Femminile Plurale

 

La medicina del dolore è la nuova frontiera della sanità
No, woman no cry
La prima sfida era alleviare il dolore cronico. Per farlo, si doveva uscire dagli angusti recinti dell'anestesia, percepita sempre come mezzo e mai come fine.
Il messaggio è semplice e rivoluzionario: dal mal di schiena ai dolori del parto, dal cancro alla sclerosi multipla, nessuno deve rassegnarsi alla sofferenza


“La prima volta che ho praticato un parto indolore per la mia prima figlia Simona, con la classica epidurale, mi sono quasi dovuto barricare nella stanza di degenza . L'ambiente era tutto ostile, le ostetriche più ancora degli uomini”. Correva l'anno 1990, Leonardo Consoletti era un giovane medico anestesista che lavorava nella sua città di origine, Foggia. Oggi, a 56 anni, dirige una struttura di avanguardia (Medicina del Dolore), e a Foggia, grazie all'impegno del suo team, i parti con le tecniche analgesiche sono quasi la metà del totale.
“Cosa che ha permesso fra l'altro di ridurre notevolmente il ricorso ai parti cesarei”, aggiunge Consoletti.
Perché spesso è solo la paura della donna di soffrire troppo a far richiedere un intervento chirurgico non necessario.
Anche se non viene detto esplicitamente, è come se il dolore del parto fosse una conditio sine qua non dell'essere madre, e quindi dell'essere donna. Una specie di rito di passaggio, una sorta di iniziazione che si tramanda di generazione in generazione. Insomma, un tabù ancestrale, l'adempimento della maledizione biblica (“partorirai con dolore”).
L'esempio del parto spiega forse meglio di ogni altro quanto sia costellata di pregiudizi e false certezze la strada della sofferenza, o meglio, del sollievo della sofferenza. “Eppure è uno dei primi doveri del medico, dal giuramento di Ippocrate in poi”, tiene a ricordare Consoletti.
Per quanto possa sembrare paradossale, per arrivare a riconoscere il dolore dei pazienti e il diritto a richiedere ogni forma prevista dalla medicina moderna per la sua attenuazione, c'è voluta una legge, che è assai recente, la legge 38 del 2010. Vi sono fissati alcuni principi fondamentali che meritano di essere conosciuti da tutti, per quanto possano sembrare intuitivi o scontati: l'esperienza dimostra che non lo sono affatto.
Un primo criterio stabilisce il diritto a non soffrire inutilmente. Più precisamente, a “vedere alleviata la propria sofferenza nella maniera più efficace e tempestiva possibile”.
Il secondo criterio, ovvero il diritto al riconoscimento del dolore, stabilisce che “tutti gli individui hanno diritto ad essere ascoltati e creduti quando riferiscono del proprio dolore”. E' la famosa “centralità del paziente”, che viene citata e sbandierata nella teoria medica da almeno vent'anni, ma che nella prassi (ognuno di noi lo ha sperimentato almeno una volta) vede ancora il malato come ricettore passivo (e muto) di cure stabilite, o addirittura imposte, da chi detiene il vero potere, il potere della conoscenza. Non a caso altri principi della legge parlano del diritto “a partecipare attivamente alle decisioni sulla gestione del proprio dolore”, e della necessità di estendere questo diritto ai soggetti “senza voce”, cioè anziani e bambini, e in generale a tutti i soggetti deboli che fanno fatica ad essere ascoltati.
Alcuni altri principi contenuti nella legge citata ci introducono direttamente nella nuova frontiera della medicina del dolore: il diritto ad un assistenza qualificata (cioè attuata con gli standard di qualità più recenti e validati) e soprattutto continua.
Qui occorre fare qualche passo indietro, quando non si parlava di medicina del dolore, ma solo e sempre di anestesia.
Pensate alla percezione comune, quella di ognuno di noi, perché è assolutamente significativa: l'anestesista viene visto normalmente solo nel ruolo di appoggio, di assistenza del chirurgo (o fisiatra, oncologo, neurologo: insomma, dello “specialista”), che è il vero dominus della nostra salute. L'anestesista arriva, addormenta il paziente, in tutto o in parte, e se ne va. Arrivederci e grazie.
Poi magari succede (e succede spesso) che dopo un'operazione ( o una terapia di altra natura, ma sempre con forti ricadute sul paziente, compreso chemio e radioterapie) ce ne vuole un'altra e un'altra ancora. Il dolore si fa cronico, diventa addirittura una malattia in sé, e continua il calvario nomade del paziente, si moltiplicano i “viaggi della speranza”.
Ed è proprio dai fallimenti, dalle sconfitte, come spesso succede nella vita, che nasce la medicina del dolore.
Perché il dolore cronico (cioè il dolore che dura più di sei mesi) finisce per condizionare la vita delle persone.
Può far perdere il lavoro. Impoverire la vita familiare e sociale. Costringere le persone a sentirsi “casi umani”, da guardare con pietà, fastidio, indifferenza, o con una forma esagerata e sbagliata di attenzione. Può spingere il paziente ad atteggiamenti vittimistici o ricattatori, indurre all'isolamento e alla depressione. Chi
soffre di un dolore cronico ha quasi sempre la sensazione di essere solo, un novello Giobbe punito per una colpa mai commessa.
Questo è l'aspetto più paradossale del dolore cronico, perché si calcola che ne siano coinvolti, in misura maggiore o minore, 12 milioni di persone, il 20 per cento circa della popolazione.
Se “uno su mille ce la fa”, come dice la canzone, uno su cinque soffre a lungo o per tutta la vita, senza sapere che esiste invece un'alternativa.
