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Specchio delle mie brame
Se “i romanzi sono il ritratto privato delle nazioni”, come sosteneva Balzac, che cosa sono le televisioni? Che cosa rimanda di un popolo la sua televisione nazionale? Ciò che è, ciò che vorrebbe essere? Forse la televisione è come lo specchio della regina di Biancaneve, che deve accendere il falò della vanità e dell’autocompiacimento tutti i giorni, ma che finisce inesorabilmente per dire una verità sgradita. E allora, o si butta lo specchio, o si cerca Biancaneve per ucciderla. Fuori di metafora, o si cambia la tv, o si cerca di ridurre al silenzio la capacità critica, sia quella fuori che quella dentro di noi. In Italia si è optato decisamente per la seconda soluzione, in una osmosi fra Palazzo e Popolo che non ha precedenti in nessun campo. “Questa è la tv che vuole la gente”: vero o falso che fosse, giustificazione imposta dalla realtà, o foglia di fico ipocrita, sulla televisione italiana il consenso appare massiccio, monolitico, addirittura sacro, visto che il nostro modello televisivo è cambiato meno di Santa Madre Chiesa, nell’ultimo quarto di secolo.
Curzio Maltese, inascoltato come un predicatore nel deserto, denuncia il fenomeno da anni: chi tocca la televisione, muore, nella Terra dei cachi. Rai e Mediaset (vedi “Pali, paletti e palinsesti”) hanno commesso il delitto perfetto (l’uccisione della capacità critica) in silenzio, alzando semplicemente il volume della loro povertà culturale come si fa con gli spot pubblicitari per imporre un prodotto: Biancaneve si è mangiata la mela avvelenata, e le è pure piaciuta. Ora lo specchio delle (loro) brame può rimandare la sua immagine trionfante: i più belli del reame siamo noi.
Il delitto perfetto non poteva che compiersi negli “stupidi” anni Ottanta, forse il decennio
più sprecato nella storia dell’umanità (si fa per dire). Rivediamolo alla moviola, come direbbe un campione di quel periodo, Aldo Biscardi (da zero a tre miliardi di lire in meno di dieci anni: la stupidità, con i soldi che si porta dietro, è più veloce di una Ferrari).
La prima vera svolta, il primo passo del delitto perfetto, fu l’introduzione della telenovela, all’inizio travestita da serial televisivo. In principio fu “Dallas”, la trasmissione che inoculò il virus della teledipendenza. Mezza Italia cominciò a prendere a cuore le sorti della famiglia Ewing, e a guardare con rispetto quel miliardario spregiudicato di Gei Ar (J.R.). La televisione, che negli anni Settanta iniziava timidamente nel pomeriggio, e andava a nanna, con tanto di nuvolette e musica celestiale, verso l’una di notte, cominciava a riempire tutto l’arco della giornata, e iniziava a scandire le abitudini di vita degli italiani nell’arco delle 24 ore. La teledipendenza andò a colpire il ventre molle della nostra società, le casalinghe, agli orari più consoni, quelli nella fascia del pranzo, anzi, del caffè. E fu un fiorire di “Beautiful”, “Capitol”, “Quando si ama”, per limitarsi alle più amate. Il telecomando, lo strumento del presunto potere dello spettatore, scattava come in un riflesso pavloviano, all’ora giusta sul canale giusto.
Con minor intensità, ma ribadendo lo stesso principio, si imponevano i telequiz, che erano un’idea vecchia come Mike Buongiorno, ma vennero riadattati secondo un’intuizione geniale: non si doveva più mostrare l’erudizione dei concorrenti, bensì la loro ignoranza.
Fra i tanti giochi a premi, pare degno di menzione “Il pranzo è servito” di Corrado (ognuno può scegliere a piacimento, chi scrive non ha una grande dimestichezza con le tv berlusconiane). La musichetta della sigla riecheggiava nei borghi italiani insieme all’odore del sugo per la pasta. Le domande erano di una facilità irrisoria, mettevano in grado gli spettatori di sentirsi più bravi dei concorrenti, o al limite alla pari con loro, che venivano bonariamente presi in giro dal Bravo Presentatore, il quale, a dosi omeopatiche, contribuiva al grande obiettivo finale: bandire la vergogna. Un sentimento antiquato, buono solo per i comunisti vecchio stampo (i cattolici già da tempo riscoprivano la vergogna una volta a settimana, o un paio di volte all’anno, e solo per un’ora scarsa).
Il messaggio, nemmeno tanto subliminale, era: non avete niente di cui vergognarvi, che
per estensione tendeva a diventare: non c’è niente, nella vita, di cui vergognarsi.
