Il Fatto del mese
ENI più Marie Madeleine è peggio di ENI
Il titolo è un chiaro riferimento all’ossessiva campagna pubblicitaria di ENI, che compare dovunque, anche su giornali alternativi come “il manifesto”.
E’ una classica operazione di “green washing”, il tentativo di darsi un’immagine “ambientalmente corretta”. Mentre laMarie Madeleine(Ingoba)del titolo è semplicemente la moglie congolese di Claudio Descalzi, amministratore delegato del più importante gruppo italiano, un manager che ha una storia tutta africana legata al petrolio (e alle tangenti), come d’altra parte la bella Madeleine.
Ma prima di addentrarci nei clamorosi giri di affari della nostra “coppia più bella del mondo”, è bene ribadire la mostruosa influenza mediatica dell’Ente Nazionale Idrocarburi, il mitico “cane a sei zampe” fondato da Enrico Mattei.
In questa rubrica ci siamo già occupati due volte della multinazionale italiana del petrolio (vedi “Un pozzo di corruzione: la Nigeria espropria l’ENI”, 2016; e “Tangentopoli alla nigeriana”, 2014). Dal momento che repetita iuvant , diciamo di nuovo che sono stati a libro paga di ENI, tramite le sue riviste, Lucia Annunziata, Federico Rampini, il fu Mario Pirani, e Giuseppe Turani, solo per citare l’area “Repubblica-Espresso”; poi Ferruccio De Bortoli, Sergio Romano, Mario Sechi, Carlo Rossella, con coinvolgimento del “Foglio” di Giuliano Ferrara come distributore del “news magazine” aziendale; poi Marta Dassù e Moises Naim, rinomati politologi, oltre a giornalisti del Sole24ore e del TG1; e su tutti, non si può non citare il fu Joaquìn Navarro Valls, uomo dell’Opus Dei, prestigiosissimo portavoce di Giovanni Paolo II (e di Ratzinger, finché lo spagnolo non si pensionò).
Ma questi, in fin dei conti, sono dettagli. L’ENI è così potente che, insieme a Leonardo-Finmeccanica, è la vera scatola nera che sta dietro alla politica estera del paese. In questo siamo straordinariamente simili agli Stati Uniti dell’apparato industriale militare e petrolifero. Ed è anche e soprattutto per questo che l’Italia è considerata “la Bulgaria della NATO”: essere i docili alleati di Washington paga, eccome. Gli analisti e gli opinionisti che si occupano di esteri continuano a ripetere la giaculatoria dell’Italia che non conta niente, e non sa “difendere gli interessi nazionali”: tutte balle, una specie di gigantesco “chiagne e fotti” narrato dalla pletora di cantori dell’establishment. Che l’Italia conti poco è evidente, come tutti quelli che scelgono posizioni defilate e servili (dalla parte del più forte, sempre). Ma che non sappia difendere i sacri “interessi nazionali” è una clamorosa bugia, smentita dai fatti (che interessano molto poco al giornalismo italiano). Perfino in Libia, dove tutti, anche i commentatori di sinistra (che tristezza), sembrano capaci soltanto di rimpiangere i bei tempi di Gheddafi (ché gli schiavi neri li teneva ben nascosti a casa sua), l’ENI non ha mai dovuto rinunciare al suo (nostro?) petrolio. Ma il caso più clamoroso è l’Iraq.
Quando Trump ha fatto assassinare il generale iraniano Suleimani a Bagdad, e sui social si parlava di Terza Guerra Mondiale, gli italiani hanno scoperto, en passant, che il 30 per cento del petrolio importato in Italia viene proprio dall’Iraq. I più informati sanno magari che, in seguito alla guerra di Bush del 2003, dal 2009per la precisione, l’Eni gestisce uno dei più grandi giacimenti mondiali, quello di Zubeyr, in “joint venture” con Korea Gas e con l’americana Occidental Petroleum (di cui fino all’inizio del secolo era azionista l’ambientalista democratico Al Gore!), oltre ai giacimenti vicino a Nassiriya, che spiegano la presenza militare italiana nella zona (e quindi “giustificano” i soldati caduti).
In Iraq l’Italia ha partecipato ad un’autentica rapina a mano armata. Saddam Hussein era un feroce dittatore, ma certo non era malleabile come i satrapi africani, dalla Nigeria al Congo (come vedremo nella storia della coppia De Scalzi – Ingoba). I burattini filo-occidentali che lo hanno sostituito (e che sono, paradossalmente, per lo più sciiti filo-iraniani) sono capaci da una quindicina di anni di stare seduti su un mare di petrolio (3 milioni di barili al giorno in media) e far vivere il paese in miseria, in buona parte senza acqua né elettricità (!). Ecco perché le proteste hanno unito gli iracheni al di là di religioni ed etnie, proteste represse in un bagno di sangue ordinato dal governo “democratico”. La gente ha cominciato a capire finalmente a chi conviene il “divide et impera”. Anche in Libia, mutatis mutandis, la partita è simile, dieci anni di caos e guerra civile strisciante o aperta non hanno fatto mai fatto mancare l’oro nero all’Italia; il problema è che a noi vendono solo la versione ufficiale, quella buona per tutte le occasioni, superficiale e ripetitiva: il settore petrolifero, il settore della vendita di armi, e le presenze militari sono rigorosamente “top secret”. Per muoversi sicuri in quel ginepraio, i dirigenti ENI evidentemente sanno distribuire bene le loro prebende a capi e capetti delle milizie locali. D’altra parte l’amministratore delegato Claudio De Scalzi c’è abituato, fin dalla sua formazione come manager all’interno della compagnia, iniziata nella Repubblica del Congo.
