Femminile Plurale

 

Il “femonazionalismo”: ci può essere un femminismo di destra?


In questo periodo caratterizzato dall’affermarsi di forze e partiti politici nazionalisti, la promozione dei diritti delle donne, l’eguaglianza di genere e i valori femministi vengono messi in maniera crescente in opposizione all’idea di una società multiculturale, ai valori dell’antirazzismo e dell’intercultura. Spesso una serie di pratiche culturali, quali le mutilazioni genitali femminili, i matrimoni forzati e l’uso del velo islamico,vengono prese ad esempio dell’inconciliabilità tra l’idea di società multiculturali e i valori femministi. Si sostiene poi che la presenza di uomini immigrati, in particolare quelli appartenenti a determinate etnie o religioni, aumenti la violenza contro le donne e vada in direzione contraria ai diritti delle donne e delle minoranze sessuali quali i gruppi LGBT. E’ quello che la ricercatrice Sara Farris definisce “femonazionalismo”, vale a dire il processo per cui gruppi di estrema destra si appropriano dei temi cari al femminismo per giustificare le proprie politiche anti-immigrati, soprattutto in chiave anti-islamica. Tuttavia, anche alcune femministe non sono esenti da questa retorica, che contrappone i diritti delle donne alle politiche di accoglienza e alla possibilità di creare e mantenere società interculturali.
Già in un testo classico del pensiero liberale, Susan MollerOkin poneva la domanda“Il multiculturalismo fa male alle donne?”nel quale Okin critica le politiche multiculturali sulla base dell’argomentazione che la maggior parte delle culture delle minoranze sono più patriarcali della cultura occidentale e di conseguenza le donne appartenenti a culture minoritarie non avrebbero interesse a vedere la propria cultura preservata. Questa osservazione ci impone una prima riflessione sul concetto di cultura. Su questo alcuni degli stessi autori chiamati a rispondere alle argomentazioni di Okin, ad esempio, KathiaPolitt e Marta Nussbaum enfatizzano la visione semplificata che viene data da Okin del concetto di cultura. Pollitt e Bhabha sottolineano come le culture non siano statiche, bensì in continua evoluzione e caratterizzate da conflitti interni. A questo riguardo Sheila Benhabib nel suo testo “La rivendicazione dell’identità culturale” pur non negando l’esistenza delle differenze culturali sostiene che: “[...] ogni visione delle culture come totalità chiaramente descrivibili è una visione esterna, la quale genera coerenza allo scopo di comprendere e controllare”. In altre parole, è necessario analizzare chi parla a nome di chi, qual è la posizione sociale del gruppo coinvolto nelle pratiche culturali in questione, quali sono i rapporti di forza all’interno di una detta “comunità”, come interviene il ruolo delle migrazioni rispetto alle questioni di genere e come si configura il rapporto tra popolazione maggioritaria e minoritaria. Al contrario, quando si parla di tradizioni culturali differenti e incompatibili con quelle occidentali si fa spesso riferimento ad un concetto essenzializzato di cultura.
Un’altra autrice che ci può essere di aiuto nell’affrontare il rapporto tra eguaglianza di genere e differenze culturali è la sociologa Anthias che ci invita ad evitare sia lo Scilla del relativismo culturale che il Cariddi del“femminismo fondamentalista”. Se per relativismo culturale facciamo riferimento a quegli atteggiamenti che evitano qualsiasi giudizio in merito a tradizioni culturali diverse dalla propria sulla base dell’idea della non interferenza, per “femminismo fondamentalista” intendiamo un atteggiamento etnocentrico che tende a focalizzarsi sulle violazioni subite dalle donne in contesti non occidentali senza rendersi pienamente conto delle norme sociali sessiste che persistono a casa propria. In entrambi i casi si tende a vedere la cultura in maniera essenzializzata, negando i processi di evoluzione, di scambio e di influenza reciproca che da sempre esistono tra culture. Ad esempio secondo Leila Aibi, presidente dell’associazione interculturale “Nosotras”,la proposta avanzata alcuni anni fa di una sorta di “sunna soft”, vale a dire un rito alternativo alle mutilazioni genitali femminili, basato su una puntura di spillo da praticare sul clitoride della bambina, sarebbe un esempio di relativismo culturale, in quanto: “questo atteggiamento finisce per coincidere con il razzismo di chi ci accusa con disprezzo di ‟barbarie” e di inciviltà, perché comunque nega i processi di evoluzione e di cambiamento in atto nelle nostre società, sia nei nostri paesi che tra le comunità di immigrati, nega le lotte e la resistenza, dà un quadro semplificato della realtà e ci appiattisce tutti su un’unica ‟cultura” che viene connotata precisamente attraverso i suoi aspetti peggiori.”
