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Piove, governo ladro
Il titolo stavolta è puramente indicativo. Il riferimento è al tempo bizzarro di questo inizio estate 2006, e alla ritrovata tranquillità del vivere quotidiano, a cui appartiene questa espressione popolare: non si fa certo riferimento alla moralità della nuova compagine ministeriale, magari non esente da ombre, ma certo tutt’altra cosa rispetto a quelli di prima, la Banda Bassotti comandata da Berlusconi.
Così, dopo un’attesa che è sembrata lunghissima ai tanti che non vedevano l’ora di voltare pagina, abbiamo un nuovo governo. Prodi ha fatto del suo meglio, il che significa che ha messo da parte tutte le promesse, optando per la dura Realpolitik. Forse era la sola scelta possibile, dati i tempi che corrono.
Tutti dentro, dunque: i segretari di partito, i leader veri o presunti, i capicorrente e quant’altro. Un vero trionfo per la partitocrazia, con il corollario dei sottosegretari assegnati col bilancino. Da un certo punto di vista, è perfino “giusto”: nessuno si potrà sottrarre alle proprie responsabilità in una fase delicatissima per il Paese. Come già ampiamente sottolineato da Curzio Maltese, il governo rappresenta perfettamente il prototipo dell’uomo politico italiano: maschio, 50-60 anni (e oltre), lunga militanza o carriera politica (il che ormai vale anche per Di Pietro). Grandi assenti, le donne e le nuove generazioni (a partire dai nati negli anni Sessanta, la prima generazione realmente privilegiata alla nascita, la prima ad essere esclusa dal futuro).
Si può dire che per molti politici probabilmente (leggi: ottimisticamente) è l’ultimo treno,
l’ultimo appuntamento con la storia, un po’ come il mondiale in Germania per i presunti
Grandi Campioni (a partire da Totti e Del Piero). Sul ciclone del mondo del calcio scriveremo nella prossima rubrica.
Per ora torniamo alla squadra allenata da Prodi (che ha già chiamato tutti in ritiro, considerata l’eccessiva disinvoltura nelle dichiarazioni di tanti ministri), premettendo che, come per i calciatori, le pagelle vere si danno alla fine, sulla base dei risultati.
Non si può non cominciare dall’accoppiata Massimo D’Alema - Giuliano Amato, i gemelli del gol, stile Graziani-Pulici. Sono gli ultimi presidenti del consiglio di centrosinistra prima dell’alluvione berlusconiana del 2001. Intelligenti, ironici, campioni del riformismo alla Tony Blair consacrato dalla loro pubblicazione “Italianieuropei” (vedi “Capodanno col botto”).
Due maestri nell’arte di defilarsi al momento opportuno, galleggiando sulle rovine altrui
(l’uno di Craxi, il cattivo, e l’altro da Occhetto, il buono) e sulle macerie dell’Italia. Entrambi ostentano un distacco che vorrebbe essere assai “british” (e in questo è più bravo Amato, anche perché lui un lavoro vero ce l’avrebbe), ma in realtà sono attaccati come pochi al potere, e sognano di passare alla storia come grandi statisti. Che il loro nome circolasse nella corsa al Quirinale non deve stupire: ci riproveranno sicuramente fra sette anni, ma erano pronti da subito, perché si sentono i migliori in assoluto. Solo i fatti si ostinano a negare loro il riconoscimento che credono di meritare. Amato ha pontificato per tutti gli anni Ottanta, da brillantissimo opinionista dell’”Espresso”, senza mai segnalare alla plebe che la corruzione era diventata sistema, e che il debito pubblico era raddoppiato e viaggiava ormai fuori controllo. In piena Tangentopoli, toccò a lui dare la prima stangata economica, non senza avere la faccia tosta di chiedere pieni poteri per il suo governo, una sorta di sospensione del controllo parlamentare perché eravamo, ovviamente, di fronte ad un’emergenza drammatica, e ci voleva un Cincinnato per tirarci fuori dai guai. Quell’uscita improvvida venne presto dimenticata, come l’infelice battuta “purtroppo c’è la Costituzione” opposta a quelli che gli chiedevano di vietare il Gay Pride a Roma nell’anno del Giubileo.
Non tutti colsero l’ironia del Dottor Sottile, che comunque parlava al Parlamento, non a Bruno Vespa, con il quale Amato ebbe modo di spiegarsi. Da ministro degli Interni dovrà gestire il processo di Genova per i fatti del 2001, la pagina più vergognosa per le nostre forze dell’ordine da vent’anni a questa parte: se la caverà con il suo stile ineffabile, potete starne certi.