Infatti, quando il top manager dell’ENI incontra la sua attuale moglie, Marie Madeleine Ingoba, il Congo (detto anche Congo Brazzaville, dalla capitale o Congo francese, per distinguerlo dal ben più grandeex Congo belga ed ex Zaire) era attraversato da una guerra civile fra le varie fazioni politiche, la classica sporca guerra criminale per bande, che doveva stabilire chi doveva sedersi al tavolo delle multinazionali americane e francesi per la spartizione del petrolio. Si stima che nello strano conflitto morirono circa 400mila congolesi, quasi tutti civili inermi. Alla fine, la spuntò l’immarcescibile Denis Sassou N’Guesso, che aveva dietro la Francia, cioè l’ELF Aquitaine. Per l’ENI, tutto come se niente fosse, “business as usual”: continuare a prosperare sopra i drammi delle nazioni fa parte del “core business” dell’azienda.
I Descalzi sono talmente bravi a gestire le relazioni con il potere che Marie Madeleine, zitta zitta, si mette in società con la figlia del presidente-dittatore Sassou N’Guesso, Julienne, molto simile ad un’altra figlia di presidente dittatore, l’angolana Isabel Dos Santos, la donna più ricca d’Africa (i rispettivi padri erano stretti alleati, tutti e due di formazione comunista, e tutti e due finanziati dalla francese ELF Aquitaine), un’altra signora che ha fatto affari con De Scalzi.
Con l’aiuto di esperti inglesi e italiani, Madeleine e Julienne formano società che passano dal Lussemburgo a Cipro a Panama (anche se il tesoretto pare stia al sicuro alle Mauritius). Una di queste società ottiene appalti da ENI per 310 milioni di dollari. Come minimo, c’era un enorme conflitto di interessi: l’ufficio stampa di ENI non può negare che ci siano stati rapporti di servizio, ma afferma che tutto si è svolto nelle forme previste. Peccato (per loro) che l’appalto dato, diciamo, in famiglia, è venuto fuori nel giro delle indagini sulle tangenti nigeriane. E oltretuttoin questi giorni sta emergendo lo spionaggio portato avanti da ENI ai danni di magistrati, politici, giornalisti che hanno avuto a che fare con la faccenda. Come si dice sempre in questi casi, confidiamo nel lavoro dei magistrati. Ma una cosa è certa, certissima, “altrevoci” lo ha attestato direttamente in Nigeria nel 1999: le versioni dei fatti di ENI sono surreali, possono andare bene giusto al giornalismo addomesticato di casa nostra.
I nostri media non si sono scomposti più di tanto (segnaliamo l’eccezione di “Mi manda Raitre”) nemmeno in presenza della multa di 5 milioni di euro comminata dall’Antitrust a ENI per “pubblicità ingannevole” sul suo “green diesel”: non solo le caratteristiche vantate di riduzione dei consumi e delle emissioni di gas non risultano da nessuna vera prova tecnica; ma il messaggio che quel tipo di diesel “aiuta a proteggere l’ambiente”, trattandosi in ogni caso di un combustibile “altamente inquinante”, è sicuramente “ingannevole”. E l’Antitrust non arriva a specificare che oltretutto l’additivo biologico del diesel falso “green” è olio di palma raffinato: la produzione di olio di palma è una delle prime cause della deforestazione selvaggia, dal Brasile all’Indonesia. Se cercate la notizia sul web, notate che dalla lista di Google spariscono immediatamente i cosiddetti “giornaloni”, e aumentano le fonti semisconosciute. Ma è interessante confrontare le prime due fonti apparse, “Il Fatto” e “Rai news”: nella notizia data dalla RAI, per più di metà articolo, si dà spazio al comunicato di replica dell’ENI, quasi un “copia-incolla”.
Ancora più vergognoso è il caso dell’educazione ambientale proposta da ENI ai docenti delle scuole di ogni ordine e grado, e approvata dall’Associazione Nazionale Presidi(la firma è del presidente Antonello Giannelli), in vista dell’obbligatorietà dell’educazione civica dal prossimo anno. Uno spudorato caso di “green washing”, incredibilmente approvato dai vertici delle scuole.
Sarebbe il caso di inserire nell’educazione civica qualche lezione sul potere di condizionamento delle grandi lobby economiche. La conferma, se mai fosse necessario, è che sulla rete, a parte il solito “Fatto”, la notizia non è riportata da nessun’altra testata giornalistica; ci sono solo l’associazione delle mamme (che chiedono l’intervento della ministra Azzolina), il sindacato autonomo, il WWF (che ritira la collaborazione con l’Associazione Nazionale Presidi) e altri soggetti minori.
I seminari per docenti, che verranno istruiti sull’ambiente dalla multinazionale del petrolio andranno avanti fino a maggio. Vedremo se la ministra grillina interverrà, e soprattutto se verrà interpellata da un onorevole qualsiasi al riguardo.
Ma non tutto il mondo è paese, come invece si sostiene comunemente. La notizia positiva, che dovrebbe essere amplificata in tutta Europa, è che “The Guardian” forse il miglior quotidiano del mondo, non accetterà più pubblicità da nessuna compagnia di combustibili fossili. “Marchettari” di tutto il mondo, tremate. Ora sì che il nuovo decennio è cominciato.Cesare Sangalli