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“Nunca màs”: lezioni da un referendum



Intanto fissiamo la data: 4 dicembre 2016. Potrebbe davvero diventare una discriminante storica. Prima e dopo il referendum. Che qualcosa di grosso sia accaduto, è un po’ la sensazione di tutti. Ma l’attenzione è stata subito deviata sui risvolti politici immediati: le dimissioni di Renzi, il governo-fotocopia di Gentiloni , la sfida a colpi di giunte (Roma e Milano, Virginia Raggi e Beppe Sala) fra PD e M5S, le grandi manovre sulla legge elettorale e la gestione (o gestazione, visto che durerà un po’ di mesi, che siano sei o dodici) delle prossime elezioni.
E invece valeva (e vale) la pena di restare concentrati ancora un po’ su quello che è accaduto in Italia in una tranquilla domenica invernale, piuttosto fredda peraltro. Tornare a quello stupore positivo nel vedere il primo exit poll, tutti ancora prudenti per scaramanzia, per le tante botte prese, per le sconfitte ingoiate (vedi referendum di aprile sulle trivelle giocato sull’assenza, sull’indifferenza). C’era ancora il dubbio di una parziale rimonta, che avrebbe attenuato la sconfitta del SI, che poi era la sconfitta di Renzi ( e della Confindustria, e di Obama, e della Merkel, e del “Financial Times”, e dell’agenzia di rating “Fitch”, un elenco lunghissimo, che arriva fino a JP Morgan). E c’era da valutare, altrettanto importante, il tasso di partecipazione, perché una percentuale poco superiore o addirittura inferiore al 50 per cento avrebbe giustificato il distacco, la minimizzazione, i vari “l’avevo detto io, che alla gente la questione non interessa, che il referendum è uno strumento sbagliato, che la cosa andava gestita dai tecnici del diritto”, per giustificare la propria mancata presa di posizione.
E invece no. Il messaggio è stato così dirompente e spiazzante da lasciare intontiti tanti commentatori e (presunti) analisti. Si è colta la rabbia (che c’era, eccome), si è colta l’avversione a Renzi (e al renzismo), sicuramente importante, ma non prioritaria; poi si è cominciato a spacciare il successo del NO per una vittoria politica del M5S in primis, e della Lega in subordine, dimenticando quasi completamente la sinistra, che pure si è mobilitata per prima sulla questione, sulla scia dell’impegno in primavera per provare a vietare le trivelle (e a bloccare il TTIP); e si sono tralasciati aspetti importantissimi.
Il primo significato è quello più semplice, è il risultato letterale della consultazione: non toccate la Costituzione, non ci provate mai più.
Marco Revelli sul “manifesto” ha colto meglio di altri il risvolto veramente nazionale (ed è un dato confortante) dell’esito referendario: la maggioranza degli italiani, quella vera, fisica, numerica, non quella volatile dei famosi sondaggi, vive la Costituzione “come un ombrello”, come una base irrinunciabile, un baluardo in tempi di crisi profonda della politica ufficiale, dell’ordine costituito. E’ la scelta “conservatrice” più rivoluzionaria che si potesse fare in questi tempi (grami). Non ci dobbiamo infatti inventare niente, in tema di diritto pubblico, né a livello italiano, né a livello mondiale. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ha la stessa età della nostra Carta (1948), le convenzioni ONU sono ancora, nonostante tutto, i pilastri del diritto internazionale, e sono state integrate dalla Convenzione sui diritti sociali, culturali ed economici, praticamente un contro manifesto della globalizzazione capitalista, e dall’accordo sulla giustizia climatica scaturito dalla Conferenza COP 21 (in grande sintonia con l’enciclica “Laudato Si’” di papa Bergoglio, che molti laici chiamano con affetto “il compagno Francesco”).
Quello che manca clamorosamente è l’applicazione dei principi sanciti a livello internazionale o italiano. E manca anche una vera Costituzione per l’Unione Europea, andata avanti per decenni a colpi di accordi commerciali ed economici: nel 2017 si celebra il sessantennio dell’istituzione di quella che si chiamava Comunità Economica Europea, e a lungo si chiamò MEC (ricordate?), il Mercato Europeo Comune. Che resta la definizione più onesta, nonostante le fughe in avanti della UE, con i trattati di Maastricht e di Lisbona. Quando le scelte dei popoli faranno meno paura, e si capirà che non siamo condannati ad un derby fra due destre, quella liberista “moderata” e quella nazionalista e xenofoba che sembra aver inglobato la protesta per l’ingiustizia sociale, si andrà a votare finalmente per una vera Assemblea Costituente europea, per eliminare una volta per tutte quell’obbrobrio antidemocratico che è la Commissione.
Ma torniamo al referendum italiano. Il primo messaggio, lo abbiamo detto, dovrebbe dire basta a tutta la retorica sulle “riforme” che ci assilla dai tempi di Bettino Craxi. Chissà come mai, per quasi 40 anni, cioè gli anni migliori della Repubblica, a nessuno venne in mente che cambiare la Costituzione fosse la conditio sine qua non per fare politica. Era vero il contrario: tutti i passi più significativi, dalla creazione della Corte Costituzionale fino a quella del Sistema Sanitario Nazionale, dallo Statuto dei Lavoratori alla riforma del diritto di famiglia, andavano nella direzione di realizzare la Costituzione, che può essere vista, nella sua lenta attuazione, esattamente come la democrazia: un fantastico “work in progress”, con ampie prospettive di futuro, e con continui rischi di regressione, soprattutto dopo gli ultimi sciagurati decenni. Quindi, se non fosse ancora chiaro: gli alfieri del SI, cambiando le regole del gioco, volevano mantenere meglio lo status quo, e molti hanno abboccato in buona fede. Ma gli italiani, per fortuna, hanno detto: Nunca màs.
