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E’ Natale, papa Ratzinger
Chissà come verrà ricordato, il 2008. L’anno dell’elezione di Obama? L’anno in cui finì l’ubriacatura neoliberista? L’anno in cui si chiuse il delirio bellico post undici settembre? L’inizio della nuova “Grande Depressione”? Forse per il mondo sarà così, ma non certo per la Terra dei Cachi. Siamo talmente sfasati rispetto alla Storia con la esse maiuscola che perfino il papa, il successore di Pietro, il rappresentante di Cristo sulla Terra (per chi ci crede) o semplicemente la guida spirituale di un miliardo di persone (scusate se è poco), sembra adeguarsi alla mediocrità, anzi alla meschinità della classe dirigente italiana.
Mai visto un papa così provinciale. Può sembrare strano per uno come Ratzinger, conosciuto come insigne teologo, di vasta cultura, proveniente dalla nazione che ha espresso i più grandi pensatori del mondo moderno. Ma è difficile capire che cosa significa “moderno” per Benedetto XVI. O forse non tanto, se si pensa alla scelta del nome. Poteva chiamarsi Giovanni Paolo III. Ma lui voleva dirci che “qualcosa è cambiato”. Che era arrivato il momento di chiudere il percorso iniziato da Giovanni XXIII, proseguito da Paolo VI, e poi dai due Giovanni Paolo, uno durato pochi mesi, l’altro destinato ad un papato fra i più lunghi della Storia (circa 27 anni). Certo, non si può dire che non ci fossero differenze anche profonde fra questi pontefici; eppure ognuno si richiamava al ciclo iniziato da papa Roncalli, esattamente 50 anni fa. Si può definire, con una sola parola, il ciclo della modernità.
Che cos’è la modernità, che cosa significa “moderno”? Stando ai dizionari, la modernità è “l’insieme delle tendenze che caratterizzano il tempo presente, soprattutto se sono in contrapposizione con quelle del passato”. In che cosa consisteva la modernità, per Giovanni XXIII, il papa che volle una grandiosa riflessione della Chiesa cattolica su se stessa, cioè il Concilio Vaticano II? Potrebbero bastare due parole. La prima è universalismo (qualcuno tradurrebbe “mondialità”, ma è bene ricordare che “cattolico” in greco significa “universale”). La seconda è apertura. Apertura al mondo, nel significato più profondo e più ampio del termine. La modernità per Giovanni XXIII era apertura al mondo.
Non vi fidate di preti e teologi che complicano troppo la faccenda: “Signore, ti ringrazio perché hai svelato queste cose agli umili, e le hai nascoste ai sapienti”, dice Gesù nel Vangelo. Basta fare un piccolo esempio, meglio di tanti discorsi troppo difficili: prima del Concilio, l’unica lingua della Chiesa era il latino. Oggi la stessa liturgia si celebra in una infinità di lingue, con i riti propri a ciascun popolo, compresi canti e danze che pochi decenni fa sarebbero stati definiti “pagani”, non senza disprezzo. Questo è il Concilio Vaticano II: il tentativo di essere davvero universali, di riuscire a parlare a tutti, nessuno escluso. L’apertura al mondo, che non è in sé solo perdizione, peccato ed eresia, proprio perché “lo Spirito Santo soffia dove vuole, non dove
vogliono gli uomini” e soprattutto perché “ la Chiesa è serva e non padrona del Mistero”. Ma papa Ratzinger, nell’anno di poca grazia 2005, vede le cose in maniera diversa. Sceglie il nome di Benedetto perché si richiama ai seguaci di San Benedetto, i monaci che, alla caduta dell’Impero Romano (che corrispondeva al mondo cristiano), si ritirano e fanno uno sforzo straordinario per preservare la cultura dell’epoca, quella che poi verrà definita “cultura occidentale”.
Sono dunque tempi di invasioni barbariche, per Ratzinger. E’ arrivato il momento di alzare i ponti levatoi, e difendere la cittadella assediata da un mondo brutto, sporco e cattivo. Anche in maniera aggressiva, all’occorrenza. Salvo poi rettificare, smentire, sostenere di essere stati male interpretati. Mai visto in vita mia un papa che rettifica. Ve lo immaginate Woytila che dice “forse non mi sono espresso bene”? Giovanni Paolo II non faceva sconti a nessuno, anche quando diceva cose difficilmente condivisibili anche per i cattolici (o sparava cazzate, se lo vogliamo dire con un toscanismo, come accostare gli aborti all’Olocausto).
