Il Fatto del Mese

 

Il caso Rasman, quando la divisa fa paura


La notizia la dà Amnesty International, insieme a diversi giornali, ma con poco o pochissimo risalto: il Ministero dell’Interno è stato condannato a risarcire, insieme a tre agenti di polizia, un milione e 200mila euro ai familiari di Riccardo Rasman,“disabile morto a Trieste nel 2006 dopo un’irruzione della polizia nella sua abitazione”.
Un tipico lancio di agenzia, che non compare nemmeno sul sito del “Corriere”, e poi vedremo com’è stato “approfondito” da “Repubblica”. E’ vero che negli anni scorsi se ne erano occupate diverse trasmissioni, dalle “Iene” a “Presa diretta”, e un ottimo servizio era apparso sul blog di Beppe Grillo, ma sono stati piccoli lampi nella nebbia dell’indifferenza.
La storia di Riccardo Rasman è una storia di ingiustizia colossale, che spande altro sale su una ferita, o meglio, una piaga, mai chiusa in Italia, quella delle violenze commesse dalle forze dell’ordine su persone inermi, che rimandano tutte alla parola tabù: tortura.
Nelle brevi e laconiche ricostruzioni del caso Rasman ci sono rimozioni impressionanti, dalle circostanze in cui è morto Riccardo (che è stato ucciso con la stessa identica dinamica di Magherini e di Aldrovandi), alle ricadute sugli agenti (praticamente nulle). Ma la prima cosa da ricordare riguarda il fatto che Riccardo Rasman, un ragazzone triestino classe 1972, non era un disabile psichico dalla nascita (più precisamente: affetto da schizofrenia paranoide con fasi di depressione acuta),: era un giovane uscito fuori di testa in seguito al servizio militare. Un disabile di Stato.
Di indole pacifica, nonostante la stazza, Riccardo era semplicemente un’anima candida presa di mira dal sadismo diffuso nelle caserme che va sotto il nome di “nonnismo”.
Da che è stato abolito il servizio di leva (una delle poche cose buone del governo D’Alema), del fenomeno del nonnismo non si è quasi più parlato. Ma di caserma si moriva eccome, in Italia, negli anni Ottanta e Novanta, a partire da un drammatico numero di suicidi delle reclute.
A Riccardo non venne risparmiato niente: botte, maltrattamenti, umiliazioni, in una parola (ancora e sempre quella): tortura. Perché essere messo con la faccia nel cesso e prendersi l’acqua dello scarico è già una forma goliardica di “waterboarding” . Riccardo non reagiva, non voleva fare male a nessuno; ma dopo sei mesi di leva, i commilitoni lo avevano fatto uscire di cervello.
La famiglia che aveva affidato allo Stato un ragazzo sano, si vide restituire un malato, con tanto di pensione di invalidità “per cause di servizio”.
Riccardo da allora era in cura presso il Centro di salute mentale, stava quasi sempre con i genitori e con la sorella, dormiva tantissimo, lo imbottivano di psicofarmaci, aveva ormai paura di tutto e andava nel panico ogni volta che vedeva una divisa.
Dal 1992, la sua vita rovinata aveva pochissime soddisfazioni. Una di queste rare soddisfazioni gli doveva costare la vita. Riccardo aveva trovato lavoro come operatore ecologico. Chiese ai suoi di andare nell’appartamento che gli era stato assegnato, per godersi uno dei rari momenti di autonomia, di libertà. Il resto è cronaca, cronaca assurda, tragica.
Una vicina sente dei botti, sono un paio di raudi (grossi petardi) che Riccardo avrebbe lanciato dalla finestra (perché non è sicuro nemmeno questo). La vicina chiama il 113, per un’emergenza inesistente, ridicola. Arriva la volante, Riccardo, probabilmente terrorizzato dalla vista delle divise che lo vengono a prendere, rifiuta di aprire la porta. I poliziotti, tre uomini e una donna, chiamano allora sia i vigili del fuoco sia gli operatori del centro di salute mentale, che confermano la malattia psichica del giovane.
Ma anziché aspettare l’arrivo degli operatori specializzati, che di sicuro saprebbero come farsi ascoltare, i poliziotti chiedono ai vigili del fuoco di sfondare la porta, bloccano Riccardo dopo una colluttazione, lo riempiono di botte, e nonostante il sangue che già è schizzato dappertutto, lo legano come un animale col filo di ferro a polsi e caviglie, lo sdraiano a faccia in giù sul pavimento e lo schiacciano senza curarsi dei rantoli e dei lamenti strozzati che sente perfino una vicina.
