Compagno di scuola (compagno per niente)
Mentre è iniziato il conto alla rovescia dei famosi “mille giorni per cambiare l’Italia”, è cominciato anche l’anno scolastico, con una bella comparsata di premier e ministri vari.
Niente da dire, sull’immagine vanno forte, i “Renzi boys” (oddio, alcuni, come Delrio, proprio “boys” non sono). Sorrisi, saluti, baci e abbracci. E selfies, e tweet, e post, ovviamente.
Qualche volta però parte una contestazione, com’è successo alla ministra Stefania Giannini venuta a Foggia ad inaugurare l’anno accademico. Sarà che la critica fa da sveglia (mentre il consenso addormenta), fatto sta che la titolare della Pubblica Istruzione si è lasciata scappare una promessa: “Dall’anno prossimo, basta con i test d’ingresso a Medicina”.
Nessuno si è impressionato più di tanto, perché, se si sta alle dichiarazioni, anche la ministra della Difesa Pinotti si era lasciata andare per un attimo sugli F-35, col solito titolo ad effetto tipo “Governo: stop agli F35”, per poi correggersi, precisare, valutare bene, e alla fine andare avanti come nulla fosse.
Bisogna riconoscere che la tecnica funziona. E’ una sorta di gigantesco “facimm’ammuina”, espressione usata proprio da Renzi contro la minoranza PD, quasi un lapsus freudiano. Il termine nasce da un falso storico attribuito alla Marina del Regno delle Due Sicilie: per impressionare i superiori, dare un’idea di dinamismo, di attività febbrile, si diceva all’equipaggio della nave di cambiare tutte le posizioni, da destra a sinistra, da sopra a sotto, da prua a poppa.
Provare a inseguire Renzi e i suoi sul loro terreno è impresa inutile. Lo fa già quasi tutto il circo mediatico italiano, con il risultato di avere trasmissioni tutte simili (vedi presunto duello fra il nuovo “Ballarò” e “Di martedì”), terribilmente ripetitive, in cui anche i migliori (per esempio, Landini) se dicono la stessa cosa il martedì su Raitre e il giovedì su La7, perdono molta efficacia.
Bisognerebbe ribaltare i ruoli: fare proposte semplicissime e vedere poi chi sono gli innovatori e chi i conservatori.
Per quanto riguarda la scuola, per esempio, bisognerebbe chiedere di abolire immediatamente il numero chiuso per tutte le facoltà (tanto poi una deroga si trova sempre, i dentisti possono stare tranquilli). Poi chiedere di portare l’obbligo scolastico a 18 anni. Infine, concedendo magari un po’ più di tempo, istituire il servizio civile obbligatorio
(su quello cosiddetto “universale” – tutti quelli che fanno domanda accedono – ci stanno già lavorando, stando agli annunci).
Tre proposte semplici: per la prima (abolizione del numero chiuso) basterebbe un decreto legge; per l’obbligo scolastico fino a 18 anni una legge ordinaria, che potrebbe valere per i nati dal Duemila in poi. E per i nati dal Duemila in poi si potrebbe perfino ipotizzare il servizio civile universale, se non obbligatorio.
Sulle cose semplici, Renzi e la sua corte annaspano. Lo avete visto tutti (si fa per dire) durante “Che tempo fa”, sull’articolo 18. Perfino uno morbido come Fazio Fabio, che fa fare bella figura a tutti, ha smascherato la contraddizione, con la semplicità dei bambini: se vuoi tutelare di più i precari, perché devi togliere l’articolo18(fra l’altro, già indebolito dalla ministra Fornero, con il giudice che non ha più l’obbligo, ma la facoltà, di decidere il reintegro se il licenziamento non è avvenuto per giusta causa)? Ovviamente Renzi cambia discorso, ripete come un mantra le parole “futuro, cambiamento, modernità”.
Si è fatta la stessa operazione (di marketing) per far passare l’indecente politica sulla scuola degli ultimi venti anni (diciamo dalla riforma Berlinguer,un renziano ante litteram, in poi). In questo settore, a parte le orride terminologie inglesi riprese e aumentate fino alla nausea da Renzi e da Stefania Giannini( da “governance” a “planning”) , fra le tante parole feticcio, tre hanno avuto un grandissimo successo di pubblico e di critica: “autonomia”, “eccellenza”, “merito”.
Partiamo dall’ultima, perché è la più utilizzata da un trentennio, anche giustamente, nel paese delle caste, delle raccomandazioni e delle affiliazioni.
