Il Fatto del mese

 

Lobby, sempre lobby, fortissimamente lobby
(la strana coppia Manafort e Lombardi)


“Lobby” è una parola che viene dal latino “lobium”, cioè l’ampio cortile interno delle case patrizie romane, luogo ideale per conversazioni intime, magari passeggiando a braccetto, da buoni amici. Nella traduzione corrente, la lobby è il “gruppo di pressione”, cioè i portatori di un interesse, economico, culturale, sociale, religioso, che cerca di influenzare le politiche dei governi. Gli specialisti dell’attività, che può essere anche per una buona causa, sono nati indubbiamente negli Stati Uniti, dove le “lobbies” sono regolarmente registrate, e l’attività di “lobbying” può essere svolta da studi riconosciuti, anche di un certo prestigio. Uno di questi studi, nato alla fine degli anni Settanta, si chiama Black, Manafort, Stone & Kelly.  A noi interessa la storia di uno dei soci fondatori, Paul Manafort, uno degli “spin doctor” della straordinaria campagna di Donald Trump del 2016, recentemente arrestato con l’accusa di “cospirazione contro gli Stati Uniti”, per aver usato false notizie su Hillary Clinton, notizie fabbricate in Russia (il famoso “Russiagate”).  La storia di Paul Manafort dimostra in maniera abbastanza esemplare come il mondo delle lobbies, collaterale al potere, sia diventato lo specchio più vero della politica ai tempi della globalizzazione (vedi anche “Dietro Trump, c’è Wolverine degli X Men” in archivio). A riprova di tutto ciò, c’è anche la storia di Guido “George” Lombardi, che aggiunge un tocco italiano al tutto, e rappresenta lo zenit dell’involuzione della politica. In realtà, l’origine italiana vale anche per Paul Manafort, e italianissima è l’attività che lega i due soggetti a “The Donald”: il mattone (che vale pari pari anche per Berlusconi).
Paul Manafort viene infatti da una famiglia di costruttori, grazie al nonno immigrato italiano che fondò l’impresa edile, e al padre ingegnere che la sviluppò. Paul, ultimo rampollo della facoltosa famiglia, prima di diventare immobiliarista di professione, fece comunque i suoi bravi studi in legge, e da giovane rampante e dotato si dette alla politica nel team di Gerald Ford, il repubblicano senza carisma che prese il posto di Nixon, travolto dallo scandalo  Watergate, nel 1974, e perse le presidenziali contro Jimmy Carter nel 1976. Possiamo dire tranquillamente che quella fu l’ultima scelta veramente politica degli americani. Carter e Ford erano infatti due leader inattaccabili sul piano morale, soprattutto Carter (Ford era comunque membro della massoneria), e quella era un’epoca in cui le idee, o meglio, le ideologie, avevano ancora un peso molto forte. Quando invece alla Casa Bianca va un ex attore di Hollywood, Ronald Reagan (che Manafort segue nello staff presidenziale), nel 1980, inizia la rapida ascesa del capitalismo finanziario senza freni, e del liberismo senza sensi di colpa , che diventa anno dopo anno l’unica dottrina mondiale.  L’ attività delle lobbies, che esisteva da sempre, tende quindi ad assorbire ogni vera istanza politica, dal momento che “lo Stato non è la soluzione, ma il problema” (Reagan) e che “la società non esiste, esistono gli individui” (Margaret Thatcher).
 Reagan è l’uomo che vince la partita finale con il comunismo, che era già moribondo quando “Ronnie” fa il suo primo discorso sullo stato dell’Unione (gennaio 1981), anche se il trionfo lo raccoglie il suo vice, George Bush senior, dieci anni dopo. In questo decennio, mentre continua la carriera di Manafort e l’attività del suo studio, muore la politica, o quanto meno la politica del Novecento. Da questo punto di vista, tanto Clinton che Obama, unici intermezzi democratici nell’epoca dei repubblicani, rappresentano soltanto una specie di Truman Show: dal punto di vista economico la loro presidenza non cambia il sistema di una virgola.
Ora siamo arrivati al grottesco, alla farsa finale. Nel nuovo secolo, il capitalismo ha avuto bisogno di un nuovo nemico, di nuovi spauracchi da agitare davanti alle masse: ecco allora che gli utili idioti del fanatismo islamico, perfetto in un epoca priva di ideali, diventano la nuova minaccia mondiale. L’altro finto contenuto politico, strettamente collegato alla presunta minaccia islamica, è la difesa della supremazia bianca, che qualcuno spaccia per “cristiana”, e qualcun altro, ancora più confuso, per “civiltà occidentale”. Questo miscuglio di vero business e finti “ideali”, talmente ipocriti da risultare imbarazzanti  nella loro esposizione, sono perfettamente rappresentati dalla destra repubblicana americana, in primis, e poi da tutte le destre mondiali. Finito il comunismo, il capitalismo perde la sua foglia di fico ideologica, e si vede finalmente per quello che è: un pozzo senza fondo di abiezione morale.
