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Una vita extra
“L’Italia è forte con i deboli e debole con i forti”. Le parole di Viktoria Mohacsi, parlamentare europea dei liberali, fanno giustizia della fuffa razzista (soft o hard) che i nostri media ci propinano da anni, in un trionfo di conformismo che non ha eguali, e che ha trasformato in linea politica i discorsi da bar, prima monopolizzati dalla Lega, ora da tutti, praticamente senza eccezioni. Alla base, un teorema elementare: la priorità del paese è la sicurezza, e la minaccia alla sicurezza nazionale viene dall’immigrazione. Ergo, più sarà dura la mano dello Stato contro gli immigrati, più la società italiana sarà protetta. Le differenze politiche riguardano soltanto il grado di durezza, nessuno mette davvero in discussione il dogma. Nel migliore dei casi, qualcuno ogni tanto ricorda l’utilità economica e sociale degli immigrati. Ma guai a considerare anche i loro bisogni, che poi sono quelli di tutti (salari decenti, casa, sanità, istruzione per i figli). E sembra un’idea scandalosa che gli immigrati possano avere gli stessi diritti degli italiani. E’ già tanto se permettiamo che restino in Italia.
La questione dell’immigrazione misura meglio di qualunque altra il cambiamento (in peggio) della Terra dei cachi. Si parte sempre dallo stesso punto, i primi anni Ottanta. In questa rubrica abbiamo fissato la fine della Prima Repubblica nella notte “mundial” del 1982 (“Campioni del mondo”). Nel quarto di secolo successivo, quello dominato dalla figura di Berlusconi, l’Italia ha vissuto il cambiamento decisivo della sua collocazione mondiale, dal punto di vista sociale ed economico: da terra di emigranti a terra di immigrazione. Un cambiamento epocale vissuto senza la minima consapevolezza. Nel frattempo, i viaggi all’estero sono diventati fenomeno di massa: ancora ai primi anni Ottanta, gli italiani si salutavano quando si incontravano fuori dai confini nazionali, perché l’evento sapeva un po’ di miracoloso. Adesso facciamo finta di nulla, perché l’evento è così normale che sembra rendere più banale il viaggio.
Questo rovesciamento di prospettive ci ha visto e ci vede ancora oggi del tutto impreparati. Non abbiamo imparato niente dai viaggi, e siamo ancora incredibilmente inadeguati sul tema immigrazione. Si dirà: non è un fenomeno solo italiano, è anche un problema degli altri paesi. Il che in buona parte è vero. Ma per rispondere a una tale obiezione, basta ricordare la versione spagnola di “mal comune, mezzo gaudio”: “mal de muchos, consuelo de tontos”. Se qualcuno non capisce, risparmi il costo del viaggio alle Baleari o a Santo Domingo.
Torniamo alla nascita del fenomeno migratorio in Italia. All’inizio, c’erano i “vu cumprà” (per fortuna questo termine è ormai andato in pensione). Erano sostanzialmente un’innocua nota di colore nelle nostre strade e nelle nostre spiagge. Per la prima volta si vedevano africani in Italia, e un po’ di roba etnica poteva anche fare tendenza. Il flusso migratorio aumentava anno dopo anno, gli extracomunitari diventavano visibili ma senza grandi sussulti. L’Italia, per quanto provinciale, si poteva ancora crogiolare nel buonismo costituzionale, nell’imprinting cattocomunista degli “italiani brava gente”: razzisti erano gli altri, gli svizzeri, i tedeschi, i belgi, tutti quelli con cui sentivamo di avere ancora qualche conto in sospeso per le angherie subite dai nostri lavoratori all’estero. Il nostro complesso di inferiorità era ancora evidente, con i fiumi di retorica quando la nazionale vinceva fuori casa, o l’incredibile festa in Germania per la vittoria del Napoli in Coppa Uefa (1989).
Gli “stupidi” anni Ottanta sono stati un periodo di incubazione. L’Italia post-moderna si manifesta veramente solo negli anni Novanta, e a fare da detonatore ci pensano gli albanesi. Un giorno (si spera non troppo lontano) capiremo che l’immmigrazione svolge un ruolo provvidenziale: ci ricorda che viviamo nel Mondo, e che questo Mondo ha una Storia.