L'alternativa si chiama appunto medicina del dolore, e si potrebbe riassumere con due semplici concetti: tecnologia e buon senso.
Nessun medico del dolore vende soluzioni miracolose, meno che mai paradisi artificiali o risposte filosofiche e ultime sul tema della sofferenza. Non ci sono di mezzo ideologie laiche, visioni del mondo alternative o teoremi esistenziali. I medici del dolore sanno benissimo che la sofferenza ha mille risvolti, e che tutte le
figure di supporto (amici, familiari, psicologi, sacerdoti, guide spirituali) sono importanti. In una battuta, rubata a Woody Allen, si potrebbe dire “basta che funzioni”. Di sicuro, le loro soluzioni funzionano.
Parliamo per esempio di neuromodulazione del dolore (più correttamente: del messaggio nervoso). Con una premessa: il dolore è soggettivo, il medico deve cercare di individuare il livello della sofferenza sulle scale predisposte allo scopo, e la soluzione più adatta a quel livello.
Fatta zero l'assenza di dolore e dieci il dolore massimo, quello praticamente insopportabile, la neuromodulazione si applica soltanto per una sofferenza dal livello sette in su, e solo quando i sistemi convenzionali non funzionano più.. Di che si tratta? Si tratta di intervenire con impulsi elettrici direttamente sui centri del midollo spinale che veicolano il segnale del dolore al cervello.
In pratica si “disturba” il segnale dell'emittente, con quello che si chiama il “pacemaker del dolore” (o neurostimolatore midollare) : un catetere sottile inserito nella schiena con poli elettrici che vanno a toccare i cordoni posteriori del midollo spinale dove passano le fibre nervose che portano, ad esempio, i segnali del dolore delle gambe o della schiena al cervello.
E' ovvio che non si risolve il problema in sé; è altrettanto ovvio che il dolore non scompare come per magia.
Ma si raggiunge un'attenuazione del 50-60 per cento, in modo permanente, con un apparato invisibile, e soprattutto senza dover ricorrere a farmaci che avvelenano tutto il corpo, perché devono essere ingeriti, metabolizzati e portati dal sangue ai centri nervosi, con inevitabili effetti collaterali, con risultati inferiori e
costi economici superiori. Una soluzione geniale proprio perché è semplice. Gli effetti benefici sul paziente sono straordinari: per molte persone è un autentico ritorno alla vita.
Sulla stessa falsariga ci sono le pompe infusionali sottocutanee: minuscoli serbatoi metallici, contenenti miscele di farmaci analgesici, inseriti sotto la cute dell'addome e collegati al midollo spinale ove vengono rilasciati i farmaci necessari al paziente, che si tratti dei prodotti per la sclerosi multipla o degli oppiacei (come le morfine) per sedare il dolore.
Ancora una volta, agire direttamente sui centri nervosi coinvolti consente di ridurre enormemente (fino ad un centesimo) la quantità necessaria di morfina o altro prodotto. Cosa che consente di avere una vita più regolare, per esempio di poter guidare la macchina senza rischi, evitando tutta una serie di effetti collaterali, dall'ottundimento cerebrale al vomito o alla stipsi.
Se poi qualcuno ancora avesse perplessità sull'uso della morfina (che, è bene ricordarlo, è una sostanza presente nel corpo umano come endorfina, prodotta in via endogena), in quanto “droga”, la tecnica a lento rilascio scorpora l'effetto analgesico dall'euforia, cioè da quello stato artificiale e dannoso di benessere ricercato dai tossicodipendenti.
In ogni caso, è bene ripeterlo, stiamo parlando di casi estremi del dolore, il vertice della piramide, sopra il livello sette della sofferenza. Per tutto il resto, valgono ancora tutti i rimedi farmacologici tradizionali, fino al banale paracetamolo, se si scende sotto il livello quattro, e perfino le carezze o la ninna nanna per i bambini.
Ma anche un materasso che ci fa dormire bene, nel caso del mal di schiena, uno dei dolori più diffusi in assoluto, soprattutto dopo i 60 anni. Il principio di base, ripetiamo, è molto pragmatico (si potrebbe dire umile): basta che il rimedio al dolore porti sollievo al paziente.
La domanda del cronista (e del lettore) a questo punto dovrebbe sorgere spontanea: perché soluzioni così valide e positive non hanno ancora un' applicazione estensiva? Oppure, perché solo quattro regioni (Toscana, Emilia Romagna, Sicilia e Veneto) hanno recepito la legge38 del 2010, citata in apertura? Per alcuni motivi concreti e per uno di tipo generale, per non dire assoluto.
I motivi concreti sono che la medicina del dolore non muove grandi interessi economici, e quindi ha avuto bisogno di una mobilitazione degli operatori per cominciare ad affermarsi (dall'associazione dei medici Federdolore alla Fondazione Isal creata da William Raffaeli, uno dei pionieri in Italia della medicina del dolore). Inoltre, la medicina del dolore, partita dal settore dell'anestesia, non godeva e non gode ancora di un grande prestigio accademico.
Il motivo generale o assoluto è semplicemente l'ignoranza. Sia nel senso stretto e semplice della non conoscenza, sia nel senso più ampio e negativo dei tanti tabù e pregiudizi legati ad un tema difficilissimo come quello del dolore.
E'la stessa ignoranza collettiva che portò Giobbe a scagliarsi contro i suoi presunti amici, quelli che lo invitavano a confessare la sua colpa, visto che la sua malattia non poteva essere altro che un castigo divino:
“Quel che sapete voi, lo so anch'io; non sono da meno di voi. Voi siete raffazzonatori di menzogne, siete tutti medici da nulla” (Giobbe, 13, 1-4).
Cesare Sangalli