Il Fatto del Mese
Piazza Fontana, 45 anni dopo: un giudizio restio, anzi Restivo
Fantasmi. Fantasmi inquietanti che ritornano nella nostra storia. Da vivi e da morti. Eravamo tentati di scrivere della richiesta di condanna a nove anni per Calogero Mannino, esponente storico della DC, già processato e alla fine assolto per associazione mafiosa, ma di nuovo sotto accusa per “minaccia a corpo dello Stato”.
In pratica avremmo chiuso il 2014 così come l’avevamo iniziato: scrivendo di mafia, di condanne (quella di Lombardo, ex governatore della Sicilia) o processi (quello sulla trattativa Stato-mafia che riguarda Mannino) che passano praticamente inosservati, perfino nel momento in cui si parla in lungo e in largo della Cupola di Roma.
Invece, prendendo spunto dall’ottimo articolo scritto da Benedetta Tobagi su “Repubblica” in occasione dell’anniversario della strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969) vogliamo tirare fuori faccende dimenticate o sconosciute nelle loro connessioni. Tanto alla fine tutto torna, come vedrete in questa incredibile storia.
Scrive Benedetta Tobagi che sulla strage di Piazza Fontana alcune verità sono inoppugnabili, almeno dal punto di vista storico, visto che il percorso giudiziario si è concluso a suo tempo con un nulla di fatto.
Una di queste verità riguarda il depistaggio di Stato, e cioè la famosa pista anarchica, quella che portò all’arresto di Valpreda e alla morte di Pinelli, che fu prefabbricata, fin dai primissimi giorni delle indagini, nell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno.
Chi era il ministro dell’Interno in quei giorni drammatici? Un insospettabile docente siciliano di diritto costituzionale, democristiano di lungo corso: l’onorevole Franco Restivo, classe 1911, già presidente della Regione Sicilia.
Restivo di sicuro è uno dei politici meno conosciuti di quella stagione, che vedeva protagonisti personaggi ancora viventi, e tutto sommato in discreta forma, come Arnaldo Forlani, all’epoca segretario della DC. Un nome oscuro, quindi, che quasi non ha lasciato traccia né memoria.
Eppure il nome Restivo rimbalza per un’assonanza, un richiamo di cronaca, che forse a questo punto dell’articolo è già scattato nel lettore: quello con Danilo Restivo, il maniaco killer di Elisa Claps.
Ebbene sì, Danilo (che sta all’ergastolo in Inghilterra per un altro efferato femminicidio) è il nipote di Franco, nato quando lo zio, da ministro dell’Interno in ben tre governi democristiani, diventava ministro della Difesa con Giulio Andreotti (1972).
Ora, nell’Italia del familismo amorale e della mostruosa continuità del Potere, i legami contano anche a distanza di anni,e post mortem.
Quando Danilo uccide Elisa Claps, nel 1993, lo zio è morto già da 17 anni (1976).
Attenzione però: il ministro depistatore della strage fascista aveva, secondo Vito Ciancimino (che per questo si è preso una querela dai Restivo, ma tant’è) ottimi rapporti non solo con Ciancimino padre, ma anche con i boss mafiosi amici dell’ex sindaco di Palermo.
E anche se cambiano gli scenari geografici (dalla Sicilia si passa in Basilicata,e dalla mafia si passa alla ’ndrangheta), certe conoscenze, fra pezzi di Stato, massoneria e mafie contano sempre e comunque, come vedremo più avanti.
Fatto sta che il pubblico ministero di Potenza che indaga sul caso Claps , Felicia (Licia) Genovese, stranamente non dispone né il controllo sui vestiti insanguinati di Danilo (!), né una perquisizione della sua abitazione, e svolge il suo ruolo con una tale approssimazione che ci vorranno altri 17 anni e un secondo delitto per incastrare il maniaco omicida (importante la testardaggine di Federica Sciarelli e del programma “Chi l’ha visto?” nel tenere aperto il caso).
