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Verrà un giorno….


Ora che c’è la data di scadenza (14 dicembre) su questo prodotto deteriorato (e deteriore) che è il governo Berlusconi, ci si può sbizzarrire con i titoli cinematografici.
Il trailer proposto da Fini e Bersani promette “Il giorno del giudizio”, l’Armageddon, la fine di quello che sarà comunque l’ultimo governo di Berlusconi (vedi puntate precedenti).
Ma con i soliti giochi di Palazzo, cioè con il mercato dei voti parlamentari, rischiamo di assistere invece al “Giorno della Marmotta”, quello in cui il protagonista è condannato da un sortilegio a rivivere continuamente la stessa giornata. Ci potremmo svegliare la mattina del 15 dicembre come se fosse ottobre, o agosto, o novembre: continua lo scontro fra Fini e Berlusconi, il governo è in crisi ma non molla, il PDL perde consensi, ma il PD non ne approfitta, e tutta la solita liturgia che va in onda più o meno da cinque mesi, mentre l’Italia continua tranquillamente ad andare a rotoli.
Intanto i giudici scrivono per Dell’Utri “Il giorno della civetta”, scenari di collaborazione mafiosa nelle oltre 600 pagine di motivazioni della sentenza di appello, a cui mancano solo le logiche conclusioni (cioè la nascita di Forza Italia concordata con la mafia nel 1992-93).
Speriamo che la Corte di Cassazione abbia il coraggio di riconoscere che due più due fa quattro, e non tre e mezzo. La formula giuridica, già sperimentata per Andreotti, per cui uno è riconosciuto sicuramente colpevole fino all’anno X, ma dopo invece le prove non bastano più, è roba da “Promessi Sposi”, un incrocio fra Azzeccagarbugli e don Abbondio. O fra “Il Gattopardo” e, appunto, “Il giorno della civetta”. Nel caso di Andreotti, il 1980 era l’anno che gli permetteva di far scattare la prescrizione. Nel caso di Dell’Utri, l’anno X è il 1992 , perché se il rapporto con la mafia continua anche dopo quella data (che è praticamente una certezza matematica, Travaglio lo ha spiegato bene, ma lo capirebbe anche un bambino: la mafia non sparisce proprio quando il potere si avvicina), allora ad essere coinvolto non è solo il Berlusconi imprenditore che si limita a pagare il pizzo (nella versione minimalista), ma anche il Berlusconi politico, che sfrutta a piene mani la marea di voti garantiti da Cosa Nostra.
Oltre al “Giorno della Civetta”, si assiste, a date alterne, al “Giorno dello Sciacallo” fra gli esponenti del centrodestra (ma qualcuno ci prova anche nel centrosinistra): i tanti “animali politici” della Terra dei cachi e i loro amici dello zoo televisivo sentono odore di sangue, e cominciano a mordersi fra loro. Lo scontro fra Mara Carfagna e Alessandra Mussolini ne è l’esempio lampante, sembra scritto da uno sceneggiatore di una commedia all’italiana, di quelle che fanno ridere ma lasciano l’amaro in bocca.
Però la sensazione generale del pubblico che assiste a tutto questo spettacolo tende più al “Giorno dei morti viventi”, un kolossal dell’horror, un incubo che dura da troppo tempo per essere vero.
Torniamo quindi al primo film, quello in onda il 14 dicembre, l’affascinante thriller allestito dal regista del brivido Giorgio Napolitano: in sole 24 ore, ci sarà il voto di ben tre mozioni di fiducia/sfiducia alla Camera e al Senato e la sentenza della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento. Wow.
Gli allibratori (cioè i cronisti politici della Terra dei Cachi) quotano come favorito il seguente scenario: il Caimano resta in sella per pochi voti (diciamo “Per un pugno di dollari”, tanto per non perdere il lato cinematografico), e la Corte Costituzionale boccia la legge che ha finora consentito a Berlusconi di non presentarsi davanti ai giudici.
