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Ma cos’è questa crisi
(abbasso il “fasciocapitalismo”)


Diciamocelo subito, così ci “leviamo il pensiero”, in tutti i sensi: il 2017 è stato un anno di merda.Intendiamoci. Se si scorre all’indietro l’archivio di questa rubrica, e si risale di dieci anni (!), troviamo il titolo di apertura per l’anno che stava iniziando: “2008, a tuffo nel tunnel”.  Il tunnel era in quel momento la probabile nuova vittoria di Berlusconi, che poi, nell’ultimo tratto di governo (2008-2011) arrivò a livelli surreali di abiezione morale (possiamo indicare la squallida storia di “Ruby rubacuori”, fatta passare dal Parlamento della Repubblica come nipote di Mubarak , come il punto più basso mai raggiunto nel dopoguerra). E’ quello che gli americani stanno sperimentando oggi con Trump. Noi il peggio lo abbiamo già visto, anche se, a quanto pare, un terzo abbondante di italiani non ne ha ancora avuto abbastanza. E già questo di per sé è un elemento pesantissimo, indigeribile.
Ma non è quello più importante, per definire in modo così drastico questo 2017, anno del centenario della Rivoluzione d’Ottobre,  utile promemoria per rendersi conto quant’è triste, oggi, la vittoria del capitalismo.
Il sentimento negativo che trapela da ogni dove (anche dall’ultimo rapporto Censis)è, paradossalmente, l’unico elemento buono di questi tempi:  non c’è rimasto quasi più nessuno, a parte Giuliano Ferrara e la banda del “Foglio”, a cantare le meraviglie della globalizzazione neoliberista.
Da questo punto di vista, Berlusconi ha la faccia perfetta per rappresentare quella lunghissima stagione favorevole alla destra iniziata negli anni Ottanta, quando la “sfiga”, per usare un termine e un concetto nato in quegli anni, era tutta addosso alla sinistra che si ostinava a definirsi “comunista” nell’epoca dei paninari e di “Drive In”, nell’epoca dell’”edonismo reaganiano”, definizione azzeccatissima di Roberto D’Agostino, che faceva il sociologo pop in tv , da Arbore.
Una specie di positività leggera e godereccia, che era anche una (giusta) reazione ai violenti anni Settanta, gli anni sicuramente più conflittuali di tutta la storia repubblicana. Quello del primo berlusconismo, esclusivamente mediatico (e per questo, a torto, ritenuto innocuo), era un ottimismo fatuo, ma diffuso, in qualche modo genuino (erano effettivamente anni di crescita, quasi un secondo, piccolo “boom”).
Molti di noi ventenni di allora ci hanno creduto, ma non con una fede cieca;  in una battuta, si può dire che ci hanno salvato (in parte) le canne e gli U2. Non è un caso che, come abbiamo già scritto, non c’è praticamente un politico italiano di successo nato negli anni Sessanta. E questo vale in gran parte anche per i paesi europei, e un po’ in tutto il mondo. Abbiamo saltato un giro, per limiti nostri, ma anche per trasformazioni davvero troppo grandi per noi, e quindi per mancanza totale di modelli, di punti di riferimento.
Quelli venuti dopo, nati dai Settanta in poi, hanno preso il meglio e il peggio della rivoluzione tecnologica, che noi cinquantenni di oggi abbiamo più subito che cavalcato, di nuovo presi in mezzo da un altro grande  cambiamento: “analogici” negli anni della formazione, “digitali” per forza negli anni del lavoro, oggi non ancora o non del tutto rincoglioniti dai “social”. Gli altri, i nostri fratelli più giovani, erano decisamente più “smart”,  almeno  nella fascia “top” (usiamo parole feticcio del neoliberismo), e quindi sono emersi alla grande in politica (Renzi, Salvini, Meloni; ma anche Speranza, Fratoianni e Civati, il trio di “Liberi e uguali”). Ma alla base, cioè per la stragrande maggioranza, hanno davvero inaugurato la serie dei giovani perdenti, che in Italia è una verità plateale.
Sull’ultima generazione, i “millennials”, i nostri figli,  per oraè meglio non pronunciarsi, talmente è incerta l’idea di futuro, per loro, per noi, per tutti.
Quindi Berlusconi, con il suo volto, il suo corpo,  è l’immagine perfetta del vecchio ottimismo capitalista che ci prova di nuovo, che ci prova sempre: è tutto finto, finto in maniera grottesca. Ma la sua generazione ci ha lasciato anche il più grande interprete della post-modernità, Zygmunt Bauman; e l’alfiere della speranza e del rinnovamento, non a caso indicato da Bauman, nel suo ultimo lavoro, come unica figura all’altezza dei tempi: papa Francesco. Un papa di nicchia, nonostante il grande successo mediatico e la grande simpatiache riscuote;  sui contenuti, è seguito forse più dai laici che dai cattolici.
