Il Fatto del mese
WagnerS.p.a., l’anonima assassini di Putin
Li chiamano “contractors”, con il consueto anglicismo ipocrita, la lingua del turbocapitalismo. Alcuni opportunamente traducono con “mercenari”, che dovrebbe sostituire anche un altro termine abbastanza ipocrita, “foreign fighters” (combattenti stranieri, per scelta, forse, ma sempre a pagamento). Sono la versione moderna dei soldati, e sono ormai pressoché indistinguibili dai militari con le mostrine e le stellette, dagli addetti alla sicurezza, dai consiglieri militari, dagli agenti segreti. E il loro mondo è ormai indistinguibile dal mondo del business, e da quellocriminale, sempre più uniti, con i loro protettori politici, nella persecuzione dei (pochi) giornalisti indipendenti, come vedremo in questa storia. Dopo aver descritto la mostruosa multinazionale americana della sicurezza privata, la “Group for Security”, (vedi articolo precedente), è il turno del gruppo “Wagner”, agenzia russa di mercenari.
Uno dei capi della “Wagner”è Dimitri Utkin. Classe 1970, cresciuto quindi in pieno regime sovietico, si avvia molto presto alla carriera militare, nei corpi speciali (spetznatz) dei servizi segreti, fino al grado di colonnello. Gli spetznaz sono il braccio violento dello spionaggio, il settore da cui proviene Putin, tutti cresciuti nella ferrea disciplina comunista.
Nella nuova Russia votata al capitalismo di rapina (con il plauso e la complicità del mitico “Occidente”), Utkin, come moltissimi colleghi, si “privatizza”. La sua strada si incrocia con quella di Yevgeny Prigozhin, un avanzo di galera (furto, truffa, prostituzione di minorenni), che passa dallo “street food” alla gestione di uno dei migliori ristoranti di San Pietroburgo, la “Nuova Isola”, un locale di lusso su una struttura galleggiante, che diventa presto il locale della “nomenklatura” (Putin compreso), e viene usato perfino per i ricevimenti ufficiali. Il nuovo zar ci porta a cena il presidente francese Chirac e quello americano, Bush. A forza di commesse di Stato, dalle mense per i funzionari a quelle dell’esercito, Prigozhin diventa miliardario, ed entra nel “cerchio magico” del presidente russo. Lo chiamano lo “chef di Putin”, e uno foto lo ritrae mentre serve il boss del Cremlino. Fra una portata e l’altra, in perfetto stile mafioso, Prigozhin diversifica gli affari, e crea con altri soci la misteriosa compagnia militare privata “Wagner”. Il nome, a quanto pare, è tutto un programma: sarebbe lo pseudonimo del comandante Utkin, che lo ha adottato per le sue simpatie neonaziste; si dice che abbia tatuata una svastica sull’avambraccio.
Le convergenze “rosso-brune” non sono una novità per il settore: provenienza comunista, feroce maschilismo militare, vecchi miti del “sangue e suolo”, uniti all’avidità di denaro tipica del capitalismo postmoderno, che ha un’anima predatoria, intrinsecamente criminale. La guerra in Jugoslavia (1991-1995), unico conflitto sul suolo europeo dal 1945, è stata un vero laboratorio in questo senso: un caso di scuola, come si dice, che però non ha insegnato assolutamente niente a nessuno.
L’esordio della Wagner avviene infatti in uno scenario simile per molti aspetti a quello jugoslavo: quello dell’Ucraina. Le tensioni separatiste presenti nel paese vengono amplificate ad arte, cavalcate da politici senza scrupoli (in questo caso, ai vertici, i due presidenti Putin e Poroshenko, che pure in passato erano stati molto vicini), e agite sul campo dai peggiori elementi disponibili sul mercato. Gente come Prigozhin, la mente, e Utkin, il braccio. Accanto a loro, proprio come in Jugoslavia, ci sono anche un po’ di giovani in buona fede, che rispondono alla “chiamata alle armi” nazionalista, all’ennesima, assurda “guerra patriottica”, il solito pantano destinato a spalmarsi negli anni, perché le guerre post moderne non prevedono più un vincitore e un vinto, secondo la logica, durissima ma “onesta”, delle guerre vecchio stampo; ma una destabilizzazione permanente, che è appunto la prosecuzione del business con altri mezzi. Ogni focolaio sparso per il mondo è un’occasione per fare affari, un nuovo mercato da conquistare. Il mondo colleziona stati falliti o semi-falliti, autentici paradisi per gli imprenditori più spregiudicati, veri inferni per le popolazioni.Gli analisti fanno le acrobazie per cercare le motivazioni dei conflitti; i giornalisti impazziscono a ricostruire il quadro militare e quello politico: accuse speculari di crimini di guerra, alleanze reversibili, notizie esagerate o inventate di sana pianta, tentativi patetici di stabilire torti e ragioni, di dare una coloritura politica: la Jugoslavia, lo abbiamo detto, non ha insegnato niente.
In Ucraina, non a caso, troviamo mercenari di mitologie naziste su entrambi i fronti. Sappiamo di volontari europei (e italiani) arruolati con i paramilitari di “Pravy Sektor” (nel famigerato “battaglione Azov”) sul lato di Kiev; e abbiamo scoperto in Italia (giusto per fare un esempio fra i tanti) quelli che invece stanno sul fronte filo-russo, con il caso clamoroso dei mercenari neonazisti reclutati in Liguria e Toscana da Andrea Palmeri, giù capo ultrà della Lucchese. Sembra la storia del famigerato capitano Arkan, che da leader di ultradestra della curva della “Stella Rossa” di Belgrado, partecipa alla guerra con le sue “Tigri”, specializzate in crimini contro la popolazione civile, accanto alle truppe federali della ormai ex Jugoslavia, cioè ai serbi del “comunista” Milosevic. Per poi finire, dopo essersi arricchito a dismisura, ammazzato come un cane, nel tipico regolamento di conti da boss mafiosi.
