Femminile Plurale

 

Un format chiamato Trump


Paladino della classe media emarginata dalla globalizzazione, archetipo del leader populista carismatico e iconoclasta, interprete di questa nuova età della rabbia: si è scritto di tutto per spiegare l’arrivo alla Casa Bianca di un candidato improbabile come Donald Trump.
Di sicuro, le élites, sia di orientamento democratico che repubblicano, chiuse nella difesa dei loro privilegi, non hanno saputo cogliere il sentimento di protesta che covava negli USA.
Ma per altri aspetti, Trump, soprattutto come fenomeno mediatico, è il “prodotto finale” di tendenze in atto da tempo, degenerazioni contro le quali pochi avevano puntato il dito, rimanendo per lo più inascoltati.
Oggi molti giornali ed emittenti televisive americane – quelli che Trump con disprezzo definisce “i mainstream media”- rappresentano uno dei più importanti baluardi dell’opposizione alle politiche della nuova amministrazione, insieme al settore giudiziario e alle proteste della società civile, e non è un caso che Trump abbia già attaccato più volte sia gli uni che gli altri. Steve Bannon, la sua eminenza grigia, capo di strategia ed ex presidente, tra le altre cose, del sito ultraconservatore Breitbart News, ha già marchiato i media in generale come il vero “opposition party”, che a suo dire vomita menzogne su Trump, fomenta ingiustificatamente il dissenso e non si unisce al coro dei “cheerleader” (“ragazze pon pon”) dai quali il presidente si vorrebbe circondato.
Ma la storia personale del neo inquilino della Casa Bianca rivela che tra lui e i media è esistito da sempre un complesso rapporto di amore e odio, una relazione simbiotica in cui lo sfruttamento è stato reciproco, e ha sempre avuto alla base il culto del rating, gli indici di ascolto ad ogni costo, il profitto e l’affermazione personale,: in altre parole, Trump è un Frankenstein mediatico, una creazione televisiva finita per sfuggire al controllo dei suoi autori.
Uomo d’affari di successo, ma dallo stile manageriale aggressivo e poco ortodosso, The Donald ha costruito la sua immagine presentando per oltre dieci anni, dal 2004 al 2015, la serie televisiva della NBC “The Apprentice” (L’apprendista), ottenendo indici d’ascolto tali da far venire l’acquolina in bocca ad ogni dirigenza televisiva affamata di introiti pubblicitari.
“The Apprentice” è un gioco a premi condotto da un uomo d’affari affermato, incaricato di giudicare le capacità manageriali di un gruppo di concorrenti, in gara per ottenere una posizione nell’azienda del conduttore. All’epoca il grande “creatore” e sponsor televisivo del neo presidente era Jeff Zucker, attualmente presidente di CNN, ma allora a capo del settore intrattenimento della NBC. Oggi i due, che non si parlano da dicembre, siedono ai lati opposti della barricata e il corrispondente CNN alla Casa Bianca è stato clamorosamente escluso dal briefing con i giornalisti del portavoce di Trump Sean Spicer.
Zucker non respinge il merito (o la colpa) di aver creato Donald Trump come star televisiva , visto che ne condivide la passione sia per l’audience che per lo spettacolo. Nel libro-biografia Trump Revealed, i giornalisti del Washington Post Marc Fisher e Michael Kranish scrivono: “ lo show (The Apprentice) era concepito come una sorta di campagna pubblicitaria per l’impero e lo stile di Trump”. La serie ha avuto un successo enorme, portando alle stelle gli indici di ascolto dell’emittente. Molti a Washington hanno recentemente criticato CNN per aver dato troppo spazio a Trump sia nel corso delle primarie del partito repubblicano che durante la campagna elettorale, ancora una volta sfruttando il candidato repubblicano come rating machine in grado di far lievitare gli indici di ascolto. Se lo aspettavano da Fox News, il canale conservatore e dichiaratamente pro repubblicano di Rupert Murdoch, da tempo numero uno negli ascolti, con il suo stile di informazione urlata, quasi sempre sfacciatamente di parte e non di rado razzista. Ma non dal gioiello dell’informazione creato da Ted Turner. Zucker non si è tirato indietro e si è difeso appellandosi alla pura forza delle news: è innegabile che Trump faccia notizia e un fenomeno storico come il suo arrivo alla Casa Bianca è degno della prima pagina.
