distrutto da cinque anni di conflitto mondiale, castrato da venti anni di fascismo, un paese in uno stato di arretratezza da brividi. Il Comitato di Liberazione Nazionale prima e gli uomini della Costituente dopo furono capaci di superare divisioni che rendono ridicole quelle di oggi: c’erano stalinisti e liberali filomonarchici, cattolici ultraconservatori e anticlericali feroci, e c’era da rifondare un nuovo stato, una nuova nazione. Hanno saputo essere all’altezza della situazione, e non erano certo dei santi.
Il compito che aspetta la nuova maggioranza è, al confronto, una passeggiata. Ma con i
tempi che corrono, appare un’impresa eroica, anche se non lo è. Ci vogliono solo coraggio, fermezza, dignità. Le grandi assenti del ventennio berlusconiano, soprattutto la dignità, oscurata dalle luci abbaglianti di un paese che sembra uno studio televisivo.
Cesare Sangalli