Femminile Plurale
L’adozione internazionale vista da un orfanotrofio di Addis Abeba
La seconda opportunità
Un episodio drammatico fa scattare una solidarietà che diventa progetto.
La signora Almaz voleva dare una casa a bambini rimasti senza genitori. E dopo una casa, una famiglia. Con l’aiuto della missione cattolica, il progetto si è fatto realtà. Ma nel mondo dell’adozione non c’è niente di semplice
Almaz Ashene è una distinta, bella signora a cui non viene da chiedere l’età, non fosse altro che per la sua eleganza naturale e il suo sorriso disarmante. I suoi modi così garbati e morbidi (verrebbe da dire così “etiopi”) nascondono in realtà una grande determinazione, quella di tutte le persone che credono in un’idea, in un progetto, in una realizzazione, fino a diventarne sinonimo.
“Almaz Ashene” è infatti il nome di un’associazione (“Children and family support association” per la precisione) che si occupa di infanzia abbandonata e aiuto alle famiglie, ed è anche il nome di un orfanotrofio in un quartiere periferico di Addis Abeba. Per andarci si passa davanti all’enorme palazzo presidenziale di questa capitale molto estesa, che a tratti appare maestosa, a volte sembra tutta in costruzione, in un febbrile dinamismo di marca cinese, ma che è ancora troppo intrisa di povertà per proiettarsi in un futuro che pure si vorrebbe assai ambizioso.
Vent’anni fa, anzi nel 1991, qui c’era una guerra civile in corso, un drammatico cambio di regime, con la fuga di Menghistu Hailé Mariam, il “Robespierre del Corno d’Africa”, la fine del suo feroce governo comunista, e l’avvento di Meles Zenawi, leader della resistenza che veniva dal Tigray, inamovibile presidente fino alla sua morte, nello scorso agosto..
In quei giorni di guerra, alla signora Almaz capitò di assistere all’immane esplosione di un deposito di armi. Dalla strage che ne seguì, lei raccolse dieci bambini che avevano avute le famiglie spazzate via dalla bomba, bambini dai tre ai sei anni. Almaz non aveva figli ed era single, fatto più unico che raro in Etiopia. Mise a disposizione la sua casa e se stessa, una scelta irreversibile, che si fece da subito progetto, con i primi aiuti ricevuti dalla Croce Rossa Internazionale.
Un anno dopo nasceva l’associazione che porta il suo nome, un nome che valeva (e vale) come una garanzia. La signora Almaz cercò e trovò due sponde, quella pubblica, laica e ufficiale dello Stato etiope, e quella privata, religiosa e umanitaria della missione cattolica della chiesa di Medhalaniam di Addis Abeba.
Il governo etiope riconobbe il lavoro svolto nei primi cinque anni dall’associazione, che divenne partner legale nell’attività del ministero degli affari sociali.
La missione cattolica, oltre al sostegno finanziario, iniziò a cercare famiglie europee, perlopiù francesi e italiane, disposte ad adottare i bambini etiopi che, sempre più numerosi, trovavano accoglienza all’”Almaz Ashene” .
Il pubblico e il privato. L’adozione internazionale si muove sempre fra questi due poli, gli stati nazionali e le associazioni dai paesi delle famiglie adottanti. Dovrebbe essere un rapporto di cooperazione, nell’”interesse prevalente del bambino”, come viene ripetuto a tutti i livelli, un principio che è il faro teorico di ogni legislazione sull’infanzia. E spesso funziona proprio così, almeno nella sostanza.
Ma la visione dei governi e quella delle associazioni non coincidono affatto, anche se questa differenza può essere vista come fisiologica: i bambini sono percepiti dagli stati nazionali come figli della nazione, e potenziali futuri cittadini che la nazione perderà. Cosa che è perfettamente comprensibile e legittima.
Dal loro canto, le associazioni sanno che il loro contributo è fondamentale per rispondere all’esigenza di trovare una famiglia a chi non ce l’ha, e per farlo in condizioni di legalità e trasparenza. Cioè per evitare “il traffico di esseri umani”, che è il fantasma spesso agitato in queste situazioni, già di per sé complesse (ogni famiglia ha una storia diversa, ogni bambino è un caso individuale) e delicate (perché toccano aspetti profondi dell’anima delle persone).
