Il Fatto del Mese

 

Ma quale democrazia? Zitto e investi


E’ come se il commercialista ti dicesse che non devi andare a votare, se vuoi tutelare i tuoi risparmi. Per far fruttare il capitale, meglio rinunciare alla democrazia. Sembra una provocazione, ma è la realtà nuda di questi “tempi moderni”. Il sospetto lo avevamo in tanti da parecchio tempo, ma adesso il vero “scontro di civiltà”, quello fra finanza e diritti, fra finanza e democrazia, viene esplicitato nero su bianco, con tanto di firma.
Quattro nomi eccellenti: Ernst&Young, Kpgm, DeLoitte, Pricewaterhouse, le quattro grandi ditte mondiali di “consulting” finanziario e revisione conti (ci sarebbe stata anche la Arthur Andersen, ma è fallita in seguito allo scandalo Enron). Scena del “crimine”: Hong Kong.
I cinesi di Hong Kong, che godono di libertà civili sconosciute al resto dei compatrioti (in virtù dell’accordo con il Regno Unito che sancì il ritorno della città alla “madrepatria” nel 1997), vogliono semplicemente poter eleggere il loro governatore. E stanno raccogliendo le firme per fare un referendum che restituisca la scelta al popolo, sottraendola alle autorità di Pechino.
Inaudito, per le compagnie esperte di finanza. La democrazia per loro è “una minaccia verso la legalità locale” (!). Il libero voto dei cittadini di Hong Kong, potrebbe “perturbare la Borsa, le banche, e le attività finanziarie, provocando danni inestimabili all’economia”.
Se i cittadini dovessero insistere con le loro richieste folli, i quattro colossi, che gestiscono un business di 17 miliardi di dollari, minacciano di lasciare Hong Kong, mettendo a rischio la sua posizione di centro finanziario dell’Asia, il continente del futuro (?).
Ora, le quattro ditte (ripetiamole: Ernst & Young, Kpgm, DeLoitte e Pricewaterhouse) sono tutte nate nel solco del capitalismo anglosassone, alla fine della “seconda rivoluzione industriale”, cioè agli inizi del Novecento. C’è una variante olandese, un po’ di capitale tedesco, qualche sede legale in Svizzera (e ti pareva), ma in buona sostanza siamo ancora e sempre sull’asse Londra - New York. Due imperialismi, uno più vecchio e nella parabola calante (quello inglese), uno più giovane e nella sua fase ascendente (quello americano). Convinti entrambi della propria missione civilizzatrice, come lo era l’imperialismo comunista (per fortuna fallito).
E’ sull’asse New York - Londra che si è costruita la favola del libero mercato che portava in dono, quasi magicamente, i diritti umani e la democrazia.
La favola del presunto binomio fra libero mercato e democrazia è stata recepita così tanto, che ci sono perfino contestatori del capitalismo che hanno preso di mira i diritti umani e la democrazia, come se fossero appunto un prodotto d’esportazione occidentale (cioè accettando, anche se al contrario, il falso postulato propagato dal capitalismo).
Meno male che c’è la Cina, a ricordarci continuamente che il capitalismo vive benissimo (e pure meglio) nei regimi autoritari. Così mentre il PIL della Repubblica Popolare sta sorpassando quello degli USA, il paese sta diventando ovviamente uno dei paesi più diseguali al mondo, anzi, a parametri corretti la società cinese pare abbia la palma del reddito peggio distribuito del pianeta, pur continuando a sventolare la bandiera rossa con la falce e martello. Non sono le dittature a creare società più giuste , che siano regimi guidati da un Partito comunista, o nazioni comandate da un re (come l’Arabia Saudita), da un emiro (come il Qatar), da un dittatore mascherato da presidente (un gran numero di paesi asiatici, africani, e perfino europei).
Il capitalismo ha tutto da temere e molto da perdere dall’affermazione della democrazia, a partire dal diritto di voto, dalla sovranità popolare.
In Europa siamo sempre più convinti che votare serva a poco o nulla, con ottime ragioni, perché la politica si è progressivamente venduta al capitale. Ma così facendo abbiamo perso l’orientamento, e finiamo per sostenere il mondo che poi diciamo di detestare.
Anche perché difficilmente siamo disposti ad ammettere che, in fin dei conti, la cosa che ci interessa di più (l’unica?) è il nostro conto corrente, il nostro piccolo o grande portafoglio di titoli, la nostra casa, la nostra macchina. Proprio come ci dicevano i cinesi di Macao (vedi reportage): se ho un buon lavoro e un buon tenore di vita, a che serve avere i diritti politici?
In fin dei conti non c’è da stupirsi. I grandi gruppi bancari e finanziari arrivano dovunque. Anche il nostro minuscolo fondo pensione, a leggere bene, è amministrato dalla Merryl Lynch o dalla JP Morgan, la banca che ha fatto circolare l’ormai celebre documento in tutta Europa, un’autentica direttiva politica, nel quale si invita il sistema a contrastare e “riformare” le costituzioni solidaristiche nate dalla resistenza antifascista.
Il fascismo, che sta tornando di moda nelle sue varie forme (compreso quella cinese) non è mai stato e mai sarà alternativo al capitalismo. E’ solo l’illusione di potersi chiudere nella propria Patria, grande o piccola, e inseguire il passato, dando fiato ai rigurgiti reazionari. La vittoria di Narendra Modi in India ne è l’esempio più eclatante: estremismo identitario/religioso (l’India è induista è parla hindi, chi non fa parte della categoria è un cittadino di serie B), e liberismo sfrenato.
Dall’altra parte, quella dei sedicenti democratici, pare brutto intaccare il famoso “soft power”(che poi è solo la potentissima lusinga del consumismo) Anche perché ci siamo abituati.
La notizia della protesta dei cittadini di Hong Kong è stata ripresa sia da “Vanity Fair”, nella forma più superficiale, sia da “Internazionale”, nella forma più seria. Ma le quattro grandi multinazionali della consulenza finanziaria e fiscale non sono mai menzionate. Era una notizia da sparare su nove colonne: è stata quasi completamente oscurata. La nostra fonte primaria in italiano è stato il sito www.dirittiglobali.it . In pratica, il sito di una associazione senza scopo di lucro. Anche Amnesty International ha preso posizione contro i quattro gruppi. Ma i “grandi giornali” ancora una volta hanno “bucato” la notizia. Chissà perché.


Cesare Sangalli