Femminile Plurale

 

Hannah Arendt: banalità del male e responsabilità dell’agire


Nell’estate del 1949 Hannah Arendt, filosofa, storica, giornalista e scrittrice tedesca, naturalizzata statunitense, tornò in Germania, dopo sedici anni di esilio ( la privazione dei diritti civili e la persecuzione subite in Germania a partire dal 1933, a causa delle sue origini ebraiche, contribuirono a far maturare in lei la decisione di emigrare. Il regime nazista le ritirò la cittadinanza nel 1937, quindi rimase apolide fino al 1951, anno in cui ottenne la cittadinanza statunitense).
Su questa esperienza scrisse un breve saggio: Le conseguenze del regime nazista. Intervistando i rappresentanti delle diverse componenti della società, rimase profondamente colpita dal fatto che, degli orrori perpetrati prima e dopo la guerra nei confronti degli ebrei e delle popolazioni di buona parte d’Europa, non si parlava. Non si spiegava se questo comportamento fosse dovuto al bisogno di rimuovere un dolore, comunque percepito, o alla stessa incapacità di avvertirlo.
La denazificazione imposta dalle truppe di occupazione aveva provocato la rimozione forzata dei temi devastanti della propaganda di regime e tutto il paese sembrava essere tornato a coltivare un patriottismo sentimentale e, a suo avviso, fuori luogo.
Il rifiuto della responsabilità, ma anche l’incapacità di vivere ed elaborare il proprio ruolo, magari anche in chiave di crisi interiore, connotarono buona parte delle interviste effettuate dalla Arendt in quei mesi. Questa diffusa “spaventosa innocenza” le confermò le tesi elaborate nella sua opera più famosa, Le origini del totalitarismo: “Il dominio totalitario era qualcosa di più che la forma peggiore di tirannide. Il totalitarismo corrompeva la società fino al midollo”. Successivamente, anche quando durante il processo Eichmann elaborò il concetto della “banalità del male”, non mutò l’ interpretazione fondamentale del fenomeno totalitario come cesura storica radicale, irruzione dell’inumano e impraticabilità dei tradizionali canoni di interpretazione storica.
Nel 1961, come corrispondente del The New Yorker, Hannah Arendt seguì a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann, militare e funzionario tedesco, rapito in Argentina da un commando di agenti israeliani, e quindi condannato a morte dopo un lungo processo. Il resoconto del processo fu pubblicato in Italia nel 1964 con il titolo: La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme.
Chi era Adolf Eichmann? Hanna Arendt lo descrive come un uomo comune, mediocre, che vive di idee altrui e parla per frasi fatte. Egli dichiarò con insistenza, durante tutto il processo, di non aver mai ucciso un uomo, ebreo o non ebreo. Non si poteva neppure pensare che fosse animato da un odio folle ed ingiustificato per gli ebrei, né da un dichiarato antisemitismo,circostanza che, in un certo senso, avrebbe chiarito, per quanto non giustificato, le sue azioni. Il suo “unico” reato era stato quello di aver “coscienziosamente” collaborato allo sterminio di un popolo, perché così gli era stato ordinato (non si poteva certo negare che Eichmann fosse un uomo ligio alla legge). Tuttavia, proprio la sua cieca obbedienza alla legge del Führer lo aveva inserito in un mostruoso progetto di morte. Quando poi, durante il processo, si parlò di “coscienza” o “responsabilità”, fu facile per Eichmann spiegare che la sua convinzione di essere dalla parte giusta gli veniva non dal cuore, ma dal semplice fatto che nessuno sembrava essere contrario alla soluzione finale.
La figura di questo oscuro esecutore del male era emblematica del devastante pericolo della irriflessività. Purtroppo Eichmann non era solo: di uomini come lui ce n’erano tanti, e quei tanti non erano né perversi, né sadici, bensì terribilmente normali. Egli era tutto fuorché anormale ed era questa la sua “qualità” più spaventosa. Sarebbe stato più accettabile un mostro disumano, perché proprio in quanto tale avrebbe reso difficile ogni tipo di identificazione. Ma quello che diceva e il modo in cui lo faceva, tracciava il quadro di una persona che sarebbe potuta essere chiunque, sarebbe bastato, infatti, essere senza idee, come lui.
