W l'Italia ... fra memoria e attualità ...

 



We can be heroes (just for one day)



David Bowie se n’è andato, in questo gennaio fermo fino al languore. Una stella nera, la “black star” che dà il titolo al testamento musicale del grande artista inglese, sembra paralizzare tutti, almeno in Italia.. Il 2016 è iniziato in sordina, trascinandosi dietro un 2015 vissuto sempre più stancamente, a metà fra pessimismo e ottimismo, con la voglia di cambiare mentre si vivono sempre le stesse cose. Natale con la storia delle banche fallite, a partire da Banca Etruria, e l’esibizione di forza sulla mozione di sfiducia contro Maria Elena Boschi; Capodanno con lo scandalo di Quarto, cioè il tentativo di infiltrazione camorrista nel M5S locale.
E’ la letargia dell’anno secondo dell’era renziana. Un’era che sembra già un paradosso del tempo: più il nostro presidente del consiglio pretende di essere dinamico, più aumenta la sensazione di staticità.
A questo punto, il tormentone del film di Checco Zalone casca a pennello: “La Prima Repubblica non si scorda mai” . Vedere Arezzo, patria della Boschi, al centro della cronaca politica (anche per la morte di Licio Gelli), fa pensare ai tempi di Fanfani.
Sembra che essere democristiani sia la cifra più esatta dell’Italia. Non di destra, non di sinistra: tutti al centro. Ieri con Alberto Sordi, oggi con Checco Zalone. In fin dei conti, in tutte le sue storie, Checco Zalone attraversa molte situazioni nuove per tornare alla fine sempre uguale a se stesso. Il cambiamento non attecchisce mai veramente; non è mai “conversione”, fosse anche quella alla John Belushi nei “Blues brothers”.
Ora, è chiaro che un paese con così tanto passato alle spalle come l’Italia ha anche, e giustamente, un sano istinto conservatore. Ricordarci com’eravamo è sempre una grande pedagogia nazionale.
La vocazione dell’Italia moderna, dell’Italia repubblicana, è (era?) quella di essere grande nel suo piccolo.
Non una potenza economica. Tanto meno militare. Ma un paese che faceva uno sforzo autentico per migliorare le condizioni di tutti. Che portava scuola e tv, uffici postali, parrocchie, stazioni dei carabinieri, e strade, e treni e ospedali un po’ dappertutto, anche nei borghi più sperduti. L’Italia è (era?) come un tessuto a trama
fittissima, ricco di realtà tanto piccole quanto preziose. E nelle province italiane, quanta avanguardia.
La più audace legge europea sulla malattia mentale basata sulle esperienze triestine di Franco Basaglia. La lezione di don Milani, dalla sperduta Barbiana, in qualche modo recepita dalla scuola forse meno classista e più democratica d’Europa. La testimonianza straordinaria di Peppino Impastato da Cinisi, la sua rivolta morale contro il familismo mafioso gridata dalla minuscola “Radio Aut”, nella straordinaria polifonia delle radio libere negli anni Settanta Il feroce patriarcato pastorale guardato negli occhi e sfidato, in nome della cultura, da Gavino Ledda, voce della Sardegna profonda, nel suo libro “Padre padrone”, poi portato sugli schermi dai fratelli Taviani.
Gli esempi sono tantissimi. L’Italia sapeva farsi grande nel piccolo. Migliaia di eroi conosciuti e misconosciuti hanno fatto lievitare il Paese, portandolo spesso in posizioni di avanguardia assoluta (abbandonare il nucleare già all’inizio degli anni Ottanta, per esempio, è stata una decisione di una straordinaria lungimiranza; ma anche essere la culla del Tribunale Penale Internazionale costituisce un anticipo, si spera, del mondo che verrà).
