Il Fatto del mese

 

The Wall (il mondo del “Gulag for profit”)


Il mostro si chiama G4S, Group 4 Security. E’ semplicemente la più grande impresa di sicurezza privata del mondo, almeno come giro d’affari (si vadalla costruzione e gestione di penitenziari negli USA alla sorveglianza sui grandi eventi e molto altro); e con i suoi 570mila dipendenti, sparsi in 90 paesi, è il terzo datore di lavoro mondiale (!), il primo in Europa e in Africa (!). Eppure non lo conosce nessuno, non ne parla nessuno. Forse perché i risvolti sono ancora più inquietanti. Si tratta di entrare infatti nel pianeta proibito, quello che normalmente sta al di là di un muro: il muro di un carcere, il muro di un confine, il  muro di silenzio, di complicità, di omertà. The Wall. E’ il muro che divide la versione ufficiale del mondo da quello che c’è dietro. Ci voleva forse una persona che ha fatto l’esperienza del carcere, e dell’emarginazione, per cogliere il significato reale di quella che a prima vista potrebbe sembrare solo una critica del sistema giudiziario/carcerario  degli Stati Uniti, ma è molto, molto di più. Questa persona è Angela Davis.
Afroamericana, classe 1944, infanzia in Alabama, in mezzo alle violenze razziste, Angela Davis, dopo essersi formata in Europa, alla scuola dei grandi pensatori dell’epoca, come Adorno e Marcuse, si iscrive al Partito Comunista, e, da docente in filosofia, partecipa al movimento delle “Black Panthers”, l’organizzazione radicale per il riscatto della minoranza nera, che agli inizi degli anni Settanta adotta fra i suoi mezzi la lotta armata. Angela viene ingiustamente accusata di complicità in un omicidio, e rimane in carcere per un anno e mezzo, suscitando la solidarietà di movimenti giovanili, artisti come John Lennon e intellettuali di tutto il mondo. Riconosciuta innocente e scarcerata, Angela Davis continua la sua attività politica, approfondendo la sua appartenenza al femminismo, e attraversando tutti i cambiamenti storici degli USA e del mondo. Il suo approccio attuale si definisce  (femminismo)  “intersezionale”, perché lega le lotte di classe con quelle di razza, di genere, di orientamento sessuale, e di tutte le categorie oppresse e discriminate, in un approccio assolutamente transnazionale.
E’ in questa visione che l’universo carcerario e securitario non è un mondo a parte, distinto, parallelo a quello “normale”; ma è un pilastro del sistema liberista/razzista, un sistema che è ancora lungi dall’essere rivelato, smascherato, conosciuto e quindi ripudiato. Davis in particolare ha dedicato a questo tema un libro, “Freedom is a costant struggle”, in cui analizza una catena di fatti che portano dalle violenze e dagli omicidi della polizia subiti dagli afroamericani fino a quelli della polizia di frontiera israeliana ai danni dei palestinesi, passando per le angherie sugli  immigrati “latinos” al confine col Messico e per il sospetto sistematico sugli islamici..
La grande corporation privata della sicurezza, quotata a Wall Street, lega tutte queste situazioni, apparentemente distinte; non solo perché accumula appalti nel mondo (dalla costruzione dei muri e dei sistemi di allarme, al confine col Rio Bravo come a quello con la striscia di Gaza, fino  all’addestramento di poliziotti e guardie di frontiera, e alla gestione dei centri per migranti); ma perché è determinante nel processo di espulsione dal sistema liberista, un’espulsione che prevede la criminalizzazione e la de-umanizzazione dei soggetti colpiti: le persone sono classificate come “socialmente pericolose”, come “clandestine”, come “terroriste”. Vale per i poveri, per i neri, che sono i più poveri dei poveri, vale per tutti gli immigrati, rinchiusi nei vari Centri di identificazione o in prigione, vale per gli islamici in genere, e in particolare per i palestinesi. Ma vale anche per tutte le minoranze indigene, confinate nelle riserve, espropriate della terra, presentate appena si può come “pericolose”. Su queste persone, sugli scarti della globalizzazione capitalista, si riesce a speculare anche quando sono prigioniere. A monte, la solita sostituzione della funzione pubblica, che viene delegata, appaltata e subappaltata, oppure completamente privatizzata: più business e meno controlli, in una sottrazione militarizzata dello spazio pubblico.
