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L’Età dell’Acquario è iniziata (col golpe di Trump)
“This is the dawning of the Age of Aquarius”: questa è l’alba dell’Età dell’Acquario. L’indimenticabile canzone che apre il film “Hair” poteva essere la colonna sonora del 21 dicembre 2020, il giorno in cui, secondo diversi astronomi, siamo entrati in quella costellazione, dopo un ciclo di oltre duemila anni. Ma nel 2021 la musica è subito cambiata, e sembra più una marcia aggressiva, tipo “London Calling” dei Clash.
Il nuovo anno è iniziato infatti con un avvenimento dirompente che sembra oscurare ogni sentimento di “pace e amore”: l’assalto fascista degli squadristi di Trump al Campidoglio per impedire la ratifica dell’elezione di Joe Biden.
E invece, per l’eterogenesi dei fini e i paradossi della Storia, è proprio quel drammatico avvenimento a doverci rendere tutti più ottimisti, perché è grazie a quel proditorio, criminale, grottesco tentativo di colpo di stato che Donald Trump ha bruciato se stesso, mostrando a tutto il pianeta il vero volto del sovranismo complottista: un sovranismo bufalaro che con lui ha raggiunto lo zenit, e che dal 6 gennaio ha definitivamente imboccato il Viale del Tramonto (maiuscolo, per ricordare il capolavoro cinematografico, già citato in questa rubrica per Silvio Berlusconi, vedi “Sunset Boulevard”, 2008).Infatti, ecco che ora tutti ora puntano giustamente (e mai abbastanza) il dito contro i “trumpiani”italiani, Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Ma ancora una volta si sono dimenticati del maestro, l’inimitabile Silvio Berlusconi, il vero padre del populismo postmoderno.
La fretta con cui “Il Giornale” si è dissociato, a nove colonne, dai fatti di Washington (“Noi non siamo questa destra”), è pari alla prontezza con la quale, quattro anni fa, il suo direttore Sallusti attribuì gli ascendenti della vittoria di Trump all’originale, al padre putativo, Silvio Berlusconi. Sallusti non si sbagliava. Le analogie fra i due sono impressionanti; solo che Silvio è molto più zozzo e impunito di “The Donald”, visto che l’origine della sua fortuna puzza di mafia lontano un miglio, quella di Trump no. Ma entrambi, oltre che imprenditori ambiziosissimi e spregiudicati, e autentici maschi alfa predatori di femmine, sono (erano) soprattutto grandi comunicatori, cresciuti nell’era della televisione e grazie alla televisione (uno da proprietario, l’altro da protagonista assoluto di programmi, talk show, spettacoli).
Una popolarità enorme, un’empatia istintiva da seduttori, da simpaticissimi figli di puttana, gente a cui perdoni praticamente tutto, e che sembrano troppo istrionici e vanesi per sembrare pericolosi. Questo è il vero populismo post moderno, che, proprio come il fascismo, è nato prima in Italia che nel resto del mondo.
Berlusconi per primo ha capito infatti che il benessere dà alla testa, nel senso che le persone non avevano né tempo, né voglia di riflettere troppo, di interrogarsi sul dolore del mondo, di avere gabbie etiche troppo strette, quando il primo valore per tutti era l’edonismo. A chi vuoi che fregasse qualcosa del fascismo originario di Alleanza Nazionale (che Berlusconi “sdoganò” quando era ancora Movimento Sociale) o del razzismo latente (neanche tanto) e del linguaggio qualunquista e violento della Lega di Bossi? Chi vuoi che si identificasse più nei “valori della Resistenza”, nell’eroismo partigiano, nella logica del sacrificio e dell’austerità che le generazioni uscite dalla guerra avevano vissutoper costruire l’Italia? A chi mai potevano ancora interessare il conflitto, la contestazione, la costruzione di un mondo migliore (che purtroppo erano degenerati negli anni di piombo, e poi dimenticati a ritmo di disco dance negli anni Ottanta)?
Il populismo post moderno nasce dal vuoto consumista, e ha preso la piega “sovranista” quasi esclusivamente a causa dell’immigrazione, in Italia come poi in tutto il nord del mondo di pelle bianca, perché l’immigrazione portava il fastidiosissimo richiamo degli esclusi, con il penoso ricordo della povertà che si era ormai dimenticata completamente (o quasi). Tutto qui. L’essenza del populismo di destra, su cui i giornalisti dell’establishment invitano a “riflettere”, per “capire il fenomeno”, è tutta qui. Il sovranismo è solo la difesa a spada tratta del benessere esclusivo del nostro mondo, il nord del mondo, la parte ricca del pianeta; il resto lo hanno aggiunto solo per darsi un tono (la Tradizione, l’Identità, perfino il ridicolo trittico “Dio, Patria e Famiglia”, in cui non crede veramente nessuno: tutto finto, tutto costruito sopra la difesa del privilegio acquisito, e per indirizzare la rabbia per averlo perso o averlo visto ridursi, verso il basso invece che verso l’alto).
