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Palloni (s)gonfiati
La vera notizia, dopo il voto delle europee, è il ritorno della realtà. Le mitologie cominciano a cadere, e non è che l’inizio. Non potendo celebrare il trionfo del Sultano-Norma Desmond (Berlusconi è sicuramente il leader con più appellativi di tutti i tempi), e nemmeno occupare il palinsesto con i suoi monologhi, i nostri sedicenti analisti, opinionisti, giornalisti, spaventati dall’horror vacui (terrore del vuoto) sono tornati immediatamente al frasario della Prima Repubblica. Che poi è l’unico che conoscono, una volta venuti meno gli slogan conformisti da ripetere al riparo da ogni capacità critica, da ogni coraggio intellettuale e perfino dignità personale.
I miti del potere, mai così presenti nei media, si sono sgonfiati oltre ogni previsione (in “Avanti pop” ci saremmo accontentati di non veder raggiungere il traguardo del 40 per cento al PDL come Linea Piave della democrazia). Il prima e dopo il voto è stato spettacolare.
Prima, Berlusconi imperversava quasi a reti unificate, spandendo trionfalismo per tutto l’etere di cui è padrone e signore. Dopo, un’assenza totale, che rivela una volta di più l’infantilismo di questo vecchio piazzista truffaldino, un nano politico spacciato da gigante nella più brutta Italia repubblicana di sempre (la Terra dei cachi): gioco solo se vinco io.
Passato il dolore per lo schiaffone “di realizzo” (si dice così dalle mie parti), Norma Desmond-Berlusconi è partito per gli USA parlando di complotti contro di lui (povera stella), ansioso di rifarsi il look da statista accanto a Obama. Chi ha visto le immagini della conferenza da Washington con Obama e Berlusconi uno accanto all’altro, in pratica un giovane insegnante sicuro di sé e un decrepito scolaretto intimidito, non può che scegliere un solo aggettivo per il nostro (?) presidente del consiglio: patetico. Bruno Vespa, che è tutto meno che scemo, non sapeva più che fare per gestire l’evento, reso ancora più reale dalla trascuratezza dell’ambiente e delle riprese. La pagliacciata beduina con l’amico Gheddafi re di Roma almeno era stata condivisa da tutto l’establishment economico della Terra dei Cachi in cerca dei soldi libici; e poi Gheddafi, che sembra una “drag queen” in divisa, fa sembrare sobrio anche Berlusconi, il satrapo triste.
Un leader patetico per un paese che “non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia” (Claudio Lolli, già citato in questa rubrica). Il cinismo, la spregiudicatezza, la doppia morale, il machiavellismo, la furbizia, la vanità, hanno bisogno di una coperta grande per coprirsi, e questa coperta si chiama successo, ricchezza, edonismo e consumismo.
Una droga di massa per un popolo ampiamente dopato, quasi assuefatto. Ma ora si avvicina il famoso “down”, il calo.
In realtà, questa sensazione era già latente quando abbiamo iniziato questa rubrica, esattamente quattro anni fa. Ma i “drogati” del centrosinistra (Prodi compreso) hanno fatto come tutti i tossici: ci sono ricaduti.
Stesso spartito, stesso copione, Ulivo o Unione non cambia niente: Prodi si occupa solo di conti pubblici (anche perché è più debole del 1996); la prima volta Mastella serve come stampella (di D’Alema), la seconda invece fa da becchino. Bertinotti, leader protagonista solo sotto la cipria e le luci dei riflettori, è il primo a pagare il ritorno della realtà, e ritrova quindi la sua giusta collocazione, scomparendo.
La rabbiosa ostinazione con cui metà degli italiani richiamano Berlusconi al comando nel 2008 assomiglia davvero all’attaccamento letale degli eroinomani alla droga pesante, certo più forte del metadone rappresentato dal centrosinistra.
Solo che la disintossicazione voluta dai cittadini più sani (quelli della sinistra vera), dopo aver coinvolto anche l’elettorato del Partito Democratico (Veltroni non era nemmeno un valium, al massimo una valeriana, il cui effetto è durato circa 16 mesi), ha cominciato a riguardare anche il cosiddetto “popolo della libertà”.
L’effetto nausea, il fatidico “adesso smetto”, è venuto dal divorzio di Veronica e dallo scandalo Noemi, e ha riguardato in primis l’elettorato femminile. Un po’ quello che si prevedeva, o forse semplicemente si sperava.
Gli analisti del voto lo hanno dimostrato, Ida Dominijanni, piuttosto isolata per la verità, lo ha scritto chiaro e tondo sul “Manifesto”.