Date le aspettative spasmodiche di metà paese, un fallimento delle due mozioni (Fini e Bersani) farebbe scattare una certa voglia di rivalsa sui due leader di opposizione. Almeno da un punto di vista emotivo, cioè, verrebbe da mandarli a cagare entrambi. Non riescono a controllare quattro deputati e vorrebbero governare il paese, magari insieme?
A quel punto, si passerebbe obbligatoriamente al film numero due, dal “giorno del giudizio” al più ridicolo “giorno della marmotta”. Cioè un continuo remake: con una maggioranza risicata, traballante, col divieto assoluto di assenze da Montecitorio, un agguato ad ogni votazione, praticamente la riedizione dell’ultimo governo Prodi (e un Mastella prima o poi si trova, la fine della legislatura Berlusconi premier se la può scordare). Sarebbero altri mesi di paralisi e veleni assortiti, si continuerebbe a scendere la china, a cercare sempre più disperatamente il fondo del pozzo dal quale poi cominciare, infine, a risalire.
Se invece, a Dio piacendo, Berlusconi cade, ecco che si torna ai due scenari tanto invocati, da una parte e dall’altra: o un altro governo o elezioni.
Quasi tutto l’establishment, di ogni orientamento politico, non vuole le elezioni. Per due motivi ufficiali, uno di principio (non si può votare con questa legge elettorale) e uno pratico (in un momento di crisi economica ci vuole stabilità). Ad uno sguardo attento, due clamorosi falsi. Sostenuti magari in buona fede da qualcuno, ma pur sempre due patacche.
La prima, quella della legge elettorale: l’argomento, pur valido in teoria, non basta a giustificare da solo un lungo supplemento di agonia politica. Si può votare benissimo anche con il Porcellum, che fa sicuramente schifo, ma è quello che il Parlamento ci ha regalato, con cui abbiamo già votato due volte, (senza che gli scandalizzati di oggi si stracciassero troppo le vesti) e che si potrebbe facilmente ritorcere contro quelli che l’hanno creato. Il problema delle preferenze si può bypassare, con le primarie. Per il resto, à la guerre comme à la guerre: se i partiti di opposizione non sono in grado di fare di meglio ( e fino a prova contraria non lo sono affatto), il popolo userà gli strumenti che ha a disposizione.
La seconda patacca, quella “pragmatica”: che cosa significa “stabilità” in un momento di paralisi politica e stagnazione economica? Se uno sta male, si muove, non sta fermo. La “stabilità”, questa stabilità, può andare bene a Wall Street, alle banche, ai parlamentari in attesa del vitalizio, o a chi in generale guadagna dallo status quo. Non certo alla maggioranza degli italiani. Non certo ai precari, agli operai, ai disoccupati, agli studenti, ai ricercatori, agli extracomunitari, alle donne, ai meridionali, alle associazioni, ai comuni, agli anziani, ai disabili, agli artisti, ai bambini. Non certo agli onesti, ai non raccomandati, ai non venduti, ai non compromessi, o collusi o fiancheggiatori. Non a chi ha dovuto subire Berlusconi da quasi vent’anni, in Tv, nella società, nelle tendenze, dappertutto. Non a chi sognava un paese migliore dopo Tangentopoli.
Vogliamo una svolta, la vogliamo profonda e la vogliamo adesso. Proprio come gli studenti che tirano le uova a Palazzo Madama, salgono sui tetti, e occupano i monumenti.
Un altro governo non è accettabile senza l’impegno solenne di tornare alle urne in data certa, il prima possibile, e far decidere al popolo della Terra dei cachi se vuole suicidarsi, riportando al governo Berlusconi e i suoi compari di merende della Lega (non accadà) o invece salvarsi decretandone la vera fine politica con il voto. In modo che non si dica mai più:“lo vogliono gli italiani”.
Appuntamento al 14 dicembre. Se Berlusconi ce la dovesse fare, è giusto chiedere le dimissioni di Bersani (meglio dirlo adesso). E in ogni caso, fissare subito un’altra data: quelle delle primarie di coalizione: ci siamo stufati di vedere Vendola vincere solo ai sondaggi di “Ballarò”, ogni martedì sera. Accettiamo ogni sfida.
Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare..
Cesare Sangalli