Licia Genovese, che agisce all’epoca assolutamente indisturbata, si rende protagonista di un’altra storia poco edificante: la nomina del marito, Michele Cannizzaro, alla direzione dell’ospedale San Carlo di Potenza. Le nomine alla sanità sono politiche: quella del marito della signora magistrato è opera del governatore lucano Bubbico e della giunta di centrosinistra.
Ora, si da il caso che su quella stessa giunta la procura di Potenza stava indagando per abuso di potere. Ma la signora Genovese archivia l’inchiesta, e, oplà, ecco la nomina del marito alla più importante struttura sanitaria lucana. Strane coincidenze.
Il conflitto interno fra i magistrati di Potenza si fa sempre più aspro; una parte indaga, l’altra insabbia, una parte accusa, l’altra nega. Di sicuro, il signor Cannizzaro, oltre a essere iscritto alla massoneria (e ti pareva), ha pessime frequentazioni (pessime dal nostro punto di vista, ottime per lui) con alcuni esponenti della ‘ndrangheta: telefonate, incontri, cene. Frequentare boss criminali non è reato, ma le persone oneste di solito non lo fanno.
Secondo alcuni magistrati, in realtà, a Potenza c’è un discreto verminaio, un sistema di potere fra magistratura, ufficiali di polizia, politica e imprenditoria. La prima breccia nel silenzio generale lo apre Henry John Woodcock, prima di cominciare a subire azioni disciplinari e prima di essere trasferito a Napoli. Ma sulla cupola potentina indaga un altro magistrato, da Catanzaro, perché Catanzaro è competente sulle questioni che riguardano la magistratura di Potenza: Luigi De Magistris.
L’inchiesta, chiamata “Toghe Lucane” finirà nel nulla (cioè con 30 archiviazioni), anche perché non sarà De Magistris a concluderla: pure lui (come Woodcock) comincia a subire una serie di ispezioni e di procedimenti punitivi, anche lui viene trasferito (a Napoli), così come vengono trasferiti i magistrati di Salerno che avevano controllato le contro accuse di Felicia Genovese & Co. su De Magistris, supportate dall’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella (vedi “ I Mastellas: il fascino discreto della raccomandazione”), e avevano concluso che la condotta del magistrato, attuale sindaco di Napoli era stata ineccepibile.
Nel frattempo, anche Licia Genovese è stata trasferita a Roma, dove continua tranquilla a svolgere le sue funzioni, con ruolo diverso.
Insomma, per lo Stato italiano, ancora una volta, non è successo niente. Il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto, è bene ricordarlo, dal Presidente della Repubblica, non ha mai stabilito chi sono i magistrati onesti e quelli disonesti. Pari e patta.
Di tutta questa storia (o meglio, dei suoi collegamenti) resta in piedi solo un processo a carico di De Magistris (condannato in primo grado anche se il PM aveva chiesto l’assoluzione). C’era stata anche una querela di Cannizzaro ai danni di don Marcello Cozzi, prete di “Libera”, ma è stata archiviata dai giudici, in quanto “c’era un fondo di veridicità” nelle perplessità espresse dal sacerdote sulle frequentazioni del marito di Felicia Genovese con boss della ‘ndrangheta.
Come su Piazza Fontana, anche sugli allucinanti risvolti dell’assassinio di Elisa Claps si continuerà nei prossimi ad avere solo opinioni. Per gente come Ferrara e Facci (e molti altri) le inchieste di Woodcock e De Magistris erano bufale; per Travaglio (e pochi altri) il Potere ha impedito ancora una volta che si arrivasse alla verità. Poi magari si arriverà a qualche certezza storica.
Ognuno di voi è in grado di capire chi sono i buoni e i cattivi di questa storia. Ma c’è anche una sorta di terza posizione, quella della neutralità (apparente), espressa perfettamente, in questo e in altri casi, da Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica intervenne per fermare quello che lui definì un conflitto fra magistrati. Meglio non distinguere troppo, meglio rimanere nell’eterna zona grigia del non giudizio, com’è stato per Piazza Fontana, com’è stato per mille delitti impuniti della storia d’Italia. Un paese che non sa affrontare i propri errori, è condannato a ripeterli.
Cesare Sangalli