Anche la migliore immagine politica di futuro vista quest’anno è assolutamente di nicchia: i giovani radicali e i giovani cattolici che, fianco a fianco, raccolgono le firme per la campagna “Ero straniero” a favore dei migranti, per abolire la Bossi –Fini che è la prima causa del malessere migratorio nel nostro paese.
Proprio per questo il 2017 è stato un anno di merda: perché non si era mai visto, nel dopoguerra, così tanta meschinità, così tanto razzismo, così tanto fascismo, così tanta cattiveria esibita, sbandierata, priva di complessi e di (falsi) pudori, senza minimamente aver sviluppato una vera critica del sistema economico: è il “fasciocapitalismo”. Vale per l’Italia, ma vale tanto più per l’Europa, per non parlare degli Stati Uniti.
Fra i “presentabili” difensori dello status quo neoliberista, e gli impresentabili “contestatori” xenofobi, nazionalisti, maschilisti, sembra mancare la terza opzione, quella progressista sui diritti civili e anticapitalista in economia. O meglio: la terza opzione esiste, ma è ancora nettamente minoritaria, un po’ dappertutto.
Ci si potrebbe consolare dicendoci che forse questa è solo la prima fase di un cambiamento molto difficile, che richiede processi lunghi:  si tratta di rimettere in discussione un sistema che ha governato il mondo in lungo e in largo soprattutto negli ultimi tre decenni, un sistema che abbiamo largamente interiorizzato nel corso della nostra esistenza.
E’ altrettanto evidente  che il “sistema” non si lascia mettere in discussione senza combattere con tutte le sue forze, che sono ancora tante e subdole. Però è anche vero che tutti i segnali ci parlano di una situazione insostenibile, di un mondo che non può essere ancora più diseguale, inquinato e violento di com’è adesso, altrimenti davvero ci prepariamo ad un futuro da incubo.
Forse però in questa maledetta crisi che induce al pessimismo, Europa e Italia hanno una chance, e noi ce la giochiamo fra pochi mesi. Sarà magari come dice lo scrittore Nicola Lagioia che da noi “quando il nuovo arriva, è come se inciampassimo, e, cadendo in avanti, vedessimo il futuro prima degli altri”, proprio perché “non siamo preparati ai cambiamenti”. Il nostro inciampo si chiama Movimento Cinque Stelle. La vittoria del M5S nel 2018 sarebbe, in fin dei conti, la prima vera vittoria del famoso 99 per cento della popolazione, e la prima vera sconfitta dell’uno per cento che domina il mondo, in un grande paese OCSE, proprio nel cinquantesimo anniversario del mitico ’68. 
In fin dei conti, eravamo impreparati anche alla Costituzione entrata in vigore il primo gennaio del 1948: l’Italia pensata dai padri costituenti  era allora un paese  immaginario, proiettato nel futuro. Settanta anni dopo è la Costituzione è ancora una bussola validissima per uscire dalla notte del fasciocapitalismo imperante.
L’anno scorso la mobilitazione del M5S, insieme alla sinistra e con il contributo degli intellettuali più brillanti (da Camilleri a Moni Ovadia, da Zagrebelsky a Montanari), ha clamorosamente stoppato lo stravolgimento in senso “manageriale”  della nostra democrazia. Uno stravolgimento fortemente voluto da tutti i poteri forti, da tutti i media “mainstream”, che pronosticavano disastri epocali in caso di vittoria del NO, e già esaltavano le solite “magnifiche sorti e progressive” che avrebbe portato il SI, condito dalla legge elettorale incostituzionale già bell’e pronta per il trionfo di Renzi. Nonostante lo spudorato “endorsement” di Obama, dell’ambasciatore americano, delle agenzie di rating e chi più ne ha più ne metta (altro che interferenze delle Russia), la Costituzione antifascista, democratica e solidale, quella odiata dalla banca JP Morgan, ha retto, difesa dal popolo sovrano.
Forse, nonostante tutte le miserie e i casini italiani, i dilettantismi e le contraddizioni del M5S , i clamorosi ritardi della sinistra, nonostante i mille errori commessi da tutti noi (ma l’Italia, come Sally nella canzone, “è già stata punita”) , ce la possiamo fare. “Forse, ma forse, ma sì”.

                                                                                              

Cesare Sangalli