Insomma, il tutto è facile a dirsi, ma non a farsi. E qui entrano in gioco gli aspiranti genitori, i veri, ovvi protagonisti di ogni adozione, che quasi sempre sono invece il vertice negletto del triangolo, i convitati di pietra della dialettica fra Stati (di appartenenza e di adozione) e associazioni. Sempre, ovviamente, “nell’interesse prevalente del bambino”.
Ognuno la può pensare come vuole, ma i dati dell’adozione internazionale, in Italia e non solo, dicono una cosa sola: l’adozione internazionale funziona poco e male. Nella migliore delle ipotesi, assomiglia molto alla classica goccia nell’oceano.
Prendiamo ad esempio proprio l’Etiopia, che è una sorta di “new entry” nella graduatoria dei paesi dove si fanno le adozioni. Le cifre sono andate sempre crescendo, fino a toccare il picco delle 2.500 adozioni nel 2010. Per l’Italia, che in termini assoluti è il paese che adotta di più al mondo, dopo gli Stati Uniti (oltre 4mila adozioni all’anno, rispetto alle quasi 12mila degli USA), l’Etiopia è diventata nel giro degli ultimi cinque anni il quinto paese di provenienza dei bambini adottati, dopo Russia, Colombia, Ucraina e Brasile. Negli U.S.A. è addirittura il secondo, a debita distanza dalla Cina (!), paese che vede aumentare progressivamente le presenze dei suoi bambini anche in Italia.
Eppure, che cos’è questo relativo “successo” di fronte ai 5 milioni (stima UNICEF) di bambini abbandonati nel paese africano, (cifre da prendere forse con le molle, tanto sembrano enormi, ma in Africa è tutto enorme) di cui un milione sieropositivo? Una goccia nell’oceano, appunto, in altre parole “uno su mille ce la fa” (in realtà, uno su duemila).
Chi resta, non sempre è perduto. A partire dai dieci bambini accolti all’inizio dalla signora Almaz Ashene, che oggi sono giovani di 24-27 anni, indipendenti, che hanno mantenuto il legame con l’associazione. “Ci sono 25 dei nostri ragazzi che non sono stati adottati, sono cresciuti con noi e ora vivono con i propri mezzi” dichiara Mekonnen Shita, coordinatore dell’”Almaz Ashene”, sguardo sereno e voce da uomo buono.
Mekonnen spiega che si cerca in tutti i modi di coinvolgere le famiglie allargate, in molti casi aiutandole direttamente, se si possono occupare dei minori che hanno perso i genitori o sono stati abbandonati. “Ce ne sono 275 qui ad Addis Abeba, cento a Debre Birhan, 160 ad Ambo”.
Il problema generale è l’estrema povertà, che colpisce soprattutto le masse rurali che ingrossano le baraccopoli della capitale. “Molte famiglie non riescono ad avere una vera abitazione, né un minimo di entrate sicure; non c’è la possibilità di garantire i bisogni primari del bambino”.
Ci sono poi moltissimi casi di gravidanze indesiderate e precoci, madri giovanissime abusate e avviate verso una prostituzione non dichiarata ma dilagante. I cosiddetti “early marriages”, i matrimoni combinati in tenera età, hanno sicuramente aggravato il fenomeno, anche se grazie all’attività del governo e della Chiesa ortodossa etiope la pratica sta declinando.
Lo stesso vale per le mutilazioni genitali femminili, una terrificante tradizione che è sempre più ristretta alle aree rurali, soprattutto quelle a prevalenza islamica al confine con la Somalia. “Ma all’incirca una bambina su cinque di quelle che arrivano da noi ha subito il taglio del clitoride o l’infibulazione” , ammette Mekonnen.
Al resto pensa il virus dell’AIDS, che anche qui, senza destare troppo clamore, ha falcidiato intere generazioni. Il vero scandalo è che non si riesca a fare quasi niente per sanare queste situazioni. Ma certo non è limitando le adozioni internazionali che si risponde all’ingiustizia planetaria.
