Il Fatto del Mese
Un pozzo di corruzione: la Nigeria “espropria” l’ENI
Il precedente è storico, non ci sono dubbi. Dovrebbe diventare una pietra miliare nei rapporti fra i paesi africani e le multinazionali, a partire da quelle del settore estrattivo. La Corte federale di Abuja, capitale della Nigeria, ha confiscato la licenza di sfruttamento del più grande giacimento di petrolio (e gas) africano, il cosiddetto “block” Opl 245, a ENI e Shell, perché, stando alle accuse, le due compagnie lo avevano ottenuto in maniera truffaldina (vedi “ Tangentopoli alla nigeriana” ).
La storia del giacimento Opl 245 è un “caso da studio”, per quanto è clamorosa ed emblematica; ma è stata minimizzata, rimossa, neutralizzata al massimo, tanto da costituire una perfetta cartina di tornasole del rapporto media-multinazionali. E’ una storia vecchia di vent’anni, ma “i vampiri del petrolio” (principalmente Shell, ENI/Agip, Chevron/Texaco, Mobil,e le due francesi, Elf e Total) erano già tutti lì da un pezzo, a fare affari con lo spietato, corrottissimo dittatore Sani Abacha, e con il suo ministro del petrolio, Dan Etete, il grande protagonista di questa vicenda. Attenzione al lato italiano: se all’epoca Paolo Scaroni grande manager bocconiano, a lungo al timone dell’ENI, era altrove, impegnato a patteggiare la condanna a un anno e quattro mesi per una tangente versata per conto della Techint al Partito Socialista (che volete, una piccola condanna per una “stecca” fa solo curriculum), l’ottimo Claudio Descalzi, laureato in fisica, sette anni più giovane di Scaroni, era già entrato all’ENI da ben 17 anni, e da tempo si occupava dei giacimenti africani, Congo in particolare, ma anche Nigeria.. Mentre l’immancabile Luigi Bisignani, mediatore con i nigeriani come con tutti, era già stato arrestato per le tangenti Enimont ai partiti, dopo avere fatto parte del Comitato organizzatore di Italia 90 (mondiali di calcio) con Luca Cordero di Montezemolo.
Insomma, tutti i meglio petrolieri europei avevano già visto di cosa era capace Abacha, fra un’orgia e l’altra nella sua lussuosa villa di Aso Rock: il dittatore nigeriano aveva fatto impiccare, nel 1995, uno dei più grandi scrittori africani, Ken Saro Wiwa , perché aveva osato denunciare il vergognoso sfruttamento delle terre della sua etnia, gli Ogoni: per loro, solo terra, acqua e suolo inquinato; il fiume dei soldi finiva nelle casse della Shell e del dittatore nigeriano, che ovviamente metteva il bottino al sicuro nelle banche svizzere e inglesi.
Il fatto è che Sani Abacha, colpito dall’anatema di Giovanni Paolo II per non aver ascoltato ilo suo appello accorato a liberare un centinaio di prigionieri politici, o tradito dal cuore e dal Viagra, oppure avvelenato da qualche specialista yoruba, muore per collasso cardiaco nell’aprile del 1998. Il suo ministro del petrolio non si fa cogliere impreparato: ha appena creato una società di facciata, la Malabu Oil, che gestisce sotto falso nome insieme al figlio di Abacha, Mohamed, e all’ambasciatore nigeriano negli USA, Hassan Adamu, “coperto” dalla moglie. Con un una ventina di milioni di dollari (e non si sa quanti ne siano stati effettivamente versati), la società privata si prende il giacimento OPL 245, cioè una roba da 175mila barili di petrolio al giorno, con una riserva stimata in 9 miliardi di barili, e una quantità ancora più grande di gas.
Qualche anno dopo (2011) Shell e Agip comprano il giacimento con un miliardo e 300 milioni di dollari.
Facendo due conticini, approssimativi ma realistici (considerando 50 dollari a barile, al momento dell’acquisto erano anche di più) significa 500 volte meno il valore delle riserve; oppure, in termini di investimento, vuol dire che in circa cinque anni di sfruttamento le compagnie si sarebbero rifatte della spesa iniziale. Dopodiché, tutto guadagno, come sempre.
Insomma, non occorre essere specialisti per capire chi aveva fatto il vero affare, fra la Nigeria e le due multinazionali. Ma l’ovvia spiegazione dell’ennesimo accordo in perdita per il paese africano (come per tutti i paesi africani produttori di petrolio), e beffa finale per il popolo nigeriano, è che quella cifra largamente inadeguata al valore del giacimento è finita in gran parte (pare il 70 per cento) nei conti correnti di Etete o dei suoi accoliti. Conti per lo più gestiti dalla mitica banca JP Morgan.
In qualche modo, la miccia dello scandalo è stata accesa da una disputa fra i tangentari: la spartizione non era stata equa. Si sono messi all’opera i magistrati nigeriani, poi quelli inglesi, e infine i PM italiani del pool di Milano, Spataro e De Pasquale, che, dopo qualche anno di indagine, hanno chiesto che Scaroni, Descalzi, Bisignani e altri soggetti siano processati per corruzione internazionale. L’indagine era già di pubblico dominio (come abbiamo scritto nel pezzo precedente) quando Renzi ha confermato Descalzi come amministratore delegato di ENI.
Ma si sa, in Italia si è innocenti fino al terzo grado di giudizio. Per fortuna, il governo nigeriano si è già ripreso il maltolto. La sentenza della Corte federale nigeriana conferma una tendenza degli ultimi anni: la giustizia insegue sempre più da vicino le due multinazionali, la Shell molto di più del partner italiano, che fin qui se l’è cavata alla grande.
