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La 25a ora


“Il calcio, tutto sommato, è riformabile”. Così Enrico Deaglio chiude il suo editoriale su “Diario”, prima della pausa di Ferragosto. Arriva settembre, ma lo scenario rispetto allo
scorso anno è incredibilmente diverso (vedi “Palla prigioniera”). Sulle sentenze della CAF si è letto di tutto. La maggior parte si è scandalizzata, ha detto che si è persa una grande occasione per ripulire il calcio, qualcuno ha parlato di “colpo di spugna”. Certo, a fronte della quasi assoluzione di Carraro, e dopo la sconcertante elezione di Matarrese al vertice della Lega, verrebbe da pensare che il fronte “giustizialista” ha ragione. Ma è meglio non fidarsi troppo dei toni apocalittici di tanti “addetti ai lavori”. In molti casi seguono silenzi assordanti durati anni, o approcci minimalisti davanti all’incredibile serie di sconcezze che il mondo del calcio ci ha offerto negli ultimi tempi, in una progressione impressionante, quasi un “cupio dissolvi” (brama di autodistruzione). Non c’era bisogno di intercettazioni e indagini segrete per capire dove si stava andando a parare. I fatti espliciti, solari, bastavano ed avanzavano per chiedere una riforma radicale del sistema. Non l’ha fatto praticamente nessuno. Ecco perché il vero colpo di spugna rischia di essere quello sulle responsabilità, enormi, dei giornalisti. Davvero troppo facile campare per anni sulle discussioni da bar, sui dilemmi teologali tipo “Vieri e Adriano possono coesistere?”, o “la Roma gioca meglio senza punte?”. Troppo comodo rimbecillirsi di fuffa, assecondare gli istinti più bassi dei tifosi, fare finta di punzecchiare i potenti, quando in realtà gli si lecca il culo (scusate la licenza poetica). Moggi, Galliani, Della Valle, Lotito, e prima di loro Gaucci, Cragnotti, Sensi, De Luca, e via elencando, hanno potuto pontificare senza contraddittorio per molto tempo, e alcuni lo faranno ancora. Moratti, che passa per un signore, e rispetto alla pletora di squali che bazzicano nell’ambiente lo è davvero, non ha mai detto mezza parola sulla spartizione iniqua dei diritti televisivi, e ha sempre preferito fare la figura del “ricco scemo” (d’altra parte il termine era stato coniato per il padre) piuttosto che cercare di gestire un po’ meglio i suoi soldi, sfoltire rose di trenta giocatori, pagare dieci miliardi all’anno uno come Recoba per starsene in panchina, oltre a glissare sui passaporti falsi dei suoi giocatori.
Paradossalmente, però, è proprio la pochezza dei dirigenti che autorizza qualche ottimismo. Se l’ottima Giovanna Melandri andrà avanti nel suo progetto di riforma, con un po’ di grinta e determinazione, nessuno sarà in grado di opporsi. Sono tutti, o quasi, sotto schiaffo, e le riforme vere non si fanno solo con le punizioni sportive, ma imponendo regole certe ad un mondo che ormai pensava di potersi permettere tutto. Quella che per anni era sembrata la forza del settore, cioè la sostanziale autonomia rispetto alla politica, è diventata la sua condanna. La nomina di un vecchio marpione come Matarrese è l’estremo tentativo di arroccarsi in difesa rispetto alla dolorosa e salutare chirurgia che il governo può e deve operare nel calcio. Si sono giocati la carta del classico politicante per cercare di neutralizzare l’intervento dall’alto, o, se proprio gli va male, negoziare la resa.
Lo scontro con Guido Rossi, il Cincinnato che ha commissariato la Federcalcio del buffone Carraro è già iniziato. La partita della riforma del calcio è tutta da giocare, e vediamo come ce la racconteranno gli impavidi giornalisti che ora fanno gli indignati o gli azzeccagarbugli.