L’altro rischio da evitare, che abbiamo definito con Anthias “femminismo fondamentalista”, è legato al rischio dell’etnocentrismo,che a sua volta deriva dal ruolo avuto dall’occidente durante la colonizzazione, esperienza ampiamente rimossa nel nostro immaginario in particolare in Italia. Quali conseguenze ha avuto l’impresa coloniale sulle configurazioni di genere delle società che sono state colonizzate? Quali effetti ha ancora l’eredità coloniale nella costruzione delle società interculturali europee? Sono domande che non possono esaurirsi in un breve spazio, ma che dobbiamo porci per ricordarci che quando parliamo di incontro con tradizioni culturali diverse, spessotendiamo a dimenticare che questo incontro/scontro è già avvenuto nei secoli scorsi in maniera violenta sia da un punto di vista militare che economico e culturale attraverso l’impresa della colonizzazione. Scrive Sara Ahmed, una delle esponenti più importanti del femminismo postcoloniale, che “il colonialismo è strutturale nella comprensione della costituzione della modernità e della postmodernità”. Se non iniziamo ad interrogarci su questo, rischiamo di perpetuare un atteggiamento etnocentrico che non ci aiuta nell’identificare le dinamiche complesse e spesso contraddittorie che stanno alla base della costruzione delle società interculturali da un punto di vista di genere.
Vorrei fare a questo proposito un altro esempio, quello del velo islamico, che a più riprese ritorna nel discorso mediatico come simbolo dell’inconciliabilità con i valori occidentali e femministi. Se in Francia è presente una legislazioneche prevede il divieto dell’uso di simboli religiosi nei luoghi pubblici,anche in Italia, sebbene non esista una normativa sull’argomento, diversi Comuni del Nord Italia hanno emanato ordinanze contenenti un divieto di utilizzare il burqa o il niqab, successivamente abrogate per mancanza di competenza dei Comuni in materia. Scriveva Fanon, uno dei fondatori del pensiero postcoloniale, con riferimento alla conquista francese dell’Algeria: “Se vogliamo distruggere la struttura della società algerina, la sua capacità di resistenza, dobbiamo prima di tutto conquistare le donne, dobbiamo andare a trovarle dietro al velo dove si nascondono”. Molti autori e autrici postcoloniali - Said,Mernissi,Yeğenoğlu, Lewis - hanno mostrato come l’ossessione occidentale rispetto al velo islamico si sia originata durante il periodo coloniale e come la sua eredità continui a condizionare i rapporti tra Occidente e Oriente. Come ben esemplificato dalla filosofa Rossella Prezzo: un ineluttabile desiderio di “svelare” le donne musulmane è entrato a far parte del complesso ideologico dell’Occidente in quanto conquistatore–liberatore. La logica colonialista identifica il velo nell’oppressione e il disvelamento nella liberazione. Credo che essere consapevoli di questa eredità sia un dovere qualsiasi siano le eventuali decisioni legislative che gli Stati europei adotteranno sull’argomento.
Evitare di porsi in un atteggiamento etnocentrico significa poi interpretare l’incontro con diverse tradizioni culturali come un invito ad una riflessione sul nostro percorso più o meno compiuto verso l’eguaglianza di genere. Un testo per tutti che esemplifica in maniera esemplare e brillante questa idea è “L’harem e l’occidente” di Fatima Mernissi dove il velo islamico è messo a confronto con la “dittatura della taglia 42” e dove viene narrato lo stupore, quasi lo sconcerto di una donna marocchina alla scoperta delle rappresentazioni occidentali dell’harem. Se infatti gli artisti occidentali hanno dipinto le donne dell’harem in maniera statica e lasciva, nell’immaginario orientale si tratta invece di donne battagliere e in movimento. Da questo equivoco nasce l’occasione per una serie di riflessioni sui concetti di bellezza, intelligenza e libertà delle donne attraverso i paesi e le culture.
Mi piace concludere questo breve articolo su differenze culturali e diritti delle donne con il monito diHonig: “Per il bene di una futura solidarietà delle donne in quanto femministe, la questione di cosa costituisca la (dis)eguaglianza di genere deve essere tenuta aperta in maniera disturbante a un interrogatorio perpetuo”.
 Erika Bernacchi