Eppure, lo scorso anno il governo etiope ha fatto sapere che era sua intenzione ridurre del 90 per cento le adozioni. Un’autentica assurdità, che per fortuna non risulta minimamente nei fatti.
Ma che ha trovato sostegni convinti, come quello dell’avvocato Ato Tewdros, che compare sul sito di un ente italiano per le adozioni: “Mi arrabbio quando vedo bambini strappati dalla loro terra e dal loro popolo. Capisco la realtà del nostro paese: la povertà e gli effetti sociali di HIV/AIDS. Nonostante ciò io continuo a credere che ci sia qualcosa che possiamo fare come nazione per mantenere qui i nostri figli piuttosto che farli crescere in una società straniera in cui saranno sempre estranei”.
Sul fatto che l’Etiopia (e la comunità internazionale) possano fare di più, non ci sono dubbi. Sostenere che i figli adottati saranno sempre estranei nelle terre di adozione è assai discutibile, per non dire del tutto gratuito. Per fortuna, sullo stesso sito, compaiono opinioni del tutto diverse: “Ato Adane, assistente sociale, è preoccupato che i ritardi che saranno causati della recente direttiva del governo faranno sì che i bambini rimangano più a lungo negli istituti”. Lo stesso operatore parla di “avidità di tutte le parti coinvolte”, soprattutto dopo che ha saputo che ogni adozione costa ad ogni coppia americana 20mila dollari, e dopo che ha constatato che i bambini dell’istituto dove lavorava mangiavano spesso cibi avariati nonostante gli 80mila birr (circa 5mila dollari) che l’orfanotrofio riceveva per ogni bambino adottato.
E’ difficile farsi un’idea precisa sui costi. Mantenere in piedi un istituto non è certo cosa semplice. Di sicuro all’Almaz Ashene non navigano nell’oro, e la sensazione è che tutti facciano del loro meglio, e anche di più, per garantire ai bambini la massima assistenza possibile. Le testimonianze dei bambini lo confermano. Però è vero che le adozioni internazionali sono maledettamente costose: per l’Etiopia, l’intero iter costa mediamente circa 12mila euro, a cui vanno aggiunte le spese dei viaggi. Per altri paesi, come la Russia, si può arrivare fino a 25mila euro, e a volte sono necessari anche tre viaggi, con soggiorni che possono arrivare fino ad un mese.
Tutto questo senza considerare i tempi lunghi (dai tre ai cinque anni di attesa in media, a volte anche di più) e l’incredibile trafila burocratica, in cui si salda lo zelo degli Stati, di provenienza e di adozione.
L’Etiopia richiede alle famiglie che adottano ben 14 certificati, ognuno in triplice copia e legittimato in pretura, molti dei quali vengono prodotti per la terza volta dalla coppia di aspiranti genitori (la prima per l’adozione nazionale, la seconda per quella internazionale, la terza per il paese di origine dei bambini).
Al lungo processo che porta al decreto di idoneità della coppia all’adozione, emanato dal Tribunale dei Minori, si aggiunge molto spesso un altro iter, altrettanto faticoso, con l’ente scelto per l’adozione: per molte associazioni, infatti, lo stesso decreto di idoneità ha scarso valore.
Insomma, per i futuri genitori, che si faranno carico in tutto e per tutto dei figli, gli esami sembrano non finire mai. Ovviamente, “nell’interesse prevalente del bambino”.
Ci sarebbe un criterio piuttosto semplice per portare un po’ di buon senso e di sincerità nel mondo dell’adozione internazionale: sentire l’opinione dei bambini. Chiedere se vogliono una famiglia, anche di un paese diverso, o se vogliono rimanere nel paese. E una volta cresciuti, se si sentono “stranieri” nella nuova patria.
Non sarebbe male sentire anche l’opinione dei genitori. E’ incredibile come i due unici, veri protagonisti dell’adozione debbano sempre trovare qualcuno che decide per loro e su di loro. Con i bambini sempre nel ruolo di potenziali vittime, i genitori sempre potenziali colpevoli. Forse la famosa “crisi della famiglia” si vede anche da questo. Ma volersi bene, almeno un po’ di bene, è davvero una cosa assai più semplice. La signora Almaz l’ha sempre saputo.
Cesare Sangalli