Eichmann era semplicemente una persona “capitata” nella realtà che aveva davanti, incapace di elaborare criticamente cosa stesse facendo; la sua unica attività era quella di articolare la lingua e i codici che gli erano stati imposti, il suo era un linguaggio di frasi fatte e di cliché del gergo burocratico. Hannah Arendt ricorre all’espressione “banalità del male” poiché il tipo di male rappresentato da Eichmann non è radicato in una indole malvagia, predisposta a compierlo, ma può anche provenire semplicemente da un grigio burocrate: “Eichmann non era uno Jago né un Macbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che fare il cattivo. Egli non aveva motivi per essere crudele. Non era uno stupido, era semplicemente senza idee, e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo”. Questa lontananza dalla realtà e l’incapacità di riflettere sul proprio agire sono il presupposto fondamentale dell’universo totalitario, che tende ad alienare l’uomo, rendendolo il mero ingranaggio di una macchina. La struttura dello stato totalitario, la promulgazione di leggi sempre più lesive della dignità umana, l’ossessiva e capillare propaganda, la radicale deresponsabilizzazione della morale individuale, avevano creato una società di automi, all’interno della quale ognuno abdicava al proprio pensiero, nella cieca obbedienza al volere ed alla legge del Führer. In questo contesto, ferme restando le particolari responsabilità personali, la figura di Eichmann, il suo ruolo nell’ingranaggio nazista, diventano “banali” se inserite in un mare di consenso e di corresponsabilità che superano di gran lunga i confini della stessa Germania. La riduzione degli individui ad una tale forma di passività può infatti derivare sia dalla situazione limite che si viene a creare in un regime totalitario, sia dalla lenta scissione che, come la Arendt scrive in Vita activa, si è consumata nella tradizione filosofica e politica moderna tra pensiero e azione, e che è sfociata nell’esclusione del pensiero dall’orizzonte dell’agire. Le riflessioni sui meccanismi che conducono gli individui ad alienarsi dal mondo che li circonda, rendendoli pronti al peggio, ad esempio ad un regime totalitario, spingono la filosofa ad interrogarsi sull’attività del pensare che caratterizza la natura propriamente umana dell’individuo. Nelle splendide pagine de La vita della mente, Arendt elabora una profonda analisi della pura attività del pensiero, per poi giungere ad una riflessione sull’agire responsabile come naturale conseguenza della capacità di giudicare correttamente. Attraverso una reinterpretazione in chiave politica dei motivi socratico e kantiano del due- in- uno e dell’ uno- con- l’altro, la Arendt concentra la sua analisi sull’indispensabile carattere di pluralità e comunità dell’esistenza umana. Nell’attività del pensare si è come scissi in due: si è allo stesso tempo se stessi e il proprio interlocutore. Questa dualità costituisce la nostra coscienza e riveste un ruolo indispensabile poiché in questo dialogo muto con noi stessi sottoponiamo ad esame tutto ciò che diciamo e facciamo, nel tentativo di evitare l’auto contraddizione. Imparando ad avere rapporti con noi stessi, ci insegna Socrate, impareremo ad averne con gli altri, evitando di attribuire alla responsabilità altrui, la mancata composizione dell’incomprensione soggettiva. Mentre Socrate ha scoperto il nesso indispensabile tra la ricerca di un accordo con se stessi e la possibilità di vivere in maniera responsabile, Kant ha scoperto la necessità, intrinseca all’esistenza umana, della continua ricerca dell’accordo con gli altri. Nella valutazione kantiana del giudizio estetico, sostiene Hannah Arendt, è possibile intravedere un nesso tra arte e politica, per il fatto che entrambe presuppongono l’indispensabile presenza dell’altro ed uno spazio di comunicazione che sono i requisiti costitutivi della libertà di pensiero e della tessitura stessa del legame sociale. La consapevolezza del carattere necessario della pluralità comporta la ferma denuncia di tutte quelle forme di potere che distruggono la sfera politica della vita umana e che, condannando gli uomini all’isolamento e all’estraniazione, contrappongono alla “legge della pluralità”, la “legge del deserto”. La stessa inesorabile “banalità del male” sembrerebbe arrestarsi solo attraverso la capacità di giudicare riflessivamente, la quale non si avvale di leggi stabilite e di criteri imposti. La valenza politica del pensiero sta nell’abbandonare i luoghi comuni, distruggendone le pretese di validità e nell’esercitarsi nella facoltà di riflessione propria di ogni individuo, senza però tralasciare di considerare il punto di vista dell’altro. Credo di poter giungere alla conclusione con una doverosa constatazione: la drammaticità degli eventi con i quali Hannah Arendt ha dovuto confrontarsi, anche in prima persona, non le hanno tuttavia impedito di attribuire all’uomo, non solo quel tipo di potere per mezzo del quale egli è in grado di dare vita alle più orribili tragedie, ma anche una irriducibile possibilità che è insita in lui, in quanto individuo dotato di pensiero: la possibilità di scegliere di essere responsabile.
“Nell’ambito delle vicende umane, noi conosciamo l’autore dei “miracoli”. A realizzarli sono degli uomini che per aver ricevuto il duplice dono della libertà e dell’azione, possono fondare una loro realtà” ( Hannah Arendt).
Arianna Pansini