Il “complesso industriale-penitenziario”, come lo definisce Davis, ha solide basi negli USA, ed è stato favorito e ampliato in primis da Bill Clinton: dal 1990, i detenuti nelle prigioni gestite da privati sono passate da poco meno di 700mila a oltre un milione e 200mila, su un totale di due milioni e 300mila, a cui bisogna aggiungere circa 5 milioni di persone in libertà vigilata (senza dimenticare, per gli equilibri politici, 5 milioni di cittadini privati del diritto di voto) . Significa che una persona su 32 ha una limitazione di libertà, una su 40 sta in carcere. E’ la più alta percentuale al mondo,  sei volte (!) la media dei paesi OCSE, tre volte la popolazione carceraria di tutti questi paesi messi insieme (!) Gli Stati che più si avvicinano (ma parliamo di meno della metà rispetto alla percentuale USA) sono Taiwan e, appunto, Israele. Alla base  del triste primato statunitense, c’è un sistema giudiziario che “non fa i processi, non fa gli appelli, non motiva le sentenze”(il 95 per cento dei casi giudiziari si conclude subito, con un patteggiamento): lo spiega bene Claudio Giusti, giurista di fama internazionale, che definisce l’ordinamento penale USA  “American Gulag” (Gulag è il termine russo, nato da una sigla, che indicava i campi di concentramento nell’URSS): la giustizia che vediamo nei film di Hollywood è sostanzialmente un’ invenzione cinematografica.  L’”American Gulag” , che nell’interpretazione di Angela Davis ha “traslato” lo schiavismo nel sistema carcerario (come dimostrato nel documentario “13th” di Ava du Vernay, la regista di “Selma”, sul tredicesimo emendamento, che non estende l’abolizione della schiavitù a chi è in carcere) è diventato sempre di più “Gulag for profit”. Ci sono sei grandi banche americane, precisamente Bank of America, JP Morgan Chase, BNP Paribas, Sun Trust, US Bancorps e Wells Fargo, che finanziano costantemente i principali gruppi privati del sistema carcerario e di controllo dei migranti, e fanno lauti guadagni sulle spese dello Stato, cioè sui soldi dei contribuenti: sono circa 80 miliardi di dollari all’anno che escono dal budget federale, per finire nelle tasche di società come GEO e CoreCivic: secondo “Repubblica” le due imprese hanno ricevuto 25 mila dollari per ogni singolo detenuto all’anno, circa 66 dollari al giorno. Ma non basta: per fare profitti e ripagare i debiti degli onerosi prestiti bancari, le società risparmiano in modo drammatico sui costi e molto spesso speculano sul lavoro semi-gratuito (soprattutto come imprese di pulizie) dei detenuti.
La CoreCivic e la GEO, le cui prigioni sono state definite da un’attivista dei diritti umani “un pozzo nero di condizioni incostituzionali e disumane”, rischiavano in realtà di fallire dopo lo stop di Obama alla gestione privata delle carceri federali (2016); ma con Trump, che ha annullato la decisione di Obama, i bilanci sono tornati a fiorire. Inutile dire che le due società avevano finanziato la campagna elettorale di “The Donald”; e che entrambe fanno parte della potentissima lobby giuridico-politica chiamata ALEC (American Legislative Exchange Council), esplicitamente conservatrice,  che da decenni agisce sui politici, quasi sempre repubblicani, per indirizzarli verso scelte di destra.
