Se piove di quel che tuona, arriveremo a Natale con due soli argomenti dibattuti dai media e dalla politica: la vittoria di Trump alle elezioni americane, e il referendum sulla riforma costituzionale di Renzi.
Nel nostro tradizionale provincialismo, è già partita la gara a stabilire chi è il Trump italiano (chi dice Salvini, chi dice Grillo), e se è più “anti-establishment” il SI o il NO al referendum del 4 dicembre.
A scanso di equivoci: se proprio dobbiamo fare il paragone, il Trump italiano è senz’altro Salvini, e il voto anti-establishment è chiaramente il NO.
Ma i risvolti interessanti sono altri, e riguardano il lato pseudo progressista della politica, italiana e americana. Il lato di Renzi e di Hillary. Il lato dei due partiti democratici, sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico. Una volta tanto, possiamo dire che noi italiani siamo avanti, rispetto agli Stati Uniti, e se non di 22 anni (la vittoria di Berlusconi del ’94 – vedi “Il grande freddo” in archivio- come la vittoria di Trump), almeno di 18 (la politica del primo Prodi rispetto a quella dell’ultimo Obama).
Sul fatto che, con le dovute differenze, Berlusconi abbia rappresentato un fenomeno analogo a quello di Trump, ci sono pochi dubbi; la conferma plateale viene da un editoriale di Sallusti sul “Giornale”: il paragone con il tycoon americano è riproposto con enfasi, allo scopo di rilanciare la candidatura del Caimano alle prossime elezioni (!). Per fortuna nostra, “non è più quel tempo e quell’età”.
Ma resta invece tutto da esplorare, in chiave retrospettiva e attuale, il parallelo fra i due Partiti Democratici, cioè fra i Clinton moglie e marito, e Prodi (ma possiamo dire D’Alema, Veltroni, Napolitano, Bersani, o chi volete voi).
Anche se siamo stati sostenitori dell’Ulivo, a suo tempo, soprattutto perché era quello che passava il convento, è arrivato il momento di bocciare senza pietà quella stagione e quella esperienza, di cui Renzi, in fin dei conti, è solo la naturale evoluzione (o involuzione), il risultato finale del logoro ( e finto) dualismo fra centrodestra e centrosinistra, assolutamente simile, in chiave europea, allo stanchissimo bipolarismo fra repubblicani e democratici negli USA. Per ben quattro
elezioni (1996, 2001, 2006, 2008), abbiamo votato il centrosinistra a prescindere, proprio perché era impossibile votare per Berlusconi. Più si andava avanti, e peggio era; ma dal 2013, con l’avvento del M5S, quella fase storica si è sostanzialmente esaurita (e per questo ci possiamo considerare più avanti degli americani).
Se negli Stati Uniti tanti avrebbero voluto vedere un duello fra Trump e Sanders, in Italia quel tipo di sfida, facendo un paragone un po’ spericolato, lo avevamo avuto nel ’94: il nostro Sanders si chiamava Achille Occhetto, e non sapremo mai cosa sarebbe successo se avesse vinto, come non sapremo mai che cosa sarebbe successo se al posto della Clinton ci fosse stato Sanders.
In ogni caso, la presidenza di Bill Clinton (1993-2001) coincide con il primo governo Prodi (1996-1998) e dei seguenti di centrosinistra (1998- 2001), e rappresenta una fase storica cruciale, di cui solo oggi appare chiara la portata.
Chi ha almeno 35-40 anni e un po’ di memoria, ricorderà che all’epoca nessuno parlava di crisi. Anzi. Erano gli anni della “bonanza” capitalista: l’avvento di Internet, la diffusione a macchia d’olio di computer (“Windows 95”) e cellulari, il boom della Cina, la fine dell’apartheid in Sudafrica e della guerra nella ex Jugoslavia, la possibilità di uno storico accordo fra Israele e Palestina, il terrorismo islamico inesistente (Algeria a parte), l’immigrazione non ancora percepita realmente come un problema (la Lega era ancora a “Roma ladrona” e alla retorica antimeridionale e “padana”): davvero tutto sembrava andare per il meglio, nel migliore dei mondi possibili.
L’entrata nell’euro, col gruppo dei primi, fu annunciata trionfalmente da Prodi nel maggio 1998: era il primo obbiettivo del suo governo, ed era stato raggiunto in due anni. Ecco, per l’Italia era già scattata la trappola, ma non ce lo disse nessuno, anche perché erano pochi a sapere cosa accadeva nelle stanze dei bottoni. Attenzione: non stiamo parlando dell’adozione dell’euro, che non pensiamo sia stata la fonte di tutti i mali (che è una semplificazione inaccettabile). Stiamo parlando dell’operazione “Cristal”, rivelata poco tempo fa da una fonte insospettabile,Giovanni Pons, nel supplemento “Affari e Finanza” della “Repubblica”.
