W l'Italia ... fra memoria e attualità ...

 



Nel mezzo del cammin di nostra vita


“La Storia è un fiume che porta fuori dai confini del Tempo”. Forse il concetto è un po’ troppo elevato, per una rubrica che si intitola “W l’Italia” e parla della Terra dei Cachi, a partire dagli anni Ottanta. Il fatto è che quando, al primo anno di università, il professor Settembrini ci illustrava le concezioni della Storia (quella in apertura è di Sant’Agostino) per introdurci alle grandi visioni politiche moderne, il mondo consentiva ancora uno sguardo presbite sulla realtà. Mentre oggi assistiamo ad un’assurda cacofonia di previsioni da galline cieche, che vanno dalla minimalista “ripresa entro dicembre” all’apocalittica “crisi del capitalismo”. Di sicuro, la primavera quest’anno è in ritardo.
Impossibile non usare un certo sarcasmo a fronte della quasi totale mancanza di visioni per il futuro. Dice: “Si sta ancora troppo bene”. E forse è pure vero. D’altra parte, ci siamo abituati. Si può dire che ci siamo nati. Ricordo vecchietti arrabbiati che, urtati dalla nostra esuberanza adolescenziale, urlavano: “Vi ci vorrebbe un po’ di ’44, a voi giovani d’oggi”. Ormai sono pochi quelli possono dire di averlo vissuto veramente, il 1944. La guerra e il dopoguerra erano lo spartiacque di tutto. C’era un prima e un dopo. Il fascismo e la democrazia. La povertà e il benessere. C’era un passato drammatico e un futuro, che, in ogni caso, sembrava migliore. Poi qualcosa ha cominciato a rallentare. Ma non era l’economia. Quella ha continuato a crescere, crescere, crescere, fino a poco tempo fa. Era la capacità di migliorare che si stava lentamente, inesorabilmente appiattendo. E insieme alla capacità di migliorare si appiattiva la conflittualità.
Per usare la metafora di un amico filosofo, il fiume della vita sembrava non trovare più ostacoli da abbattere, si spalmava in una pianura senza fine, per diventare un’immensa palude. Soddisfatta e stagnante. E quindi destinata a imputridirsi.
Questa percezione risale all’estate del 1992, un’estate scossa dalle uccisioni dei giudici Falcone e Borsellino, e dall’inizio di Tangentopoli. Sembrava uno Tsunami, ma erano solo gli ultimi sassi nello stagno, che nel giro di due anni si era già completamente richiuso. All’epoca, era ancora di moda dire “non vogliamo morire democristiani”, perché nemmeno la caduta epocale del comunismo era riuscita a cambiare veramente gli assetti politici del paese. Oggi possiamo dire che “non vogliamo morire berlusconiani”: chi è entrato negli “anta” comincia seriamente a preoccuparsi. Anche perché, come abbiamo avuto modo di scrivere nella prima puntata di questa rubrica, il berlusconismo è più ampio dei voti di Forza Italia o del centrodestra, e non finirà immediatamente con la fine di Berlusconi, che nel 2005 sembrava già nella fase declinante, e invece ci riservava altre sorprese. Gli italiani sono stati capaci di smentire la profezia di Montanelli, che avevamo fatto nostra, e che prevedeva che vivere sotto il comando del Caimano avrebbe fatto da vaccino. Dopo quattro anni del suo secondo governo, nel 2005, sembrava proprio così. Ma eccoci a quattro anni di distanza alle prese con gli stessi problemi, che nel frattempo sono peggiorati. E’ tutto decisamente più brutto, più, triste, più cupo. Ma come abbiamo fatto a ridurci così? Curzio Maltese, qualche anno fa, rispose in un suo libricino con una battuta presa da un film: “Un po’ alla volta, e poi tutto insieme”. Non è così difficile capire quando l’Italia ha smesso di migliorare (che, ripetiamo, non significa diventare più ricchi, almeno da un certo livello in poi). Dovendo scegliere una data in una storia senza avvenimenti, abbiamo scelto la vittoria dell’Italia ai mondiali del 1982 come ultimo momento glorioso della Prima Repubblica. Poi si cominciò ad entrare nell’Italia di Berlusconi. Nei 24 mesi successivi, questo palazzinaro piduista che sembrava la caricatura del
“cumenda” milanese dei film degli anni Sessanta, costruiva il suo impero televisivo con una straordinaria abilità imprenditoriale e con i soldi riciclati della mafia. Il capolavoro venne completato con l’acquisto del Milan nella primavera del 1986.