Se ai tempi di Reagan si erano distinti, fra le altre cose, per una campagna finalizzata a togliere le sanzioni al Sudafrica razzista , e per una crociata contro i gay, ultimamente i lobbysti si sono fatti paladini delle più violente norme di legittima difesa (le leggi cosiddette “stay on your ground”: in pratica, per chi sta a casa, o in altro ambiente pertinente, compreso il proprio quartiere, basta la percezione di una seria minaccia per sparare). Ma dopo l’uccisione di Trayvon Martin (2012), l’adolescente afroamericano colpito in pieno petto, dopo un alterco, da un volontario della sicurezza di quartiere (impunito grazie alla legge succitata), e dopo le vibranti proteste degli afroamericani e delle associazioni per i diritti umani, supportati da Obama (“Trayvon potevo essere io alla sua età, e oggi mio figlio”), molte multinazionali hanno smesso di finanziare ALEC (da Coca Cola a Apple, da McDonald a Google, da Kraft a Amazon, da Procter & Gamble alla fondazione Bill e Melinda Gates: il che significa però che prima li finanziavano eccome: fasciocapitalismo allo stato puro, ancora una volta). L’altra parziale buona notizia è la cessazione delle attività del mostro Group4Security in Israele, grazie all’incessante attività del gruppo BDS (“Boicotta, Disinvesti, Sanziona”), anche se i dirigenti negano che sia per quel motivo (appunto).
L’attenzione sul “nauseante” mondo della carcerazione e sicurezza privata (aggettivo dell’esponente dell’associazione che si batte per i diritti dei carcerati) è stata sollevata dalla politica sull’immigrazione di Trump, e dal caso delle infami separazioni dei minori dalle famiglie dei migranti latinoamericani incarcerate (perfino Melania e Ivanka Trump hanno preso le distanze da questa pratica disumana) che hanno suscitato (finalmente) uno scandalo mondiale e condotto alle prime riparazioni . Altrimenti, “business as usual”, perché con Obama accadevano le stesse identiche cose, ma un po’ meno.
Proprio come in Italia, ora che c’è Salvini ministro dell’Interno (o “ministro della Paura”, com’è stato definito), rispetto alle politiche sull’immigrazione di tutti i governi, e al business inverecondo dei vari Centri di accoglienza e “hot spot”, gestiti spesso direttamente dalla mafie (e più che a “Mafia Capitale”, ai Buzzi e ai Carminati,  pensiamo alla famiglia Arena, affiliata alla n’drangheta, e alla gestione del centro di Isola Capo Rizzuto in Calabria, con la benedizione dell’allora ministro Alfano).
Il problema di fondo, infatti, cioè la passività rispetto a questa situazione mondiale aberrante, sta in una mentalità alienata che si sta diffondendo a macchia d’olio . L’ha colta, meglio di chiunque altro commentatore, Laura Marchetti, sul “manifesto”, definendola “Claustrofilia, ossessione dell’autoctono”.
“La claustrofilia – scrive la sociologa femminista – è la sindrome della personalità autoritaria, quella che vuole riempire la terra di muri, prigioni, fortezze, confini”. La claustrofilia può far crescere “ un’identità omicida, tanto aggressiva quanto quella dell’animale che sente minacciato il suo territorio e lo circonda come una tana. L’ossessione di questo autoctono che, con unghie e con artigli, vuole difendere il suo piccolo suolo e la purezza del suo sangue, sembra giunta ormai al delirio”.

Ma la claustrofilia è anche quella di chi si chiude nelle quattro mura di casa, dietro lo schermo di un computer (e, aggiungiamo noi, anche all’aperto ma persi dietro uno smartphone), distanziandosi da tutto, diventando mero spettatore, e sperimentando “il deserto della realtà” (Baudrillard) “dove tutta la vita diventa un simulacro e una simulazione”. Marchetti contrappone alla claustrofilia l’agorafilia,“l’amore per la piazza dove i giovani si toccano e si scambiano sguardi senza la mediazione del telefonino, la piazza dove i bambini giocano e i vecchi e le vecchie raccontano e dove Socrate insegna senza le slides”. Una società dell’incontro, e dello scambio, non ottenebrata dalla paura dell’altro, dove c’è spazio per tutti, nessuno escluso, e si riassapora il gusto dolcissimo della libertà. Perché “libertà è partecipazione”, non dimentichiamolo mai.

Cesare Sangalli