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2008, a tuffo nel tunnel
La caduta del governo Prodi sembra “Assassinio sull’Orient Express”. Tutti a cercare l’assassino (ma non era Clemente Mastella?), e ognuno ad offrire una solida spiegazione, un’impietosa analisi, una lucida ricostruzione dei passaggi che hanno portato alla fine del governo dell’Unione. Fra tanto vaniloquio, scritto e parlato, di politici e giornalisti, solo Marco Travaglio si è incaricato di dire le cose come stavano, sul presunto complotto giudiziario anti-Mastella, ad “Annozero”. Per il resto, per avere uno sguardo limpido sui due anni di governo Prodi, bisogna praticamente rovesciare alcuni dei luoghi comuni più gettonati nel circo Barnum della politica e della (dis)informazione.
Il primo nella hit parade delle fregnacce spacciate per grandi verità, riguarda l’antiberusconismo. Dice: “Non si può governare in nome dell’antiberlusconismo”. E’ vero l’esatto contrario: si poteva, anzi si doveva, governare in nome dell’antiberlusconismo. Per due ragioni elementari, sostanza della vera politica:1) per un dovere morale
2) perché era la volontà popolare, la base del mandato elettorale del 2006.
Partiamo da questa seconda affermazione (già contenuta nella “Calda notte dell’ispettore Prodi”). Le elezioni del 2006 sono state un megareferendum pro o contro Berlusconi, com’era giusto e inevitabile che fosse. Ci vuole una bella dose di fantasia (o di faccia tosta) per sostenere il contrario.
Mica si penserà davvero che gli italiani hanno votato l’Unione per il programma, le famose 281 pagine che nessuno ha letto (e vorrei vedere)? Oppure che riponessero grande fiducia negli stessi identici soggetti, a partire da Prodi, che avevano già visto all’opera dal 1996 al 2001? Come se bastasse cambiare nome (l’Unione invece dell’Ulivo) per presentarsi come gli alfieri del rinnovamento. Ma quale rinnovamento? Una pletora di politici di professione, quasi tutti in età da pensione, che sta in pole position mediamente da vent’anni (basta andarsi a vedere la data della prima elezione in parlamento), ospite fissa dell’eterno salotto di Bruno Vespa, 40 anni di servizio ai potenti, te lo vedi nei filmati in bianco e nero ai tempi di Moro e Berlinguer ed è praticamente lo stesso (forse ha fatto veramente un patto col diavolo). Ma lo sanno quanta gente li ha votati tappandosi il naso e gli occhi, pur di uscire dall’incubo di Berlusconi, pur di vedere la fine del “regime”?
Dice: era troppo poco per stare insieme. Balle. E’ vero l’esatto contrario: era troppo.. Nella “calda notte dell’ispettore Prodi” ci permettevamo di ricordare che le vere differenze ideologiche (o di “identità”, come si dice oggi) erano quelle del Comitato di Liberazione Nazionale (1943-1945), che si riproposero all’Assemblea Costituente. Lì c’erano stalinisti e devoti di Pio XII, mica margheritini e diessini. Eppure, seppero unirsi in nome dell’antifascismo; e sulla base dell’antifascismo, disegnarono un paese libero e democratico, quello previsto dalla nostra splendida Costituzione.
Qui, al contrario, c’era solo da superare qualche scoglio, in una situazione infinitamente meno drammatica, per liberare l’Italia dal conflitto di interessi, dalle leggi vergogna, dall’infame duopolio televisivo che rischia adesso di tornare sotto lo stesso padrone. Hanno promesso che lo avrebbero fatto, non ci hanno neanche provato. Ci apprestiamo alle quinte elezioni consecutive truccate in partenza. Il minimo che si poteva fare era ristabilire le regole del gioco, compresa, ma all’ultimo posto, l’infame legge elettorale approvata dai mascalzoni del centrodestra. Solo dopo si poteva entrare nei contenuti più specifici. Invece no. Prodi ha fatto, per la seconda volta, l’unica cosa che sa fare davvero, da economista qual è: risanare (almeno in parte) i conti pubblici. Ma se la prima volta la crisi fu provocata da Rifondazione su temi economici e sociali (volevano le 35 ore e il programma economico di Jospin, ma non se lo ricordano nemmeno loro), e fu una crisi che nessuno capì, tanto che non portò un solo voto in più a Bertinotti (anzi, provocò l’ulteriore, tragicomica scissione dei Comunisti italiani), stavolta è diverso, perché il governo cade sulla questione morale, per quanto tutti i “ladri di verità” (vedi pezzo precedente) si affannino a dimostrare il contrario. E qui torniamo al punto numero uno: l’antiberlusconismo come dovere morale.
Il berlusconismo, che va ben oltre la figura di un uomo, ha due genesi, una culturale e una politica, come abbiamo avuto modo di dire in questa rubrica, che coincidono con ascesa e decadenza del fenomeno Craxi, vergognosamente celebrato in questi giorni da un film e accostato dall’imbarazzante Paolo Mieli a Berlinguer (“due grandi leader”, in sostanza, nel programma “La storia siamo noi”).
