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Ricollocation (verso il 2023)



Mentre cadono le foglie (e le bombe d’acqua), tutta la politica italiana sta ruotando in cerca di nuovi approdi. L’unico che sembra avere certezze granitiche è Matteo Renzi, che dice di puntare addirittura al 2023.
La data suona un po’ fantascientifica, ma si spiega semplicemente: il nostro premier vorrebbe concludere questa legislatura (allungando i mille giorni), ed essere poi trionfalmente rieletto per altri cinque anni. Quasi un nuovo Giolitti, perché bisogna andare davvero molto indietro per trovare “un uomo solo al comando” per un periodo così lungo. Lo stesso Berlusconi, nel suo ventennio, si è dovuto fare i suoi bravi periodi all’opposizione.
Il 2023. Vuol dire due mondiali e due olimpiadi, e un paio di presidenti negli USA, tanto per fare un esempio. Pensare di arrivarci con Renzi mette un po’ d’ansia. Ma alla fine sembra proprio l’ennesima sparata alla Fonzie, soltanto un po’ più grossa.
Però Fonzie era simpatico. Renzi invece sta scivolando sempre di più sul terreno della sua strafottenza. Dell’arroganza. Il suo problema è che il PD che ha in mente, e che vorrebbe ribattezzare “Partito della Nazione”, è troppo intriso di passato per guardare avanti, anche se nessuno come lui si riempie la bocca della parola “futuro”.
Il PD di Renzi è la riedizione della DC senza i contenuti della (prima) DC, e di Forza Italia senza Berlusconi (cioè senza l’intrinseca componente eversiva che il Caimano rappresentava).
Un partitone moderato tendente a destra, con un leader che alza la voce perché non ha una vera linea politica. O meglio: con un premier che segue grosso modo la linea politica dei due governi precedenti, quello di Monti e quello di Letta.
Magari i fatti ci smentiranno clamorosamente, ma è probabile che il governo Renzi faccia la stessa fine dei due predecessori, con un po’ più di rumore. Dalla sua parte, c’è solo, parafrasando il titolo del film di Sorrentino, “La Grande Lentezza”.
L’Italia infatti fa come Renzi: non svolta, scivola.
Gli slittamenti degli ultimi mesi sono forse i segnali di un mutamento profondo di là da venire.
Partiamo da destra e andiamo verso sinistra.
La Lega scivola verso LePen, seppellendo le amenità padane e federali, ma conservando la xenofobia e una certa quota di razzismo, che in tempi di crisi fa sempre audience. Aumenta la presunta sensibilità sociale, che punta sempre alla memoria corta degli italiani: un partito di governo per venti anni si ripropone come partito di opposizione, di lotta dura senza paura.
Per quanto i leghisti ci facciano un po’ ribrezzo, l’idea (di Salvini) è azzeccata, e cavalca l’ondata della destra cosiddetta “sovranista” (per portare il paese fuori dall’euro e dalla UE), una destra populista e “sociale” che ha molte buone ragioni per esistere. I neofascisti o estremisti di destra
vari si sono già accodati. Giorgia Meloni si sente un po’ scippata, ma forse pensa anche lei ad un’aggregazione.
Poi c’è Forza Italia, (con la sua appendice del NCD di Alfano), che scivola nella decadenza di Berlusconi, quindi di fatto è già un partito di nostalgici, come pronosticavamo qualche anno fa (non è che bisognava essere Nostradamus). Il partito di plastica è diventato il partito del nulla, fatto già evidente ai tempi della fusione con AN, cioè della nascita del PDL (vedi “Il mistero della destra scomparsa”).
De PD abbiamo detto in apertura. Mai visto un “nuovo” così vecchio. Vorrebbero fare un po’ come i laburisti di Blair, cioè tornare alla fine degli anni Novanta, o come Schroeder, agli inizi degli anni zero. Fuori luogo e fuori tempo, altro che battutine (stronze) sui gettoni e l’I-phone, sul rullino e la macchina fotografica digitale.
Cominciano a volare le prime uova sull’amatissimo premier (e le manganellate della polizia sugli operai). Il governo scivola verso l’insignificanza totale, come si evince dalla gestione del famoso semestre europeo: il nulla, appunto. Noi ci prepariamo a pagare anticipi IRPEF, seconde rate di TASI e IMU, mentre viene fuori che il democristiano Junker, capo della Commissione Europea, ha consentito per anni a far pagare nel suo grigio Lussemburgo tasse ridicole (dallo 0,25 all’uno per cento) alle multinazionali di tutto il mondo, e ai soliti furbastri italiani (da Fiat a Banca Intesa-San Paolo). Si prende ai poveri per dare ai ricchi, e Renzi assiste silente, pensando di cavarsela con altre battutine (dal “governo dei burocrati” a “non andiamo col cappello in mano”), facendosi scavalcare a sinistra perfino dal tranquillo democristiano Pittella (“Junker deve affrontare le sue responsabilità”).
Ecco, la sinistra. La grande assente. Se in Grecia il primo partito da tempo è Syriza, la sinistra di Tsipras, e se in Spagna lo sta diventando “Podemos”, cioè il movimento politico nato dagli “indignados” che riempirono le piazze due anni fa, in Italia si va lentamente verso una ricomposizione dei partitini e delle anime della sinistra, che in un altro paese si sarebbero già riunite magari con Landini leader (o chi per lui), e forse, udite udite, verso un riavvicinamento col M5S sempre più orfano di Beppe Grillo, che ormai per una cosa azzeccata deve dire almeno tre cazzate.
Incredibile ma vero, la Storia (ma sì, mettiamoci la maiuscola) potrebbe fornire una seconda occasione, dopo quella mancata clamorosamente nell’estate del 2013 da Bersani: l’elezione del presidente della repubblica.
Re Giorgio Napolitano dovrebbe rassegnare a breve le dimissioni (evviva). Rimpiangerlo è come rimpiangere Ratzinger per i cattolici. Purtroppo lo Spirito Santo che ha portato all’elezione di papa Bergoglio, di gran lunga la figura più innovativa di questi tempi confusi, difficilmente soffierà sulle Camere riunite.
Bisognerebbe cominciare a tessere la tela da adesso, per non farsi spiazzare dal duo Renzi-Berlusconi, che non hanno nessuno, ma proprio nessuno da spendere, manco un candidato da bruciare come fu Franco Marini (anzi no, qualcuno accenna a Walter Veltroni, pensa te).
Dovrebbero cominciare a compattarsi SEL e il M5S, che già tante volte hanno votato insieme negli ultimi tempi; poi cominciare a lavorarsi la sinistra PD, a partire da Civati e i suoi; dopodiché sperare nelle mille voglie di vendetta di tanti “renziani per forza” del PD.
Dovrebbero giocarsi un nome al di sopra di ogni sospetto, come Zagrebelsky (ci riproviamo), visto che Rodotà ce lo siamo già giocato, o come Fabrizio Barca (difficile, troppo indipendente).
Potrebbe essere l’occasione per riappropriarsi del Parlamento, umiliato dalla trentina di questioni di fiducia e dai decreti –legge a catena, e riappropriarsi dell’iniziativa politica. Al momento giusto, poi, fare a Renzi quello che lui ha fatto a Letta. E provare, finalmente, per la prima volta, a cambiare per davvero.
Cesare Sangalli