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Goodbye, Ruby Tuesday


I Rolling Stones non c'entrano niente. E' solo per dare un titolo liberatorio all'ennesima storiella “bulli e pupe” di Berlusconi. Perché siamo convinti (vogliamo esserlo) che il caso di “Ruby”, la ragazza marocchina arruolata, forse poi scaricata, e infine “salvata” dal premier, sia l'ultimo della nutrita serie.
Mentre la Terra dei Cachi rotola dietro il Ruanda nella classifica mondiale della corruzione, tutti sghignazzano sul “bunga bunga” del premier-barzelletta, una barzelletta che non fa ridere per niente.
La sensazione prevalente è la voglia che si spenga la luce su questo governo. Che sarà l'ultimo presieduto da Silvio Berlusconi. Goodbye, Ruby Tuesday. A non rivederci mai più.
Con la caduta del governo Berlusconi si seppellirebbero, in un colpo solo, tutte le storie sui lodi, sui legittimi impedimenti, sui processi brevi, sulle immunità e impunità. E si comincerebbe a vedere, a lettere cubitali, la parola FINE sui tentativi di stravolgimento piduista della Costituzione, sul presidenzialismo, sul delirio finale di onnipotenza. Goodbye, Ruby Tuesday. A non rivederci mai più.
Se casca il primo mattone, si crea l'effetto domino. Se Berlusconi comincia a parlare da ex, e deve quindi ributtarsi in una campagna elettorale per convincere gli italiani ad affidargli per la quarta volta il Paese, a 17 anni dalla prima, la sua struttura di potere comincerà a perdere pezzi.
In realtà li sta già perdendo. Un'emorragia lenta e costante di voti e persone. La transumanza dei parlamentari dal PDL verso Futuro e libertà indica chiaramente che il tentativo di affossare Fini è fallito. Non è necessariamente né una questione di forza (Berlusconi resta per ora molto più forte di Fini), né di astuzia (Fini sembra averne di più, è un po' la rivincita del vecchio politico di professione sull'imprenditore), ma solo una parabola storica che è molto più grande di entrambi i soggetti, e che passa inevitabilmente per la fine politica di Berlusconi.
Il tempo è ormai l'ossessione di tutti. Per Berlusconi è una sfida impari: non solo per l'età, ma semplicemente perché non può riuscire a fare, ora che è più debole, quello che non ha fatto quando era più forte ( e solo 24 mesi fa sembrava davvero ad un passo dal potere assoluto). Fini lo sa benissimo, e vorrebbe portarlo allo sfinimento, come il torero con il toro, per poi assestare il colpo di grazia.
Sono molti gli spettatori di questo bruttissimo film, un B movie che può appassionare solo i cinici (di cui il paese abbonda) e quelli che hanno comunque campato bene in questi anni.
Dispiace dirlo, ma il discorso riguarda anche intellettuali come Eugenio Scalfari, che nel suo consueto commento domenicale, con l'aria distaccata del Solone di turno, disegna lo scenario del governo tecnico prossimo venturo, che dovrebbe addirittura concludere la legislatura, e fare un sacco di cose, tipo fronteggiare la crisi, cambiare la legge elettorale, riportare le corrette regole democratiche (magari, già che ci sono, risolvere anche il conflitto di interessi).
E' la vecchia tentazione della concezione elitaria e tecnocratica della politica, magari con un Draghi capo del governo, in un paese in cui, da un po' di anni, tutti si sentono “liberali” (prima si sentivano tutti “democratici”).
Non si rendono conto che il fallimento della Terra dei Cachi è anche il loro. E' soprattutto il loro. Troppo facile scaricare Berlusconi e il berlusconismo sul popolo, anzi sul “popolino”. Troppo comodo fare gli spiritosi come Beppe Severgnini, ridurre tutto o quasi a fenomeno di costume, spiegare (alla fine del 2010, bontà sua, non nel 1994) che gli italiani votano Berlusconi per questioni di pancia, e lanciare la strenna natalizia con un bella intervistina a “Vanity Fair”.