Il secondo messaggio, quindi, è la rivolta popolare rispetto ai plateali tentativi di condizionamento operati da un’intera classe intellettuale, che se non è direttamente asservita, è quanto meno abituata a vivere nel conformismo, nell’ignavia, nella
mancanza, direbbe De Gregori, di “coraggio, altruismo e fantasia”. Viceversa, non avremmo visto il paradosso, spinto all’estremo da gente tipo Massimo Cacciari, per cui “la riforma fa schifo, ma la voto lo stesso”, come se non ci fossero alternative al finto dinamismo renziano.
Il referendum in questo senso è stato una potentissima cartina di tornasole, a tutti i livelli. Abbiamo scoperto insospettabili campioni di moderatismo, ipnotizzati da un istinto “democristiano”, a volte inconsapevole (si può mai cambiare la Carta fondamentale della nostra democrazia accettando “il meno peggio”?): i tanti “voto SI senza entusiasmo” (Prodi, Cuperlo, ma anche Bonino, curiosamente definita “personaggio dell’anno” dall’“Espresso”; e poi le ACLI, e gran parte del Terzo Settore, il famoso volontariato, apparso, nella circostanza, un po’ sdraiato sul governo, chissà perché) ; o i tanti che non si sono pronunciati o propendevano per un’astensione (vero Fabrizio Barca, Roberto Saviano, Giovanni De Mauro?). Ma non abbiamo apprezzato nemmeno quelli che hanno votato NO senza dichiararlo prima , anche se li stimiamo (da Curzio Maltese a Zoro). Ebbene sì, questo voto ha ridefinito le categorie politiche, anche fra parenti, amici, conoscenti. Per qualche VIP si è trattato probabilmente di un viaggio senza ritorno: difficile riuscire a sopportare ancora Benigni, per esempio, dopo il sostegno plateale a Renzi. Qualcun altro potrà riscattarsi, per carità: ma ci aspettiamo, sempre per esempio, un prolungamento del silenzio sulla politica da parte di Nanni Moretti, di cui siamo stati ammiratori, visto che non ha avuto nulla da dire su un passaggio fondamentale della vita pubblica italiana. Al contrario, onore e gloria, fra i tanti, ad Andrea Camilleri e a Salvatore Settis.
Il terzo messaggio, in ordine di esposizione ma non di importanza, è stato il primato del Sud.
Primato numerico (le percentuali di NO di Sicilia e Sardegna, quello di città come Napoli o Palermo rispetto a Milano o Bologna ) ma soprattutto storico: è la prima volta che il Sud va contro il “mainstream”. In modo netto, inequivocabile. E’ finito il processo per cui i meridionali (in maggioranza) erano monarchici con i Savoia, fascisti con Mussolini, democristiani con la DC, berlusconiani con Berlusconi. Asfaltato il cinismo dei voti comprati e delle clientele (tipo le “fritture” di Vincenzo De Luca in Campania, che ora ne risponderà ai giudici, e le tante prebende date o promesse dall’accoppiata Renzi/Boschi), ribaltata anche l’indifferenza, il qualunquismo alla Checco Zalone (che ci ha fatto ridere abbastanza, con la macchietta del simpatico cialtrone, ma è ora che si inventi qualcos’altro pure lui): il quorum è stato raggiunto dovunque, anche se non era necessario, mentre nel 2006, sull’analogo referendum, in nessuna regione del Sud si superò il 50 per cento. Se non sono cambiamenti questi, non si sa quali dovrebbero essere. Si può tranquillamente affermare che il Sud ha riscattato il conservatorismo della scelta per la Monarchia al referendum del 1946; mentre il Nord (e il Centro), che fu repubblicano e antifascista, è ancora in gran parte fermo alla cultura berlusconiana e leghista, quanto di più regressivo sia stato prodotto negli ultimi 25 anni in Italia. Il risvolto politico più immediato è che il M5S, l’unica vera novità politica dell’ultimo decennio, ha connotati fortemente meridionali.
Quarto e ultimo messaggio: il NO è stato anche il riscatto politico dei giovani, in maniera evidente, quasi scolastica: l’unica categoria dove il SI ha prevalso (e nettamente) è quella degli “over 65”. Da sotto i 55 anni (rientriamo con piacere nella categoria, ancora per un po’) l’affermazione del NO è stata netta, con l’apice nei 25-35enni, e nella categoria studenti. Il futuro, parola tanto cara ai renziani, non è roba loro. La falsa sinistra che ha sposato il libero mercato, le privatizzazioni, l’individualismo “smart”, la presunta “modernità” (vera parola feticcio) è ufficialmente vecchia, a distanza di vent’anni da Blair, Prodi, Schroeder & Company. Anzi, è morta, seppellita negli States di Obama e dei Clinton come nella Francia di Hollande.
Ora possiamo andare ottimisti verso il 2017: non siamo morti democristiani, non siamo morti berlusconiani, non moriremo neppure renziani. W l’Italia.
Cesare Sangalli