La parabola di Manafort è esemplare. Ancora negli anni Novanta, lui  e la sua lobby prendono fior di parcelle per cercare di migliorare l’immagine e garantire gli agganci politici di una squadra di dittatori o leader guerriglieri sparsi nel mondo, che si giustificavano tutti, chi più, chi meno, con la lotta al comunismo: Marcos nelle Filippine, Mobutu in Zaire/Congo, Siad Barre in Somalia, Daniel Arap Moi in Kenya, Teodoro Obiang in Guinea Equatoriale, Ibrahim Babangida e Sani Abacha in Nigeria; Jonas Savimbi, capo guerrigliero dell’UNITA, in Angola. Non a caso il rapporto dettagliato sui compensi allo studio Black, Manafort, Stone e Kelly si intitola “La lobby dei torturatori”.
Con la fine dell’URSS, il lavoro della lobby si è fatto  più difficile, ma non per questo si interrompe. Solo gli avvenimenti interni dei paesi menzionati fa cadere uno a uno gli “uomini forti” sponsorizzati da Manafort, tutti ladri, corrotti e spietati (al potere resta solo Obiang, che ancora spadroneggia in Guinea Equatoriale). Emblematico il caso Savimbi: l’Angola “comunista” fa entrare tranquillamente tutte le multinazionali americane del petrolio; del leader dell’UNITA non c’è più bisogno; il capo guerrigliero, abbandonato, muore in una delle ultime battaglie dell’infinita guerra civile angolana.  
Le tragedie della Guerra Fredda tendono quindi a ripetersi come farse (non meno sanguinose, anzi). I conflitti, nell’era che doveva portare pace e sviluppo, invece di diminuire si moltiplicano. E’ la “geopolitica del caos”, ogni alleanza è reversibile, tutti fanno affari (sporchi) con tutti, anche con i terroristi islamici (il caso della Siria e della Libia sono emblematici). I vecchi nemici diventano finanziatori: Manafort prende i soldi dal presidente ucraino filorusso Yanukovic, Putin entra in relazione con Trump, i capitali circolano che è un piacere nei paradisi fiscali, plateale dimostrazione di come, al di là della finzione del nemico, le nazioni e gli schieramenti non contano più niente. 
Nel caos del turbocapitalismo finanziario, emergono, spudorate, le destre identitarie, che per beffa finale si definiscono “sovraniste”, e si presentano come anti-sistema. Considerate, per quanto meschina, la storia di un altro lobbista amico di Trump: Guido George Lombardi.
Lombardi si trasferisce negli USA spaventato dal ’68 italiano: teme una svolta comunista in Italia, vuole rifugiarsi nel paese simbolo del capitalismo moderno. E’ un immobiliarista come Manafort, e come Manafort compra un lussuoso appartamento nella Trump Tower. Sono per decenni i “vicini di casa” di Trump, e capiscono prima di tanti altri che la rabbia velenosa, piena di razzismo strisciante, diffusa sistematicamente dai “Tea Party”,  può attecchire, e ha trovato il suo vero campione: un miliardario diventato un’icona mediatica, pur non possedendo televisioni.
Trump è stato infatti molto colpito dall’avventura di Berlusconi, di cui Lombardi è un fervente sostenitore, anche se i suoi buoni uffici li spende soprattutto per la Lega Nord, che ha bisogno di un’immagine più governativa, negli anni Zero.
I suoi siti (Lombardi aprire decine di gruppi Facebook a sostegno dell’elezione di Trump) sono imbarazzanti: la sua fede nel capitalismo, il suo anticomunismo viscerale, in perfetta sintonia con l’ala radicale dei repubblicani americani, si tinge di richiami cristiani di tipo settario. Il nuovo nemico è l’Islam, bisogna combatterlo a tutti i costi.  L’estrema destra, sostiene Lombardi, deve scegliere senza ambiguità: Israele va sostenuto in tutto e per tutto, e bisogna appoggiare chiunque abbia un avversione per i musulmani, in nome dell’Occidente cristiano. Lombardi porta Marine Lepen, già legata a Putin (o meglio: ai suoi soldi), in visita alla Trump Tower; e perora senza mezzi termini la causa dei vari Orban, Kaczynski, Wilders. In Italia, dove la farsa è di casa, Lombardi viene presentato nella consueta aura di mondanità, semplicemente come “amico di Trump”, forse un po’ millantatore, perfino simpatico. Il suo convinto appoggio all’estrema destra, le sue “idee” deliranti da WASP (“white anglosaxon protestant”) rifatto,  non vengono nemmeno citate. Il giornalismo italiano è malato di gossip e di cinismo, manca solo il set della “Grande Bellezza”,perfetto per illustrarne la decadenza profonda, strutturale. Da qualche tempo i media fanno finta di interrogarsi sull’onda delle destre “populiste”, ignorando che sono emanazione dello stesso identico establishment, della stessa oligarchia che continuano a servire, perché sono permeati dagli stessi “valori” : soldi e successo. Quando lo capiranno anche gli elettori, se lo capiranno, sarà stato sempre troppo tardi.

                                                                                                

Cesare Sangalli