Che cosa fu l’“operazione Cristal”? Sostanzialmente, un trucco contabile per rientrare nei famosi parametri di Maastricht, e quindi nell’euro. Ma fu soprattutto l’ingresso, gestito in gran segreto, della grande finanza internazionale nella politica economica del governo italiano, con l’adozione dei maledetti derivati, e la “partnership” con la maledetta banca JP Morgan. Gran parte dei problemi attuali nascono da lì.
Romano Prodi, Carlo Azeglio Ciampi (allora ministro del Tesoro), Vincenzo Visco (ministro delle Finanze) e Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, accettarono la genialata di uno “swap” fra lira e yen proposta dal classico giovane rampante della finanza, Bertrand des Pailleres, parigino di nascita ma londinese d’adozione. Il titolo derivato permetteva di registrare subito il prestito in entrata,e nascondere le passività, o meglio spostarle molto in avanti. Qualcosa di simile farà la Grecia con Goldman Sachs.
A quasi vent’anni di distanza, abbiamo visto quanto danni ha fatto (e farà ancora) il debito pubblico in Italia e in Grecia. I grandi gruppi finanziari, già molto potenti, hanno cominciato a fare il bello e cattivo tempo in Europa e nel mondo, favoriti
anche dall’abolizione operata da Clinton della legge che vietava la commistioni fra banche di investimento (le classiche casse di risparmio) e banche dedite alle attività speculative: era la vittoria finale di Wall Street, l’ulteriore perdita di sovranità economica (e quindi politica) delle singole nazioni e dell’Unione Europea.
Non occorrono complottismi per spiegare l’evidenza: la politica economica del Belpaese è stata gestita in sostanziale continuità da Berlusconi, dal secondo Prodi, di nuovo da Berlusconi, e poi da Monti, Letta, e, buon ultimo, Matteo Renzi, che nel frattempo ha festeggiato i suoi mille giorni di governo. La politica è tornata ad essere (per qualcuno lo è sempre stata, ma noi non siamo di quella corrente) una mera sovrastruttura dell’economia.
La vittoria di Trump, infatti, non è affatto una rivoluzione: è solo l’esasperazione brutale di una linea ultraconsolidata, e in questo senso rappresenta un’operazione di verità: la maschera del capitalismo “buono” è stata strappata via, dimostrazione che non ci sono comode “terze vie” seguite dalla sedicente “sinistra” (virgolette obbligatorie), europea e americana. La vittoria di Trump fa giustizia dell’idea di una linea alla Blair, alla Schroeder, e , appunto, alla Prodi (o Clinton, o Obama, o Renzi), una politica che metta insieme scelte liberiste ed equità sociale, sviluppo del capitalismo globalizzato e finanziario e avanzamento per tutti, magari col rispetto dell’ambiente incluso: una balla spaziale, raccontata indefessamente, per anni, da tutti i media principali.
In Italia questa gigantesca finzione potrebbe avere il primo, clamoroso stop proprio con la vittoria del NO al referendum. E da noi, come in Spagna, in Portogallo, in Grecia, non ci sarà bisogno di farsi un giro sul “dark side” dei movimenti fascistoidi, come per mezza Europa: l’alternativa è a un passo, ci vuole “solo” la spallata finale, che in Italia significa portare al governo il M5S, possibilmente alleato con la sinistra vera, o con ciò che ne resta.
Attenzione: le grandi manovre dell’establishment per sopravvivere ad una sconfitta nel referendum sono già in atto, e passano ovviamente per l’alleanza esplicita, prima governativa e poi elettorale, fra PD e Forza Italia. Berlusconi, che se non avesse una grande intelligenza politica non avrebbe fatto ciò che ha fatto, lo ha già lasciato intuire, “bruciando” l’inesistente leadership di Parisi (Parisi chi?) e riconoscendo a denti stretti che c’è un solo leader (del centrodestra reale), e si chiama Renzi
Tutto il resto è “ammuina”. Noi non siamo la Francia o l’Ungheria o la Polonia.. Abbiamo buttato via un quarto di secolo, certo, ma proprio per questo ci potremmo trovare stranamente in “pole position” , in Europa, nel giro di un anno o poco più. Crederci è obbligatorio, adesso più che mai.
Cesare Sangalli