E’ (era) l’Italia cantata da De Gregori, quella con “gli occhi aperti nella notte scura”. “Viva l’Italia”, la canzone che dà il titolo a questa rubrica, è l’inno nazionale di un paese “outsider”, capace di sorprendere per la sua resilienza. Che non è tanto l’arte del tirare a campare, declinata in chiave comica dai personaggi nazionalpopolari, Totò, Alberto Sordi, Paolo Villaggio/Fantozzi, Checco Zalone . E’ piuttosto quella reazione che nobilita quando tutto sembra perduto, è il colpo di reni di un riscatto autentico, dopo inerzie, fughe, cadute e tradimenti, è quella scintilla di coraggio, di dignità, di generosità, che scatta nei momenti peggiori, e che sembrava scolpita nel nostro DNA.
Politicamente parlando, nell’era post-ideologica, cioè a partire dagli anni Ottanta, questa capacità di reagire si è espressa molto nei referendum, poco nelle scelte elettorali. I referendum hanno sempre unito il paese, in qualche modo. Anche su temi controversi e difficili, come l’aborto, o su temi non scontati (la depenalizzazione delle droghe leggere, vedi “1993” in archivio). Abbiamo citato prima il referendum sul nucleare. Possiamo ricordare quelli sull’acqua bene comune (2011) e prima ancora quello che respinse nettamente la riforma della Costituzione proposta dalle destre di governo (2006, vedi “Indietro, Savoia”) . Ecco, siamo arrivati al punto. Il 2016 per l’Italia sarà soprattutto l’anno del referendum sulle riforme di Renzi, che sembrano troppo brutte per essere vere, a partire dalla legge elettorale, l’”Italicum”. Di più: sarà un referendum su Renzi e sul renzismo. Il presidente del consiglio sta già enfatizzando l’appuntamento: “se perdiamo il referendum”, ha dichiarato, “lascerò la politica”. E l’ineffabile Maria Elena Boschi ha aggiunto che si andrà subito a nuove elezioni.
Magari poi entrambi ci ripenseranno. Ma di sicuro sarebbe una svolta totale. E senza dover aspettare i nostri rappresentanti, che in gran parte sarebbero comparse perfette in un film di Checco Zalone (Nanni Moretti avrebbe detto in un film di Alberto Sordi). Mancano ancora diversi mesi. Renzi ha clamorosamente tirato a campare su tutti i temi importanti. Forse andrà finalmente in porto la legge sulle
unioni civili. Forse vedrà la luce la leggina sullo “ius soli” (meglio che niente). Probabilmente si continuerà a rinviare la legge sulla tortura (in fin dei conti la aspettiamo solo da 32 anni). Renzi riuscirà a dare tempo e soldi per il TAV e per gli F35. Insomma, a nostro avviso ci arriverà alla democristiana, al grande appuntamento autunnale.
A quel punto, toccherà a noi. Dobbiamo scrivere un NO grosso come una casa, per molte buone ragioni. Intanto perché la riforma costituzionale di Renzi è quanto di più sbagliato ci sia: non siamo ancora usciti dal berlusconismo,e si vogliono concentrare i poteri in una persona sola, svuotando ulteriormente una democrazia messa già a durissima prova dal ventennio pirata del magico Silvio. A riprova di ciò,e in proiezione europea, Renzi è strafavorevole al TTIP, il trattato di libero commercio con gli USA, che riduce gli Stati sovrani a meri interlocutori delle multinazionali.
Quindi, dicendo no al presidenzialismo che Renzi si è cucito su misura, si dice no ad un potere di tipo oligarchico, con i partiti ridotti a comitati elettorali di leader graditi al mondo del business, i parlamenti che ratificano decisioni prese altrove, i media cassa di risonanza dell’establishment, la politica ridotta a registrare gli effimeri umori del momento, ampiamente manipolati dai sondaggi (che già hanno cominciato a far credere che il SI sia maggioranza), e a fingere un vero dibattito nei tanti talk show. E’ lo strano regime moderno che è stato definito “post-democrazia”.
Il referendum di autunno è perciò anche un momento fondamentale per un’operazione di verità.
La vittoria del no sarebbe un gigantesco “NOT IN MY NAME”, il rifiuto di continuare ad avallare questa finzione scenica, questo “Truman Show” in cui siamo immersi da troppo tempo. Dipende da noi. “We can be heroes just for one day”. Buon anno a tutti.
Cesare Sangalli