Poi, rendendosi conto del danno, chiamano un’ambulanza, non si sa se dopo una decina di minuti o, più verosimilmente, dopo quasi un’ora. Fatto sta che Riccardo arriva all’ospedale cadavere.
Le tante incertezze nella ricostruzione si spiegano con la totale omertà, le bugie e i tentativi di occultamento da parte dei tre agenti che hanno causato la morte, Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi; della poliziotta che è stata a guardare senza nemmeno provare a fermare la brutalità dei colleghi, Francesca Gatti; dei vigili del fuoco presenti (di cui non si conoscono nemmeno i nomi), e di tutta la parte di Stato coinvolta in seguito, dall’Avvocatura ai giudici di primo, secondo e terzo grado.
Esattamente come per i fatti del G8 di Genova, e per tutti gli altri casi singoli più conosciuti (da Cucchi a Aldrovandi) l’atteggiamento complessivo di uomini e istituzioni lascia sgomenti.
Per la giustizia italiana, l’uccisione di Rasman è “omicidio colposo”, e la condanna è stata di sei mesi (sei mesi!), con sospensione condizionale della pena (ovviamente) e nessuna menzione.
La Cassazione ha anche aggiunto che la morte di Rasman “era pacificamente evitabile qualora gli agenti avessero interrotto l’attività di violenta contenzione a terra consentendogli di respirare”: parole che suonano come una beffa atroce.
Nessuna misura disciplinare è stata presa nei confronti dei poliziotti, e nessuno, meno che mai il Ministro degli Interni, si è sentito in dovere di scusarsi con la famiglia, di spendere una mezza parola al riguardo.
E veniamo alla quadratura del cerchio, ovvero l’atteggiamento dei media. Abbiamo già detto dei “black out” informativi del “Corriere” (come di tanti altri: e non possono bastare poche righe sperdute nelle pagine interne , quando poi si sparano a nove colonne tonnellate di non notizie).
“Repubblica” dedica metà del breve articolo a spiegare in termini di giurisprudenza, con le parole del giudice, perché non è stato riconosciuto “il danno tanatologico”, cioè quello derivante dalla “perdita della vita” : non è stato provato che Rasman vivesse con i genitori e che contribuisse con la sua pensione di invalidità alle loro spese.
Il lettore, perso fra lo “iure hereditaraio” e la “non concepibile reintegrazione per equivalente da liquidare agli stretti congiunti”, non saprà mai che è stato il servizio di leva a regalare un invalido alla famiglia, non saprà mai quanto ha dovuto lottare la famiglia per avere almeno riconosciuto il “danno morale” in maniera consistente,e non saprà mai che in Italia si può morire pestati a sangue e “incaprettati” per aver lanciato qualche petardo.
Non c’è da stupirsi, quindi, se la legge che dovrebbe finalmente introdurre il reato di tortura nel codice penale non è stata ancora approvata, nonostante la sentenza della Corte Europea che ha condannato l’Italia (solo grazie all’insistenza di Arnaldo Cestaro, 76 anni) per le violenze perpetrate nell’assalto alla Diaz: tortura.
Almeno per un giorno, un solo giorno in 14 anni di omissioni, la sporca faccenda dell’impunità, dell’omertà, dei depistaggi, dei mille silenzi complici, ha avuto l’onore della prima pagina. Ma è subito ripiombata nel silenzio.
Occorre molto silenzio, infatti, per poter presentare la legge passata alla Camera (in attesa di tornare al Senato) come un grande passo avanti. Lo stesso Luigi Manconi, che ne era l’estensore, è arrivato ad accettarla pur denunciandone i gravi limiti (a partire dalla tortura “reato comune” e non “proprio”, cioè reato di Stato, per capirsi, quindi molto più grave), con un realismo deprimente: “Dobbiamo sapere – ci informa Manconi – che se questo disegno di legge non venisse approvato così com’è oggi, è altamente probabile che per i prossimi cinque anni, e forse di più, il reato di tortura rimarrà fuori dal nostro ordinamento”.
Questo è il massimo che si può avere, in questa che è la migliore delle repubbliche possibili. Anche perché, con poche eccezioni (il M5S ha votato contro), nessuno inchioda i nostri parlamentari alle loro responsabilità.
Che squallido modo di celebrare i 70 anni della Liberazione, la vittoria finale sul nazifascismo, campione di torture e trattamenti disumani e degradanti. “Poco ci chiedono i nostri morti” diceva Calamandrei nel dopoguerra. Non siamo capaci nemmeno di quel poco.
Cesare Sangalli