Con la vergogna, si decise di abolire anche il pudore: come pietra miliare, si potrebbe citare “Stranamore” di Alberto Castagna, ma anche “Il gioco delle coppie” di Marco Predolin, come testimonianza della fase naif dell’operazione. Ci avrebbe pensato poi Maria De Filippi a monopolizzare il prodotto, accentuando l’inarrestabile caduta verso il basso. In questo senso, i reality show del Nuovo Millennio sono semplicemente la “summa teologica” della filosofia televisiva nata negli anni Ottanta, la fase terminale dell’assenza di spirito critico: il cadavere di Biancaneve ora comincia a puzzare di brutto, e lo specchio delle (loro) brame si è fatto di colpo meno sicuro: forse i più belli del reame non siamo noi.
Ma non si può chiudere la retrospettiva, non si può uscire dal museo delle cere senza ricordare il killer più raffinato e ambiguo della capacità critica, il più pericoloso perché apparentemente invita invece a riflettere (ma non troppo): il talk show, con il suo grande
maestro, il diabolico Maurizio Costanzo. Il peggiore di tutti. Vediamo perché.
Maurizio Costanzo sembra uscito da una canzone di Venditti, qualcosa a metà fra l’”Uomo falco” e l’”ottimista dall’aria vagamente socialista”: preparato, intelligente, professionale, aperto, illuminato. Perfino di sinistra, e laico, per giunta. Ci vogliono tutte queste doti per compiere il delitto perfetto, mica puoi dire alla gente che è berlusconiana perché si è rincoglionita. Costanzo è un autentico figlio di puttana, e come tutti i veri figli di puttana non appare mai per quello che è veramente, ma per il suo contrario. La sua tessera della Loggia P2 vale più di ogni altro commento: Licio Gelli è finito in galera, ma gran parte delle idee del suo Piano Rinascita sono diventate realtà, e uno dei grandi artefici dell’operazione, a livello culturale, è stato Costanzo. Lui riesce a parlare di morte e di corna, di sesso e di politica con la stessa naturalezza, il suo teatrino annulla le differenze fra un Gino Strada e una Marina Ripa di Meana, fra una Franzoni e un Don Ciotti. I suoi ospiti illustri sembrano non rendersene conto, ma se il loro scopo è essenzialmente quello di bussare a soldi (anche per nobili cause, per carità) fanno bene a restare lì, in attesa del quarto d’ora di gloria, tutti religiosamente rispettosi delle pause dei consigli per gli acquisti, un termine coniato probabilmente dallo stesso Costanzo.
Insomma, Costanzo usa la sua intelligenza per imbonire la gente, che non deve mai avere la sensazione di essere presa in giro, anzi, deve poter pensare di essere più “moderna” e libera, anche se poi si addormenta davanti al piccolo schermo, così rassicurante nelle sue certezze di plastica, nella sua totale finzione. In effetti, la tv italiana tutta (la Rai non è stata citata fin qui solo perché ha copiato l’originale, che resta la tv di Berlusconi) sembra adattissima ad un paese di anziani, qual è di fatto l’Italia: lo specchio in questo caso non mente. Però non si spiega come questa televisione possa resistere, perfino peggiorata, a distanza di 25 anni.
O meglio, si spiega perfettamente dal lato del Palazzo, molto meno dal lato del Popolo. E qui dobbiamo per forza fare autocritica. La generazione nata negli anni Sessanta in questo settore non può certo dirsi innocente: eravamo in media decisamente più scolarizzati dei nostri genitori, ma abbiamo abboccato ugualmente. Urge riscatto, possibilmente immediato. E all’interno della categoria, dispiace dirlo, si distingue per ampiezza e profondità il tradimento delle donne, che pure avevano beneficiato delle battaglie femministe dei due decenni precedenti: hanno lasciato che si imponesse il modello femminile di “Drive In” (ecco un’altra testata d’angolo da ricordare) senza battere ciglio.
Anzi, accettando di esibire tette e culi come punti di forza, e di consumare tonnellate di giornalismo spazzatura (compreso il 90 per cento delle riviste femminili)come fosse informazione. Ora che sta per ripartire l’autunno televisivo, e i palinsesti già fibrillano senza lo straccio di un’idea o di una novità, abbiamo un’ottima occasione per cominciare a riprenderci un po’ di quello capacità critica che siamo riusciti ad atrofizzare in un ventennio, con una semplice operazione: guardare solo la tv salvabile. Quindi, niente “Isola dei Famosi”, niente “Grande Fratello”, niente Maria De Filippi, e giù, a scalare, come con l’eroina e il metadone. Se iniziamo adesso, forse riusciremo perfino a fare a meno del Festival di Sanremo.
Cesare Sangalli