Il “merito”, anzi la “meritocrazia”, sembrava essere la parola chiave per la rivincita degli emarginati, per il riscatto di chi era fuori dai giochi, per l’affermazione della cultura della capacità contro la cultura della raccomandazione.
E’ diventato invece il cavallo di Troia della solita operazione neoliberista, per quanto all’italiana (nei paesi anglosassoni, dove non c’è posto per i perdenti, e dove il classismo non è nemmeno nascosto, almeno chi è bravo trova davvero maggiori opportunità rispetto all’Italia).
Il teorema è semplice: studia chi se lo merita, insegna chi vale davvero, il resto a casa. Il che significa che il finanziamento va solo ai migliori, i peggiori devono soccombere, chiudere, lasciare il passo a chi corre. Guarda caso, le scuole migliori risultano essere quelle già più facoltose, frequentate dalle persone più benestanti, quasi sempre nel centro-nord. Le scuole più povere, frequentate dai ceti più bassi, nelle zone peggiori, in gran parte al Sud, sono quelle con gli alunni più somari (chi l’avrebbe mai detto). Quindi queste scuole non “meritano” niente, al massimo un po’ di elemosina. Ma siccome non si può dire in questi termini, ecco che ci si affida a punteggi e classifiche: mondiali, dei paesi OCSE, europee, nazionali, scuola per scuola.
Test (i terrificanti INVALSI), valutazioni interne ed esterne, certificazioni europee e marchi di qualità. (manca solo l’ISO 2000). Tutti competono con tutti, perché ci hanno spiegato che la competizione è il sale della vita e la concorrenza il motore dell’universo.
Una scuola valida è quella che può vantare molte “eccellenze”, è quella che produce un buon curriculum, e ora si può perché c’è l’”autonomia”, ogni preside –manager è libero di scegliere gli insegnanti migliori, e quindi gli alunni migliori, aumentare i risultati, pardon, le “performance”, e prendere più soldi.
Gli altri, restino nella decadenza e nella mediocrità, è “quello che si meritano”, soprattutto oggi come oggi, ché “non ci sono soldi”. Quindi, la scuola presenta la sua offerta, come su ogni buon mercato, anzi il “Piano di offerta formativa” (POF), per fornire un buon “prodotto culturale”. Dunque si fa marketing, si fa pubblicità, ci si autopromuove, ci si arrangia, anche perché se mancano i clienti, la scuola chiude. Mantenere le scuole nei piccoli centri, avere classi poco numerose, spendere risorse per il recupero scolastico è un lusso che non ci possiamo permettere (?).
A fronte di questo sfacelo, ci si chiede veramente come abbiamo fatto a ridurci così.
Soprattutto, come abbiamo fatto a cancellare la memoria della Scuola Pubblica Italiana, a cui si potrebbe (dovrebbe) fare un monumento. La scuola italiana, con tutti i suoi problemi,
ha funzionato egregiamente per decenni: senza “autonomia”, senza “eccellenze”, senza classifiche e balle sul “merito”.
Chi ha più di 40 anni provi a pensare alla sua scuola elementare. Provi a immaginare il vecchio maestro o la vecchia maestra che girano uno spot pubblicitario per far venire i bambini (“venghino, siori, venghino”) alla “Cesare Battisti” o alla “Giovanni Pascoli” (magari anche alla “Salvador Allende”). Serve un’immagine del genere per far capire a che punto siamo arrivati.
E’ arrivato il momento di ribaltare completamente le plumbee, arroganti certezze del libero mercato, quelle che portano sempre e comunque al darwinismo sociale, e ribadire con forza che non è la competitività il sale della vita, ma la cooperazione, e che il motore del mondo non è la libera concorrenza, ma la solidarietà (fosse il sermone domenicale, diremmo l’amore).
Ma la solidarietà, e la cultura della solidarietà, che dovrebbe essere il vero patrimonio nazionale (ed europeo), visto che è valore costituzionale, è stata abbandonata da gran parte del mondo cattolico per difendere le scuole private (che vorrebbero essere confessionali, ma in realtà sono solo scuole borghesi); ed è stata abbandonata da gran parte della sinistra (a partire da Luigi Berlinguer) perché, a partire dagli anni Ottanta, le culture neoliberiste hanno stravinto.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Trent’anni fa, noi, le classi più numerose del dopoguerra (per fare giustizia delle stupidaggini sulla “scuola di massa che non funziona”) ci siamo iscritti all’università senza nessun test d’ammissione (tranne pochissime eccezioni, tipo odontoiatria), per la prima volta più donne che uomini. I nostri figli, invece, devono penare fra esami impossibili e furberie da codice penale. Tu chiamala, se vuoi, “modernità”..
Cesare Sangalli