Oggi le invettive del neo presidente contro CNN, New York Times, Washington Post, BBC, solo per citarne alcuni, sono una medaglia d’onore sul curriculum dei “prescelti”, e in qualche modo anche quest’ultimo episodio nel braccio di ferro tra Trump e i media, con i suoi veleni, i suoi insulti, gli attacchi senza precedenti contro la libertà di stampa, se è indice di una pericolosa deriva autoritaria, allo stesso tempo non fa che accrescere l’interesse del pubblico per l’aspetto spettacolare della rissa. Tutte e tre i principali canali d’ informazione americani, Fox News, CNN e MSNBC, hanno registrato una graditissima impennata degli ascolti negli ultimi mesi della campagna elettorale, una delle più lunghe e divisive della storia del Paese.
Le ragioni di una svolta radicale nel modo di fare giornalismo, soprattutto negli Stati Uniti, ma ormai anche in Europa, hanno radici più profonde e vanno ricercate altrove, al di là della singola emittente o di un particolare sito web. E’ ormai da tempo che soprattutto i network americani, lasciati alla mercé delle spietate regole di un mercato mediatico iperliberista, per attirare audience, cioè rating, e quindi introiti pubblicitari, hanno preso la strada di una rapida involuzione.
Già alla fine degli anni Cinquanta Edward R. Murrow, il leggendario reporter autore tra l’altro della serie di articoli che erano caduti sotto la censura del senatore Joseph Mc Carthy, avvertiva: “ Il problema con radio e TV oggi è che entrambi sono diventati una combinazione incompatibile di spettacolo, pubblicità e notizie”.
Questa progressiva trasformazione ha subito un’accelerazione alla fine degli anni Settanta grazie ad una deregulation legislativa che ha favorito il proliferare di emittenti radio-televisive negli Stati Uniti. Ma è stata soprattutto la comparsa e la rapida diffusione negli anni Duemila dei social media – Facebook, Youtube e Twitter – a cambiare ulteriormente il modo di fare informazione. Le emittenti tradizionali hanno cominciato ad inseguire i social media, percepiti come più immediati, accessibili, giovani e democratici, sul loro stesso terreno.
Dal giornalismo serio, impegnato, analitico, si è passati all’infotainment, l’informazione spettacolo, breve, poco impegnativa, dai titoli urlanti, che intrattiene, diverte e non interroga troppo un pubblico arrabbiato, con poco tempo a disposizione e scarsa inclinazione all’approfondimento. E’ da tempo che una buona parte dei media, in nome della sopravvivenza in un mercato brutale, ha dovuto rinunciare al proprio ruolo civico. Ne è nato un tipo di informazione che per forza di cose rinuncia a guidare ed educare e si condanna a seguire gli umori delle folle, finendo per fomentare il populismo che pure ne minaccia la sopravvivenza; un’informazione che fa appello ai sensi più che alla mente, urla con le masse, se ne fa trascinare e rinuncia a capirle e in ultima analisi a renderle davvero libere. E’ questo genere di comunicazione che ha contribuito non solo a creare Trump, ma forse, ancora più sinistramente, a plasmare l’elettorato che lo ha portato al potere. Più o meno consapevolmente, più o meno colpevolmente, alcuni si sono lasciati ingaggiare dal Trump Show. Governare ed informare sono però un’altra cosa.
Ora che il Frankenstein uscito da questo esperimento minaccia di annientare chi non si adegua, molti esponenti di quel mondo si ergono a baluardo delle libertà attaccate. “The show must go on”, gli eserciti in campo promettono uno spettacolo di grande intensità, dal quale però l’informazione vera rischia di uscire sconfitta in partenza.
Asia Mc Curry