Nei paesi non coinvolti direttamente, proprio come fu per la Jugoslavia, l’ estrema destra el’estrema sinistra si saldano involontariamente nel provare a sostenere uno dei due fronti (un po’ come Milosevic, che ebbe allo stesso tempo l’appoggio della Lega, come leader dell’ orgoglio etnico separatista, e di Rifondazione Comunista in quanto “ultimo dei mohicani” rossi contro l’Occidente capitalista; lui se ne fregava alla grande di entrambe le ideologie, tanto che fece ottimi affari anche con il liberale Dini e con il progressista Prodi – la storia di Telekom Serbia-); i cosiddetti “moderati” provano a fare altrettanto, in una grottesca gara a stabilire i buoni e i cattivi, magari riciclando vecchie categoria da Guerra Fredda, a partire dal classico “derby” Stati Uniti- Russia, che , in mancanza di meglio, resta sempre una rivalità spendibile, una chiave di lettura facile.
Non c’è quindi da stupirsi se la “Wagner”, subito dopo l’Ucraina, trova un altro fiorente mercato di morte in Siria. I “contractors” sono utilissimi in tutte le sporche guerre contemporanee, soprattutto perché permettono di minimizzare il numero delle vittime ufficiali (come la “Blackwater” e altre compagnie anglosassoni in Iraq e in Afghanistan: ha fatto rumore la proposta dell’ex “marine” e fondatore della compagnia Erik Prince, diventato miliardario e residente ad Abu Dhabi, di “privatizzare la guerra in Afghanistan, dal momento che già adesso ci sono 15mila soldati regolari e 30mila contractors”); e possono fare il lavoro più sporco ancora rispetto a quello dei militari ufficiali.
E’ proprio sulla morte di mercenari russi della Wagner in Siria che stava indagando il giornalista russo Maxim Borodin. Dopo un attacco americano a Deir Ezzor (uno dei tanti episodi seminascosti del conflitto siriano) , erano stati uccisi oltre cento mercenari russi, che ufficialmente non esistevano (“alcune dozzine”, secondo ammissione postuma del Cremlino), e dei quali infatti non si era saputo più niente. C’erano già stati diversi precedenti.
Borodin voleva vederci chiaro, ha cominciato l’inchiesta andando a parlare con i familiari dei soldati uccisi. A quanto pare, ogni mercenario guadagna circa 3.500 dollari al mese, oltre 5mila se è un ufficiale, a cui si aggiungono varie ricompense a seconda dell’azione svolta. In caso di morte, ai familiari arrivano circa 90mila dollari. Ma mettere il naso negli affari militari e nelle guerre non dichiarate dal Cremlino, a partire dalla Cecenia, non è mai stato consigliabile. Borodin è stato trovato “suicidato”, dopo un volo dal quarto piano; guarda caso non aveva lasciato nessun messaggio, né dato alcun segnale di squilibrio o depressione; e guarda caso aveva fatto in tempo a dire al telefono della presenza di una squadra di agenti nello stabile dove alloggiava. Borodin va ad allungare una lista lunghissima di coraggiosi reporter russi uccisi,fra cui molte donne,a partire dalla famosa Anna Politkovskaja, che comunque ha fatto scuola: due sue “allieve”, Elena Milashina e Irina Gordienka, sempre della “Novaja Gazeta” tanto odiata da Putin, nel 2017 scovarono il lager per omosessuali a Grozny, in Cecenia.
Ma anche un giornalista italiano, Antonio Russo di Radio Radicale, venne trovato ucciso in circostanze misteriose vicino a Tbilisi, guarda caso dopo che anche lui si era occupato della situazione in Cecenia, e dopo che aveva raccolto materiale sui crimini di guerra dei russi (materiale ovviamente sparito). Da ultimi, i giornalisti russi Dzhemal, Rastorguyev e Radchenko, uccisi in Centrafrica, dove stavano indagando sul ruolo dei mercenari del Gruppo Wagner e dei consiglieri militari russi nel traffico di armi e di minerali preziosi, portato avanti dalle compagnie minerarie russe dell’oro.
La lista delle vittime del fasciocapitalismo criminale si allunga mese per mese: l’ultimo è il saudita Kashoggi, del “Washington Post”, probabilmente squartato dai servizi segreti di Mohamed Bin Salman nel consolato di Istanbul. I turchi di Erdogan, che fanno gli scandalizzati, sono gli stessi che “suicidarono” la giornalista inglese Jackie Sutton, che si era occupata dei traffici di armi per i jihadisti in Siria. E giusto un anno fa veniva fatta saltare in aria Dafne Vella, sposata Caruana Galizia, che aveva rivelato i pagamenti su banche “off shore” del presidente dell’Azerbaigian Aliyev alla famiglia del premier laburista maltese Muscat. Ecco, l’approvazione definitiva del gasdotto TAP e il mancato stop della vendita di armi all’Arabia Saudita saranno l’ennesimo trionfo economico dei tre amici dei giornalisti, Putin, Erdogan, Mohamed Bin Salman, con la benedizione, ovviamente, di Donald Trump e delle agenzie di rating.Cesare Sangalli