Alla televisione, c’era chi intuiva che si andava verso il peggio, anche se in un clima di spensieratezza: Renzo Arbore fece il bis del successo di “Quelli della notte” con il programma intitolato profeticamente “Indietro tutta”. Per carità, era solo un po’ d’ironia, perché il peggio doveva ancora venire. Sulla cultura pubblicitaria sempre più invadente, i famosi sponsor che sottomettevano ogni contenuto, Arbore inventò il “Cacao Meravigliao” (e ci fu un sacco di gente che cominciò a chiedere nei negozi un prodotto inesistente: meditate, gente, meditate); e sull’immagine della donna ridotta a oggetto sessuale, che seppelliva nelle risate vent’anni e passa di femminismo, il buon Renzo creò le “ragazze Coccodé”, vestite un po’ da “pin up”, un po’ da galline. Allora, forse, si poteva ancora ridere di questi fenomeni. Ma un po’ alla volta si peggiorava, anche perché a livello politico le dottrine neoliberiste avevano preso il sopravvento nel mondo occidentale: se per Reagan il governo era il problema e non la soluzione, e se per la Thatcher la società non esisteva, ne conseguiva che la politica significava poco e niente, e che avere una visione della Storia, cioè un’idea di futuro, semplicemente non era necessario. Anzi, dopo il crollo del comunismo, si arrivò a sostenere che la Storia era finita ( Fukuyama) : bastava gestire l’esistente come si era fatto fino ad allora, e il resto sarebbe venuto da sé.
E’ chiaro che si trattava di una montagna di sciocchezze. Ma nemmeno la guerra in Jugoslavia, l’orrore delle “pulizie etniche” che avveniva nel cuore della pacifica Europa non più divisa dalla Cortina di ferro, mise in discussione il modello dominante, che si può definire con grande semplicità: la rinuncia all’etica in nome di una presunta convenienza. Il mondo moderno sa parlare solo di economia, tutto il resto è percepito come fastidio moralistico, piagnisteo dei perdenti. Per giustificare l’ingiustificabile, cioè una vita, una società, un mondo, pensato solo in termini di benessere materiale (per chi può), si sono inventate nuove minacce, nuove paure: il “conflitto di civiltà”, il terrorismo islamico, fino alle psicosi surreali, come l’influenza aviaria.
Armi di distrazioni di massa, come sono state giustamente definite. L’importante era ed è ancora NON METTERE IN DISCUSSIONE L’ESISTENTE. La vita va bene così com’è, non bisogna cambiare nulla, o quasi. In Italia questo è più vero che altrove, perché noi siamo uno dei paesi più “televisivi” del mondo. Per molti di noi le aspettative dovrebbero ridursi ad aspettare il prossimo campionato di calcio, il prossimo festival di Sanremo, la prossima vacanza al mare (o in montagna), il nuovo televisore, la nuova auto, la nuova moda tecnologica.
Calma piatta. Nessun sentimento, nessuna idea. Nel frattempo, il mondo si deteriora in silenzio. Anche dal punto di vista materiale, ovviamente. Accanto a noi stanno ritornando scene di vita che in Italia pensavamo superate da trent’anni. Ci siamo abituati a considerare normali per gli altri (gli stranieri) condizioni di vita che giudichiamo bestiali per noi. Noi con la vasca idromassaggio, o il box doccia ultima generazione, loro con la latrina fuori casa, come negli anni Cinquanta. Facciamo finta di non vederli, facciamo finta di non vedere.
Siamo ricchi e parliamo come dei morti di fame. Perché, per una fetta troppo larga di popolazione, l’unica idea degna di essere difesa è quella che riguarda il proprio privatissimo tenore di vita. Siamo pronti, in massa, ad un patto faustiano: “dammi un po’ di benessere materiale, e ti darò l’anima”. Il berlusconismo è questo: è un patto faustiano. Le elezioni in Sardegna sono solo l’ennesima conferma: e qualcuno parlava ancora di “orgoglio isolano”. Vengono dalla terra di Emilio Lussu (ammesso che si sappia chi è) di Gavino Ledda (quello di “Padre padrone”), ma ormai il loro modello antropologico è Jerry Calà. Preferiscono fare le comparse mute di un set tipo “Vita Smeralda”, piuttosto che essere i protagonisti di una società più giusta, più onesta, più rispettosa della natura.
A questo punto, ben venga la crisi. Se le anime ricominciano a vivere e i cervelli a ragionare solo quando non ci sono più i soldi per il superfluo, speriamo che la crisi sia lunga e dura, e che faccia crollare l’osceno consenso sulla ricchezza (a partire da quella di Berlusconi).
Cesare Sangalli