La prima volta fu nel 2009, un patteggiamento della multinazionale anglo-olandese proprio per la sua complicità con il governo nigeriano nell’esecuzione di Ken Saro Wiwa e altri leader Ogoni: meglio pagare 15 milioni di sterline ai familiari e alle comunità , senza ammettere la responsabilità, che affrontare un vero processo in quel di Londra, quindi con grande visibilità.
Prima di arrivare alla seconda condanna, c’è stato un passaggio giuridico molto importante: il 15 dicembre 2012 la Corte di Giustizia della Ecowas (la Comunità
economica degli stati dell’Africa occidentale) ha decretato che la Nigeria aveva violato la Carta africana dei diritti umani e dei popoli per le popolazioni del Delta del Niger, che il governo nigeriano era responsabile del comportamento delle compagnie petrolifere,e che doveva chiamarle a rispondere dell’impatto ambientale della loro attività.
Ma è soprattutto grazie al lavoro di organizzazioni come Global Witness e Amnesty International, oltre che di una commissione dell’ONU, che nel 2015, dopo sei anni fra inchieste e procedimenti giudiziari , la Shell è stata condannata a pagare oltre 80 milioni di dollari a 16mila pescatori della comunità di Bodo, una località costiera completamente rovinata dall’inquinamento provocato dalle innumerevole fuoriuscite (“oil spillages”) di oleodotti obsoleti, che non avevano mai ricevuto una vera manutenzione, come la Shell ha dovuto ammettere. E sempre la Shell ha ammesso di essere stata a conoscenza da molto tempo della reale entità del danno., dopo averlo negato e avere imbrogliato sui dati dell’inquinamento per anni. L’Agip invece è ancora sulla linea della menzogna totale.
Altre cause sono partite nel frattempo da altre comunità nigeriane: il precedente fa ben sperare. Ma il danno provocato in tutto il Delta del Niger è enorme, e anche se le due compagnie sarebbero tenute a bonificarlo, sarà difficile poter riparare a decenni di inquinamento selvaggio. La giustizia dei tribunali (quelli italiani in particolare) procede molto lentamente. Le leggi per contrastare l’attività delle multinazionali esistono già. La famosa legge Dodd-Frank (2010), uno dei pochi colpi messi a segno da Obama contro lo strapotere del business, prevede fra l’altro che le compagnie estrattive mettano nero su bianco gli accordi economici con i governi dei paesi dove operano. Ma non c’è stata fin qui nessuna vera volontà politica di applicare quella legge, che esiste anche a livello europeo.
Se la volontà politica è quasi nulla (e Trump vuole abolire la Dodd-Frank), altrettanto debole appare la pressione operata dai mass media. E qui veniamo al secondo risvolto della sporca faccenda del pozzo nigeriano (di corruzione). La clamorosa notizia del sequestro del giacimento OPL 245 ha avuto ben poco spazio sui nostri principali giornali, per non parlare delle televisioni. Ma ci sono clamorose mancanze anche a livello internazionale. La faccenda dell’esproprio del giacimento risulta introvabile tanto sul sito della BBC che su quello di Al Jazeera o della CNN , per citare i tre canali di informazione più famosi nel mondo. L’agenzia Reuters ne parla in termini formalistici e distaccati, quasi si trattasse di una mera disputa giudiziaria.
In compenso, compare sui siti citati almeno la notizia del risarcimento per l’inquinamento alla comunità di Bodo, che in Italia svetta sul “Fatto Quotidiano”, ad opera della “solita” Maria Pia D’Orsogna.
Nel pezzo precedente, si parlava del sito filo Renzi “Il Rottamatore”, che aveva attaccato in modo ignobile l’ottima attivista abruzzese, “colpevole” di battersi contro le trivelle nell’Adriatico. Il sito, lo ripetiamo, è diretto da Claudio Velardi, già collaboratore di D’Alema, e vede la partecipazione di Chicco Testa, presidente ENEL, e di Ernesto Auci , per anni capo ufficio stampa della Fiat, nonché docente alla scuola di giornalismo della Luiss a Roma. .
Ma citavamo anche la rivista dell’ENI, “Oil”, che presentava un “parterre des rois” di giornalisti, fra i collaboratori a vario titolo (li vogliamo ripetere): Lucia Annunziata, Federico Rampini, Giuseppe Turani, Ferruccio De Bortoli, Sergio Romano, e addirittura Joaquin Navarro Valls, che fu portavoce di papa Woytila Vedendo l’ultimissima edizione della rivista, data in abbinamento col “Foglio” di Giuliano Ferrara (chissà qual era l’accordo per la marchettona) , si scopre che i quadri sono cambiati assai, non si sa se per la crisi (l’aspetto grafico appare più dimesso), o per il nuovo corso renziano. Fatto sta che scopriamo, nel comitato di redazione, interessanti “new entry” come Mario Sechi , ex direttore del “Tempo”, e di Carlo Rossella, già direttore del TG5 (anche lui ex giovane dell’estrema sinistra come Paolo Mieli, Gad Lerner, Paolo Liguori e molti altri); ma colpisce soprattutto il nome di Lapo Pistelli, che fu il primo avversario di Renzi alle primarie per il candidato sindaco di Firenze, e poi sottosegretario agli esteri sia nel governo Letta che nel governo Renzi, fino al grande passo: lasciare la politica per diventare vicepresidente (indovinate un po’) dell’ENI.
Morale della favola: per leggere storie clamorose come questa dovrete continuare a frequentare fonti di informazioni piuttosto alternativi. Ma verrà un giorno……
Cesare Sangalli