Sarà curioso vedere se e quando rivedremo all’opera il “maestro” Giorgio Tosatti, clamorosamente travolto dallo scandalo, dopo che si era ritagliato una posizione intoccabile, con il suo stile sussiegoso da “Corriere della Sera”, che è un caso clamoroso di giornalismo apparentemente anglosassone, finto imparziale e finto rigoroso, ma in realtà italianissimo, ruffianissimo, forte con i deboli e debole con i forti.
Tornando alle sentenze sportive, vediamo prima il bicchiere mezzo pieno. Se solo pochi mesi fa ci avessero detto che la Juventus sarebbe stata retrocessa in B, con due scudetti revocati, non ci avrebbe creduto nessuno, altro che storie. Ora si dice che è troppo poco, però la leggenda dello “stile Juve”, l’immagine di società modello, forte e antipatica, in cui pochi dettano la linea e tutto fila liscio, sul campo e fuori, non si è mica creata da sola.
Vediamo di che pasta sono fatti i suoi numerosissimi tifosi, molti dei quali avrebbero digerito l’indigeribile, pur di vedere trionfare la “Vecchia Signora”. La serie B è una purga potente, un po’ come stare all’opposizione per Berlusconi, e checché se ne dica molti sostenitori se la strameritano, basta vedere con che fastidio e con che cinismo hanno affrontato la questione del doping. Ben venga anche un po’ di anonimato per la famiglia Agnelli, che è un po’ la nostra vera famiglia reale: che cosa avevano da insegnare quelli che hanno fortemente voluto Girando e Moggi al timone della società lo dobbiamo ancora capire.
Fiorentina e Lazio vengono da un passato già troppo travagliato per avere davvero bisogno di lezioni esemplari. Lotito, presidente della Lazio, è un “self made man” antipatico a tutti per la sua arroganza di padroncino (che però non paga l’IRPEF, come buona parte del famoso “popolo delle partite IVA” caro a Tremonti), ma certo è migliore del filibustiere Cragnotti, che spandeva carisma e sputava sentenze mentre rubava a piene mani (la sua vera specialità), ammirato da giornalisti e tifosi. Della Valle, padrone della Fiorentina, è il classico “moralizzatore moralizzato”, come è stato scritto. Presentato come salvatore della patria, quando ha lasciato tranquillamente fallire la società di Cecchi Gori e retrocedere la squadra in C2, comprandosi quindi il giocattolo con due lire, Della Valle, l’uomo delle scarpe, ha cercato di scalare la Lega Calcio come se fosse il giustiziere della notte, il difensore dei poveri. Un altro che ragiona solo in termini di ritorni economici, e durante il processo ha detto una valanga di sciocchezze, rimpicciolendo ancora un po’, lui che voleva giganteggiare.
Infine il Milan, tralasciando Reggina, Messina, Siena, e tante altre società che non sono
state coinvolte per puro caso (“il più sano c’ha la rogna” è espressione abbastanza azzeccata, per i club calcistici, con poche eccezioni). Il Milan è il vero grande miracolato dei processi sportivi. Per fortuna ci siamo levati di torno Adriano Galliani, ma questa è gente che non molla facilmente. Berlusconi sarebbe il vero Grande Imputato, anche in questo caso, perché nessuno più di lui ha contribuito alla rovina del calcio. E Berlusconi, contrariamente al calcio, non è riformabile. Si può discutere sui tempi e sui modi (agonia lenta, eutanasia, attacco frontale), ma lui e quello che ha rappresentato devono essere messi in condizioni di non nuocere. Troppo danno hanno fatto al Paese. I berlusconiani ancora non ne hanno preso atto: sono storditi dalle sconfitte, ma certo non sono pentiti.
Siccome non hanno mai brillato per coraggio, spariranno quando il vento si farà (finalmente) più forte. Chissà se Berlusconi si terrà a lungo il Milan, per illudersi ancora di essere un grande condottiero. Il giorno che vedremo uscire il Cavaliere e magari tornare Rivera, potremo cantare, come gli inglesi, “football is coming home”.
Cesare Sangalli