Di D’Alema si è già detto fin troppo. Della politica estera del suo governo, ricordiamo in positivo lo scatto di orgoglio sul caso Ocalan, che invece gli viene rimproverato come un’infamia (in certi casi dagli stessi che esaltarono Craxi quando negò il vero terrorista Abu Abbas agli americani). In negativo, la “guerra umanitaria” per il Kosovo (ci si dovrebbe vergognare solo per aver coniato il termine), gestita in toto dagli americani tramite la Nato, con sovrano disprezzo del Parlamento sovrano, una guerra che invece D’Alema ricorda sempre con l’orgoglio amaro (e compiaciuto) di chi è stato capace di assumersi grandi responsabilità (cioè obbedire come uno scolaretto a Washington). Diciamo che almeno, con D’Alema agli Esteri, le pagliacciate del Berlusca saranno solo un ricordo, con grande sollievo dei nostri ambasciatori, mediamente piuttosto bravi.
Sistemati ai ministeri più importanti i due uomini più ambiziosi, e fuori discussione la nomina di Padoa-Schioppa all’economia, sono pochissime le scelte che possono considerarsi azzeccate: sicuramente Di Pietro ai Lavori Pubblici, soprattutto dopo la vergogna Lunardi appaltatore di se stesso, e Livia Turco alla Sanità. Tutto sommato ci stanno anche un verde all’Ambiente (Pecorario Scanio) e un rifondarolo al Welfare (tale
Ferrero).
Assolutamente discutibili le scelte di Mussi alla Ricerca e Gentiloni alle Telecomunicazioni (soprattutto il secondo). Vediamo se da politici esperti (soprattutto il primo) riusciranno a fare qualcosa di buono in due campi importantissimi. Il peggio sembrerebbe raggiunto con Mastella alla Giustizia, non solo per l’uomo, ma per il modo in cui lo hanno paracadutato a via Arenula. Ma Mastella sembra perlomeno innocuo, tanto quanto è stato letale il suo predecessore Roberto Castelli, che potrebbe giocarsi il titolo di peggior ministro della storia repubblicana per incompetenza, arroganza, servilismo nei confronti di Berlusconi, ostilità di stampo criminale nei confronti dei giudici e pure un’antipatia naturale fuori dal comune.
No, forse la scelta peggiore in assoluto è stata quella di Fioroni alla Pubblica Istruzione.
Domanda: chi è Fioroni? Non si sa. E’ questo il punto: perché un anonimo politico della
Margherita dovrebbe gestire l’educazione delle nuove generazioni, soprattutto dopo i danni procurati dalla sciagurata gestione Moratti? Qui Prodi, con il suo passato di docente, ha davvero toccato il fondo, abbandonando la scuola alle logiche di partito. Oltre tutto, di un partito che lo ha apertamente osteggiato fino all’anno scorso (ricordate l’uscita di Rutelli “pane e cicoria”?). Ecco, si può partire dalla Pubblica Istruzione per parlare di tutto quello che non c’è, nel governo, che è molto più di quello che c’è (i partiti). Innanzi tutto, non ci sono le donne, e certo non per colpa loro. Anche solo considerando quelle presenti, Emma Bonino sarebbe stata meglio di D’Alema agli Esteri, Rosi Bindi meglio di Mussi alla Ricerca (da ministro della Sanità aveva affrontato i “baroni” dell’Università, i veri gerontocrati della nazione), e Giovanna Melandri meglio di Rutelli ai Beni culturali. Sedotte (dalle promesse) e abbandonate.
Poi non ci sono i giovani, non c’è il minimo segnale di rinnovamento. Infine, non ci sono gli esterni, tipo un Umberto Eco alla Pubblica Istruzione, un Giancarlo Caselli alla Giustizia, una Tana De Zulueta alle Telecomunicazioni, solo per fare qualche esempio. Niente da fare. Dato il governo precedente, qualsiasi cosa sarebbe stata meglio: ma questa è solo la squadra numero 56 o 57 della vecchia Prima Repubblica, che non è mai finita. Diciamo che ha qualche possibilità di fare meglio dell’Italia ai Mondiali, e diciamo che speriamo di essere stati troppo critici in entrambi i casi. Ma speriamo anche che ai prossimi mondiali e alle prossime elezioni , gran parte di questi campioni stia dove merita: a casa.
Cesare Sangalli