Femminile Plurale

 

What do we stand for anymore? (In che cosa crediamo ancora?)


E’ una tiepida sera di primavera nel Golfo Persico e il tempo scorre indifferente nellaricchissima capitale di una petro-monarchia islamica. Senza ormai rendercene più conto, assecondiamo con acquiescenzail ritmo placido di una vita pasciuta esicura, eterodiretta da inavvicinabili autocrati illuminati.
Siamo in macchina, in perfetto orario per una cena importante, tragiornalisti, ambasciatori di grandi Paesi, signore dei salotti, consulenti dagli stipendi d’oro, qualche ministro. Il rosso al semaforo dura più a lungo del solito, il sole sospeso sull’orizzontedavanti a noi accompagna una chiusura di giornata armoniosa e calda, difficile non sentire dentrola sensazione rassicurante di questa routinecomoda, confortevole, senza apparenti contrasti, senza conflitti, senza imprevisti.Unacquario ben congegnato, ha osservato un amico di passaggio.
Finché non incontri il disagio. Questa seraarrivadai finestrini di un vecchio autobus Ashok Leyland senza aria condizionata, fermo alla nostra destra. Si insinua nel SUV dai sedili di pelle, nel bel mezzo di un traffico di auto di lusso e squarcia il velo della nostra fragile, privilegiata contentezza.Non è una sensazione nuova: altri esseri umani, senza alcuna colpa che quella del caso, stanno pagando un prezzo inimmaginabile per il nostro benessere e ce lo facciamo andare bene, ci diciamo che i 500-600 dollari al mese che guadagnano in settimane di turni massacranti con un solo giorno di riposo, vacanze ogni due anni, dormitori-lager e dieta di riso e daal(lenticchie indiane), fanno una gran differenza per le loro famiglie a casa. Anche se un numero crescente di loro si suicida.
E comunque questa sera quella rassicurazione non basta a placare il malessere. Forseperchéil disagio ha occhi stanchi e visi senza sorriso, pelli bruciate dal sole, corpi minuti rivestiti di stracci sudati, quelli degli emaciati figli di un dio minore che a malapena raggiungono con la statura i finestrini dell’autobus. Dai vetri sporchi emana lacuriosità triste di cingalesi, bengalesi, pakistani, per un mondo che scorre accanto, ma non si ferma mai a farli salire. Pochi minuti, dal rosso al verde del semaforo, e in auto viaggia una profonda inquietudine.  
Quegli sguardi e noi, figli e nipoti di gente che ha combattuto contro le dittature del Novecento; noi europei che a casa predichiamo la politica delle porte aperte e difendiamo i diritti sul lavoro, la libertà di stampa e di opinione, ma all’uopo ci trasformiamo felicemente in mercenari di lusso, chiudiamo gli occhi di fronte alle emittenti cacciate via e ai giornali chiusi etolleriamo che si insegni a scuola una geografia mutilata di paesi “nemici”, una storia riscritta dalla censura, stregati dai vantaggi di una residenza esentasse, dalle strade sicure di un regime senza libertà, da una società a caste dichiaratamente discriminatoria. Noi, con cameriere ed autisti pagati un quarto di quello che costerebbero a casa. Noi, in ville arredate spesso con quadri importanti e tappeti persiani di pregio, che ci intratteniamo con ottimi vini e costose diete alla moda, noi con le nostre librerie piene di testi che abbiamo studiato, ci hanno forse ispirati e nei quali, senza rendercene conto, abbiamo smesso di credere. E’ vero, ce lo diciamo, la nostra presenza è anche scambio, confronto discreto, un modo di promuovere gentilmente un diverso modello di vita sociale, spingere gradualmente per cambiamenti importanti: ma quanto di quello che facciamo è compromesso e quanto è invece svendita in nome di un sempre più generalizzato “tengo famiglia”?
Questa sera l’inquietudine persiste e a casa della nostra ospite pervade il chiacchiericcio elegante, gli scambi cortesi, il piacere sincero di vedere alcuni amici ugualmente a disagio, anche se rassegnati al mantra che senti ovunque: “tanto che possiamo fare?”. Tra loro un critico cinematografico americano e la moglie artista trasferitisi da New York: intellettuale finissimo lui, animalista lei, colti e progressisti, discutono con una comune conoscente l’opportunità di trattare le domestiche con un certo rigore per evitare che approfittino della “nostra generosità”.  Poco più in là un chirurgo italiano fieramente di sinistra annuncia il prossimo trasferimento di moglie e figli in un altro Paese asiatico per far fronte all’aumento del costo della vita e all’introduzione per la prima volta in un Paese del Golfo di tasse e tariffe su beni e servizi.Una neozelandese di mezza età accosta l’ambasciatore inglese e si complimenta per il gusto di Theresa May in fatto di calzature e pantaloni di pelle. Una ricca signora araba che si diletta a decorare le case di amici difende il diritto di acquisire reperti archeologici siriani di dubbia provenienza: “meglio nelle nostre case che distrutti dall’Isis”, e nessuno degli astanti si preoccupa di farle notare l’incongruenza di chi, per salvare un reperto rubato, finanzia i regimi criminali che lo hanno contrabbandato. Ma tant’è, non è questo il luogo per soffermarsi su certe sfumature che rischiano di farti perdere il visto.
E’ a metà della cena che l’inquietudine però esce dall’angolo e rompe il silenzio di un raduno quasi surreale. L’ambasciatore inglese, a pochi giorni dal voto sulla Brexit, si dilunga in un intervento critico dell’Unione Europea a guida tedesca e dopo averne elencati fallimenti politici, economici ed ideali, difende con ardore la scelta del  suo governo di fare affari con regimi illiberali (Turchia e Arabia Sauditaper primi) in nome del benessere del Paese e dei suoi cittadini. E’ un uomo eloquente, colto, elegante, in grado di passare con disinvoltura dall’inglese, all’arabo, al francese e al latino, ma si blocca di fronte alla domanda che gli porge una delle ospiti, rompendo la consuetudine locale di non parlare mai in società di cose di sostanza: “But if that is the case, sir, what do we stand for anymore?”. In che cosa crediamo, noi cittadini del “primo mondo”? Noi figli delle moderne democrazie, noi esponenti delle società aperte?  Se lasciamo indignati l’Europa dei banchieri e ci gettiamo disperati tra le braccia di autocrati corrotti e guerrafondai? Se possiamo vivere e godere serenamente dei privilegi che ci vengono dallo sfruttamento, se in nome di un investimento o di un contratto siamo pronti a rinunciare alla difesa di qualsiasi diritto, se un’imponente iniezione di liquidità ai nostri musei più famosi ci rende ciechi di fronte alle condizioni di semi-schiavitù che hanno consentito la costruzione dei loro avamposti nel Golfo, di che valori parliamoquando parliamo di valori? E’ dal silenzio glaciale e fin troppo eloquente caduto su quella tavola di lino e cristalli, dal vuoto di risposte, dalla ripresa imbarazzata di una conversazione superficiale di occasione che forse dovremmo ricominciare.Dovremmo tenercela stretta, quella inquietudine, ascoltare la flebile voce delle nostre anime disorientate e ricominciare dalla nostra asfissia morale, per ricostruire una qualche identitàe capire le ragioni della crisi profonda che rischia di travolgerci.


Asia Mc Curry