La genesi culturale nasce col monopolio illegale della tv privata, sancito dal governo Craxi nel 1984 e legittimato a posteriori dalla legge Mammì del 1990. Tutto si faceva in nome del “consenso”, che tutto giustificava, con i voti da un lato e con l’audience dall’altro. “Posso fare qualsiasi cosa, gli elettori mi votano”, era il teorema politico; “posso trasmettere qualsiasi cosa, agli spettatori piace”, era il teorema televisivo. Un messaggio devastante, che è risuonato di nuovo in questi giorni (Mastella a “Porta a Porta”). Fino a Tangentopoli ha funzionato perfettamente: si sfasciava allegramente il futuro del paese, si rubava a quattro ganasce, si occupavano tutti gli spazi, ma “l’economia andava bene”, solo che “i giudici comunisti” hanno rovinato tutto.
Per il berlusconismo, le regole sono un impedimento alla crescita: liberate gli “spiriti animali” dell’individualismo italiano, mettete da parte gli ultimi scrupoli morali di fronte ai consumi, che sono roba da “veterocomunisti” o da “cattolici sfigati”, e il miracolo verrà, com’è stato per il più fulgido simbolo dell’”uomo che si è fatto da sé” (e con i soldi della mafia), Silvio Berlusconi.
La base ideologica del berlusconismo è tutta qui. La genesi politica, nel 1994, ha permesso a gran parte dell’elettorato di Craxi, Andreotti e Forlani di rifarsi un’inverosimile verginità, e ha spostato a destra gli scarsissimi contenuti “ideali”, aggiungendo i mantra sulla “sicurezza”, cioè contro gli extracomunitari, uno spudorato filoamericanismo, e infine la bugiardissima difesa dell’”identità cattolica”, la più indecente delle beffe.
Abbiamo visto i risultati. La Seconda Repubblica va a morire lì dove aveva iniziato, negli anni Ottanta: fra puttane e cocaina. Si ruba nel pubblico e si ruba nel privato, rendendo vane le vecchie distinzioni di politica economica. Anzi, l’intreccio pubblico-privato si fa sempre più perverso, la spazzatura che travolge la Campania è lì a dimostrarlo, Roberto Saviano l’ha spiegato benissimo in “Gomorra”.
Il governo è caduto per la questione morale, perché la maggioranza risicata al Senato è frutto di una legge elettorale perversa e di grandiosi brogli contabili del centrodestra (oltre che dei pacchetti di voti camorristi e mafiosi), che forse qualche storico un giorno riuscirà a dimostrare più di quanto ci sia riuscito Enrico Deaglio.
Ancora, il governo è caduto sulla questione morale, perché aveva al suo interno un ministro che ha sempre pescato nel torbido, oltre ad essere un volgare voltagabbana, un amico dei boss mafiosi (mica ci sono andato io al matrimonio di Campanella, braccio destro di Provenzano). Infine, il governo è caduto sulla questione morale perché fra i tanti ricattatori c’era pure l’ineffabile Lamberto Dini, anche lui con la moglie corsara (fresca di condanna per bancarotta fraudolenta), con i suoi ridicoli senatori (uno vota a favore, uno contro e uno si astiene: il lungo, il corto e il pacioccone). Qui di politica non c’è nemmeno l’ombra, ma ormai l’aggettivo “politico” si appiccica dappertutto (per cui se voglio piazzare uno nella Pubblica Amministrazione, è “una questione politica”). E non si venga a parlare dell’economia, per favore. L’economia è l’ultima delle questioni, è la foglia di fico di chi ha il terrore della responsabilità. Perché ci si può sempre appellare al petrolio a 100 dollari, al crollo delle borse asiatiche, alla recessione americana. Perché tutti, da dieci anni, cantano in coro che vogliono la crescita economica, la modernizzazione del paese, il rilancio della ricerca e tante altre belle storielle da ripetere per l’ennesima volta all’ennesimo giornalista zerbino (Giovanni Floris, “Ballarò”). Tutti a tirare fuori cifre che dicono tutto e il contrario di tutto, tutti a citare il “Financial Time” o Almunia o “Standard&Poor’s” come fossero la Bibbia. Volete le cifre vere? Eccole: l’Italia è pur sempre nelle prime dieci economie mondiali; ma per la lunghezza dei processi siamo il paese numero 155 su 178 che compongono il pianeta, come hanno ricordato i magistrati all’apertura dell’anno giudiziario.
Non è l’economia, il problema italiano. E’ la giustizia, l’etica, la responsabilità. Se questo 2008 cominciato così male dovesse concludersi con un nuovo governo Berlusconi, meglio cambiare bandiera: non il tricolore, ma quella dei pirati, teschio e ossa su sfondo nero (che richiama il fascismo). Benvenuti nel tunnel...
Cesare Sangalli