Vogliamo veramente imparare una cosa dal Caimano, citarne una “virtù” (vedi che ci tocca fare, con questi dirigenti)? Una sola, forse l'unica dote che davvero nessuno gli può contestare: l'audacia. Usiamo di proposito una parola fuori moda, che fa molto Ventennio, per non sporcarne una come “coraggio”, che suona davvero troppo nobile per Berlusconi.
Quando è iniziato tutto, nel gennaio del 1994, Berlusconi non aveva, né poteva avere, la certezza di vincere.
Allearsi con Lega e MSI, due partiti fin a quel momento guardati come i “paria” del Parlamento, due partiti di minoranza, non gli garantiva alcunché.
Ma ha vinto, anzi ha stravinto, facendo il bis, con “cappotto” alle europee e certificando un dogma su cui ha in qualche modo campato di rendita nei tanti anni successivi: l'Italia era un paese di destra, anzi di berlusconiani. Il che era anche vero, ma molto meno di quello che ci è stato fatto credere.
L'Italia del 2010 non è diventata certo un paese di sinistra, e non è nemmeno tutta antiberlusconiana: è semplicemente una nazione smarrita.
I giochi sono apertissimi, ma sembra che il Partito Democratico aspetti il momento in cui il PDL sia sceso ancora più in basso di quanto sono già scesi loro. Bersani & Co. sono talmente abituati a tirare a campare (questa è la verità) che non sanno cosa significa rischiare. Poi magari raccontano, anche a se stessi, che lo fanno per il bene del paese, e molti ci credono pure (a partire dallo stesso Bersani, che non sembra mai in malafede).
E' lo stesso concetto per cui oggi la TV di regime celebra un papa pusillanime come Pio XII, che al tempo dell'occupazione nazista, secondo una certa corrente di pensiero, avrebbe limitato il danno, scelto il male minore, optato per il compromesso necessario. All'epoca però, a quanto pare, non se ne accorse nessuno, soprattutto non se ne accorsero gli ebrei: a loro (ma anche al resto degli italiani) non fu risparmiato niente.
Come niente è stato risparmiato, per fortuna in tutt'altri termini, alla Terra dei Cachi degli ultimi vent'anni, nonostante le astuzie, le diplomazie, le strategie e perfino le vittorie (!) dei vari D'Alema, Veltroni, Prodi, Amato, Rutelli e così via.
Invece di restare appesi ai tatticismi di Fini e Casini, di Montezemolo, della Confindustria e del Vaticano, Bersani dovrebbe indire le benedette primarie, fissare lui, in autonomia, una data (il prima possibile), e, di conseguenza, un leader (Vendola, ma al limite lo stesso Bersani, semmai dovesse vincere), e poi i candidati collegio per collegio (facendo fare la “rottamazione” della nomenklatura agli elettori, e non a un paraculo come Matteo Renzi). Si comincerebbe così a far intravedere un nuovo governo all'Italia.
Se invece di Berlusconi uno vede Vendola; se invece di Tremonti uno vede Bersani; se al posto di Alfano metti De Magistris; al posto di Maroni, Di Pietro; al posto di Frattini, Laura Boldrini; al posto di Fitto, Sonia Alfano; al posto di Sacconi, Ignazio Marino; al posto di Bondi, Umberto Eco; al posto della Gelmini, Pippo Civati; al posto di Galan, Andrea Segré e così via, il sogno di un'Italia migliore diventerebbe progetto immediatamente realizzabile. Tutto il resto (legge elettorale, tempi tecnici, governi di transizione e politicismi vari) passerebbe in secondo piano, e si lascerebbero tutti gli altri a fare il gioco del cerino. Un gioco che a quel punto il centrodestra può anche cercare di prolungare sine die : il paese li guarderebbe ogni giorno con più disgusto, e li assocerebbe, ogni giorno di più, alla caduta del Caimano, alla fine di un'epoca. Com'è giusto che sia.
Cesare Sangalli