Però non aveva paura a condannare con parole di fuoco l’intervento in Irak e il presidente Bush (“Sarete responsabili di fronte a Dio e alla Storia”), come non ebbe paura a visitare un paese islamico vicino all’Afghanistan pochi giorni dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Papa Ratzinger invece preferisce farsi un bagno di folla negli USA e ottenere un discreto consenso mediatico anche a costo di festeggiare calorosamente il compleanno di Bush.
Ma è nella Terra dei Cachi che Benedetto XVI ha dato il meglio di sé (cioè il peggio della Chiesa cattolica).
L’anno che si chiude è iniziato con la negazione dei funerali al povero Welby, colpevole di applicare un principio del catechismo (“No all’accanimento terapeutico”), e finisce con il diktat a Tremonti sul finanziamento delle scuole cattoliche: i tagli a queste scuole per benestanti, che spesso sono degli autentici diplomifici per i rampolli più svogliati della razza padrona, sono rientrati immediatamente, mentre si squartava la scuola pubblica, la scuola di tutti. Come se non bastasse, abbiamo pure il ministro Sacconi che nega al cadavere vivente di Eluana Englaro una fine dignitosa (magari poi ci penserà di nuovo la Chiesa a negare anche una degna sepoltura). E tutto questo dopo che alle Nazioni Unite il Vaticano non ha firmato né il documento sulla depenalizzazione dell’omosessualità, né quello sui diritti dei disabili.
Sul caso di Eluana, alcuni sacerdoti hanno espresso apertamente il loro dissenso. Per quanto piccolo, è un segnale di vita. E’ la conferma indiretta di quanto scrivevamo in “La messa è finita”: i cattolici veri in Italia sembrano essere spariti. A quanto pare sono loro i veri benedettini, quelli che vanno avanti seminascosti, nonostante tutto, per conservare il buono che c’è nel “popolo di Dio in cammino” (è questa la definizione conciliare di “Chiesa”). Per non lasciare che la preziosa eredità del cattolicesimo progressista sia cancellata dai nuovi vecchi barbari della Curia e della CEI, e dai loro numerosi lanzichenecchi che operano nel mondo laico. Gente come Antonio Saladino, il losco faccendiere calabrese della Compagnia delle Opere (cioè il braccio armato di Comunione e Liberazione, che da anni spadroneggia nella Lombardia berlusconiana e leghista). Gente come Antonio Fazio, un devoto dell’Opus Dei, che in attesa del processo scrive libri da erudito (non sembrava tanto colto, però, quando parlava con Ricucci al telefono). Gente moralmente discutibile come Casini, Cesa, Cuffaro, Chiaravalloti, Mastella, Lusetti, e già si parla di Mancino e perfino dell’ultimo arrivato, Albertosordi Rutelli. O come Angiolino Alfano e Mariastella Gelmini, i giovani leoni di area clericale dell’ultrasettantenne Berlusconi.
Meno male che la Conferenza episcopale italiana lamenta l’assenza di “una nuova generazione di politici cattolici”. Forse qualcuno lassù (non in Cielo, per carità, solo in Vaticano) comincia a capire che non si può andare avanti così. A dire che papa Pio XII era praticamente un santo, a dire che la Chiesa si oppose con coraggio alle leggi razziali del 1938. A negare, smentire, polemizzare, condannare tutto e tutti, fare crociate contro la laicità dello stato (vedi Zapatero), difendere orticelli e rendite di posizione, accanirsi in battaglie assurde, con argomentazioni bizantine.
E’ Natale, papa Ratzinger. Ascolti un messaggio che viene dal cardinale Martini, che molti volevano (volevamo) papa al posto suo. Vivere il Vangelo radicalmente nella nostra epoca, dice da tempo Martini, significa soprattutto “farsi compagni di strada”. E’ l’augurio a tutti, cattolici e non, per l’anno che verrà.
Cesare Sangalli