“Bandiera rosa trionferà”, era il sottotitolo di “Avanti pop”. E’ stato così, in gran parte, anche se i soliti vecchi maschi al potere non ne hanno minimamente accennato. Tutti pronti a scandagliare con grande considerazione di sé i flussi elettorali, e a dirsi a vicenda “tu ce l’hai più corto”, o azzardare ridicole analisi in chiave europea e poi la solita fuffa, il solito giochino sulle alleanze, con la domanda tormentone che ci insegue da una decina di anni: in quale gruppo starà il centrosinistra a Strasburgo. Davvero esiziale per milioni di elettori, che non ci dormono la notte.
E’ per questo che, a parte Debora Serracchiani, davvero troppo forte per poter essere nascosta, non sappiamo nemmeno che faccia abbiano Francesca Barracciu, Simona Caselli, Francesca Balzani, tutte colpevoli di aver battuto il Sultano non solo stando nel centrosinistra, ma senza padrini o padroni di partito.
Citate da Concita De Gregorio, un’altra donna, e da nessun altro.
E qui veniamo a Di Pietro, all’Italia dei Valori, unico vero fatto nuovo di queste elezioni (la Lega, al massimo della sua visibilità, ha preso solo 100mila voti in più dell’anno scorso). Se pensano di giocarsela su tatticismi e alleanze, ora che tutti li cercano, sono già finiti. De Magistris è bene che eviti la televisione e che spenda la sua determinazione e la sua competenza di magistrato a Strasburgo. Non l’abbiamo votato per aggiungere una statuina nel presepe di Bruno Vespa.
Per quanto patetico sia, Berlusconi è ancora in grado di fare molto danno. E ha dalla sua parte un sistema ancora molto forte, quello della Prima Repubblica, quello gattopardesco che sembrerebbe condannarci, soprattutto al Sud, ad un eterno presente, dove è vietato sognare di diventare migliori.
Il Sistema quasi sicuramente sta già lavorando nell’ombra, pronto a cercare nuovi cavalli: il futuro della Terra dei cachi si vede prima in Sicilia, la crisi voluta dal governatore Lombardo e la massiccia astensione dei siciliani probabilmente sono il segnale che qualcuno (per esempio, la mafia) comincia a prepararsi ad una nuova stagione, ad un berlusconismo senza Berlusconi.
In parte esiste già, col suo nuovo nemico (visto che è dura continuare a campare con l’anticomunismo): gli stranieri. E’ l’ultima barriera “ideologica” della Terra dei Cachi (e non solo), il razzismo da tinello, l’ultimo psicofarmaco prima della Grande Disintossicazione. Che non è proprio dietro l’angolo, e certo non avverrà per forza d’inerzia. I nostri leader continuano a giocare con nomi, simboli, alleanze. Da 15 anni fanno il gioco delle tre carte. Bisogna semplicemente inchiodare le appartenenze politiche ai contenuti, e i contenuti alla realtà.
Per la sinistra cosiddetta radicale: non dire “lotta al capitalismo”, dire, che so, “fuori i conti dell’ENI in Nigeria” o “commissariate MedioBanca”, o “fuori i titoli derivati dalle finanze pubbliche”, senza dover aspettare ogni volta Beppe Grillo o Milena Gabbanelli. Smettetela di chiamare tutto ciò che è nuovo “antipolitica”, magari perché c’è un sacco di gente che non sa quali erano gli approcci al marxismo di Stalin, Lenin e Trotzkij (e, giustamente, non gliene può fregare di meno).
Per i “riformisti”, termine gettonatissimo probabilmente perché praticamente privo di contenuti: smontate pezzo per pezzo il mostro culturale che avete creato, il duopolio Raiset, e regolate, partendo dal più grande, tutti i conflitti di interessi e di poteri della vostra partitocrazia malata. Questa è l’unica Grande Riforma di cui ha bisogno il paese.
Per Di Pietro & Co. (repeat): non è il numero dei voti che fa il leader politico o il partito (che non c’è). Non vi illudete di saperla lunga su tutto, perché la gente vi ha votato per la drammatica attualità della questione morale e per l’antiberlusconismo radicale: se l’ha capito Ilvo Diamanti, il sociologo di “Repubblica”, messo di fronte al fatto compiuto, lo dovete capire anche voi.
Chiusura, obbligata, dedicata alle donne: riprendete la battaglia femminista, cacciate i mercanti dal tempio, mandate in pensione D’Alema, Rutelli e le loro copie in gonnella (da Anna Finocchiaro a Barbara Palombelli), dimostrate che in un paese civile nessuno ha bisogno del “papi”.
Cesare Sangalli