Così, nel 1991, l’esodo biblico degli albanesi in Puglia ci ricorda che il comunismo è crollato, mentre in Italia si faceva finta che non fosse successo niente. La nostra classe dirigente sembrava vivere in un altro pianeta, così ripiegata su se stessa da pensare di cavarsela con il mito di Andreotti, “grande mediatore apprezzato all’estero” e con l’arroganza tipicamente socialista (cioè craxiana) di De Michelis, capace di firmare gli accordi di Maastricht in nome di un governo che stava violando di brutto tutti i criteri contabili fissati da Bruxelles: europeisti a chiacchiere, bananieri nella realtà. Siamo talmente inadeguati che poche migliaia di albanesi ci mettono in ginocchio, nemmeno fosse lo Tsunami. Questa sproporzione totale fra l’entità di un fatto e le reazioni che provoca rimane la caratteristica più assurda della questione immigrati. Quando, nei primi anni Novanta, l’Università di Roma fece uno studio sulla percezione del fenomeno immigrazione, a partire da una semplice domanda (“Quanti sono secondo voi gli stranieri in Italia e quanti a Roma”) vennero fuori risposte sbalorditive: le cifre erano come minimo triplicate, in certi casi moltiplicate per dieci. Questa ignoranza crassa, questa percezione distorta e mitizzata, è stata tenacemente coltivata dal peggior giornalismo di tutti i tempi, ed è rimasta tale finora. Una menzione speciale va di diritto a Vittorio Feltri e alla moglie, Pia Luisa Bianco, autentici terroristi della carta stampata (Feltri inventò, da direttore del “Giornale”, la bufala della lebbra in Sicilia portata dagli extracomunitari; Pia Luisa Bianco sostenne che la categoria “razzismo” era un’invenzione dalla sinistra per ricattare la brava gente moderata). A ripensare alle immagini di quella estate 1991, alle masse rinchiuse nello stadio di Bari, uomini donne e bambini trattati quasi da animali, viene da dire che gli albanesi sono eroi del nostro tempo, capaci di riscattare a mani nude un destino politico che li voleva condannare a rimanere lo zoo dell’Europa. Per anni, invece, gli albanesi saranno i primi nella hit parade dei presunti cattivi. Poi se la giocheranno con i marocchini, e infine verranno scalzati dai romeni.
Assassini, stupratori, papponi, spacciatori, delinquenti, o comunque ladri, ubriaconi, sporchi, incivili. Gente senza Dio e senza educazione. Proprio come venivano visti gli italiani dalla stampa conservatrice e puritana anglosassone. E provate a dire, da italiani, che non abbiamo avuto boss feroci, belve umane esportate in tutto il mondo. Come certi albanesi, certi marocchini, certi romenii. Il trucco c’è, e si vede: la nazionalità non aggiunge e non toglie nulla a un delitto. Uno stupro è uno stupro, un omicidio è un omicidio, una rapina è una rapina. Invece no. L’indignazione scatta a comando quando c’è di mezzo lo straniero. Il campionario delle frasi stronze è incredibilmente vasto, e questo accade perché da un quarto di secolo l’ignoranza è considerata forza, come in “1984” di Orwell. Le migliori di tutte diventano slogan. Tipo “Padroni a casa nostra”. Suona così bene. “Padroni a casa nostra”. Giusto, perdio. Ne consegue, come corollario, che a casa degli altri dobbiamo essere servi. Un concetto privato di ciò che pubblico. Ma l’Italia non è proprietà di nessuno, e i cittadini non sono padroni di niente, proprio perché siamo una “res publica”, che è di tutti e di nessuno. La cittadinanza dovrebbe essere frutto di una libera scelta. Punto.
“Prima il lavoro agli italiani, poi agli stranieri”, e dieci minuti dopo chiamano la donna delle pulizie peruviana o la badante polacca. Il lavoro è per chi lo vuole fare. Un extracomunitario espulso non significherà mai un posto in più per un italiano. Lo sappiamo benissimo, ma facciamo finta di non saperlo.
“Gli stranieri vanno bene, ma solo se lavorano”. Certo, la maggior parte viene in Italia per fare le ferie.
“Siamo a favore degli stranieri regolari; tolleranza zero con i clandestini”. Mai che si predichi tolleranza zero per le cazzate. Un clandestino è tale soprattutto perché lo Stato gli nega il permesso di soggiorno. Oppure perché è appena sbarcato, come un disperato, sulle coste italiane. Un clandestino è una persona, prima di tutto, e ha diritti sanciti dalla Dichiarazione Universale del 1948. Anche se è disoccupato, e perfino se delinque.
“Bisogna aiutare gli emigrati nel paese di origine”: questa è forse la più grossa di tutte, proprio perché è l’unico concetto che ha un fondamento valido. Sarebbe giusto, infatti, impegnarsi a fondo per riequilibrare almeno in parte l’assurda ingiustizia nella ripartizione delle risorse mondiali, che è la prima causa del fenomeno migratorio. Peccato che l’Italia ha quasi dimezzato i fondi alla cooperazione internazionale, che già era (e resta) la foglia di fico per nascondere il saccheggio delle risorse nei paesi del Terzo Mondo (un esempio per tutti: l’Agip con il petrolio nigeriano).
Agli immigrati in Italia resta solo l’appoggio piuttosto silenzioso della Chiesa cattolica (che fa il triplo del baccano su matrimoni gay e fecondazioni artificiali), di alcune associazioni sconosciute ai più, e di una piccola parte della sinistra, ormai extraparlamentare. Per loro, a meno di sacrifici immani e tempi biblici, si prospetta sempre e comunque una vita “extra”. Almeno fino a quando non capiremo che è più extracomunitario un leghista o un fascista di uno straniero che vive e lavora in Italia.
Cesare Sangalli