Non c’è cosa più ridicola, in questi giorni, della spiegazione del colpo di stato tentato da Trump come “frutto della diseguaglianza”. Ci sono cascati alcuni dei migliori pensatori, da Fabrizio Barca a Marco Revelli. Anche prendendo in considerazione i famosi “forgotten men”, i presunti operai della “Rust Belt” (molto più immaginari che reali, in un paese da decenni post industriale, fra l’altro), le presunte vittime della globalizzazione (nel paese che l’ha inventata, la globalizzazione, che era tanto bella finché conveniva), il tema della disuguaglianza come base “morale” del trumpismo è una solenne sciocchezza: molti americani si sono solo incattiviti per le nuove ristrettezze economiche, perché francamente della diseguaglianza non gliene è mai fregato una beata minchia. Sono “veri americani”, convivono da sempre con la diseguaglianza più abnorme, e tutto ciò che promette (minaccia) un qualsiasi livellamento è schifato come “socialismo”. Non hanno mai mosso un dito per emancipare non tanto gli immigrati (in un paese per cui l’immigrazione è stata tutto!), ma i neri che gli vivono accanto da sempre, visto che i primi schiavi sono arrivati prima dei famosi “Pilgrim Fathers” (1619).Eppure, nemmeno dopo 400 anni sono considerati veri americani. Nella contrapposizione fra “The Donald”, il classico “White AngloSaxon Protestant” (WASP), discendente di immigrati tedeschi, e gli afroamericani di “Black Lives Matter”, c’è tutta la Storia d’America. I nipoti degli schiavisti, che hanno sventolato le bandiere confederate nel Parlamento occupato e umiliato, sarebbero spinti dalla diseguaglianza! I figli dei piccolo borghesi perbenisti della “middle class” che guardavano in TV la “loro” polizia massacrare i neri con sostanziale indifferenza negli anni Sessanta, che hanno votato repubblicano anche dopo l’uccisione di Robert Kennedy e Martin Luther King, sarebbero preoccupati dalla disuguaglianza, tanto che il loro idolo è un miliardario che umiliava gli aspiranti lavoratori a “The Apprentice”, cioè un Briatore molto più ricco, molto più potente, molto più arrogante. Fa male sentire alcune delle nostre migliori teste pensanti spargere tanta superficialità (perché la diseguaglianza è sì un tema enorme, ineludibile; però è un processo mondiale che va avanti da trent’anni, e che continua a riguardare in massima parte il baratro fra Nord e Sud del mondo).
Ma non preoccupatevi più di tanto della cecità dei nostri intellettuali, analisti, commentatori. La Storia va avanti anche senza di loro. Il 6 gennaio non è finito solo Trump, che sicuramente verrà processato e condannato; è finito il populismo di destra, che d’ora in poi cercherà disperatamente di sopravvivere, dovunque. E’ finitala fallocrazia, nel primo paese del mondo, “faro” di tutto il Novecento.
Nella sconfitta di Trump, nel suo epilogo vergognoso, c’è già l’annuncio della prossima presidente donna e afroamericana, Kamala Harris, fra meno di quattro anni, nel 2024. E’ semplicemente scritto nella demografia e nell’anagrafe: i bianchi di tutto il mondo saranno sempre più minoranza, lo sa qualsiasi insegnante di geografia; e se a votare fossero stati gli “under 25”, cioè i “millennials”, non ci sarebbe stata partita, lo dicono tutte le analisi di flusso del voto.
Il 6 gennaio, quindi, avete assistito in diretta al tramonto definitivo del Patriarcato bianco. Certo, ci vorrà l’intero decennio, per ribaltare la situazione in tutto il mondo; ma “il futuro è solo un inizio”, lo abbiamo già scritto.
Ora può davvero iniziare l’Età dell’Acquario, con una felice coincidenza storica: il 20 gennaio, con il suo discorso da nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden spalancherà nuovi orizzonti, esattamente 60 anni dopo John Kennedy, unico altro presidente cattolico, che salutò il nuovo mondo dove l’Africa era appena uscita dal colonialismo, e i paesi del Sud per la prima volta diventavano maggioranza all’ONU.JFK lanciò la sfida spaziale per arrivare sulla Luna entro il decennio; ma soprattutto parlò della “Nuova Frontiera” dei diritti civili, dell’uguaglianza e della dignità di tutti. “This is the dawning of the Age of Aquarius”.Cesare Sangalli