W l'Italia ... fra memoria e attualità ...

 


Stato di emergenza (l'Italia dopo l'Italia)


“L'inerzia lavora contro l'Italia”, scrive Luciano Caracciolo nell'introduzione all'ultimo numero di “Limes”, dedicato al Belpaese (da oggi in poi non useremo più il termine “Terra dei Cachi”, come atto di fiducia). E aggiunge: “La memoria non basta, se non parla al presente. Se non è la radice dell'Italia futura”. E non basta nemmeno quel senso di appartenenza che deriva dall' “attaccamento alla famiglia” e dal “patrimonio artistico”, le due risposte più gettonate nell'indagine Demos sul senso di essere italiani.
E allora? Mica possiamo chiedere al presidente della Repubblica di mandare i carabinieri a chiudere il Parlamento, come ha fatto Asor Rosa sul “Manifesto” (ma la sua provocazione è servita, eccome).
Né possiamo sperare in rivolte di piazza stile paesi arabi, e dobbiamo essere consapevoli che è molto meglio così, i caduti per la libertà l'Italia li ha già avuti. Non ci resta che votare, e fare le scelte giuste.
Adesso. Dodici milioni di italiani hanno la possibilità di farlo nelle amministrative, e tutti insieme possiamo, dobbiamo farlo ai referendum di giugno.
Le amministrative. Fin qui si è parlato abbastanza di Milano, poco di Napoli, pochissimo di tutte le altre realtà (fra cui Torino, Trieste, Cagliari, Bologna). A Milano la sfida è la più grande e appassionante di tutti i tempi.
Milano ha veramente segnato i tempi dell'Italia che abbiamo provato a raccontare in questa rubrica (iniziata nel 2005, vedi “ La Terra dei Cachi” in archivio). L'Italia dagli anni Ottanta in poi.
I sindaci socialisti Milano li aveva già avuti in precedenza. Ma negli anni Ottanta i socialisti si fecero craxiani; mentre i cattolici, nella città di Sant'Ambrogio, diventavano sempre più ciellini.
Il denominatore comune di questi soggetti era e resta il business; allora si sarebbe detto “la mentalità imprenditoriale”. Oggi è evidente che si trattava in gran parte di spregiudicatezza.
Un po' di idee, tanta ambizione, molti soldi, pochissimi scrupoli. L'inchiesta “Mani pulite”, che sembrava un terremoto, a Milano produsse come reazione politica solo il passaggio di un sindaco leghista, l'insignificante Formentini, prima che tutti quanti (socialisti, ciellini, leghisti) venissero riunificati da Berlusconi.
Da Albertini alla Moratti, si scriveva Milano ma si leggeva Arcore. Un sistema di potere talmente strutturato e collaudato, con Berlusconi al governo e Formigoni alla Regione Lombardia (e la Lega a supporto) da diventare regime. Politico, economico, culturale. Chi non ci stava, doveva sopravvivere in zone di nicchia. Un settimanale come “Diario” di Enrico Deaglio, per esempio (che guarda caso non aveva quasi pubblicità). O eminenti cardinali progressisti, come Martini prima e Tettamanzi poi. O come gli stessi giudici di Mani Pulite, attaccati costantemente, con determinazione feroce, appena erano passati i momenti di gloria.
Ha funzionato egregiamente, il regime, a Milano. Oltretutto, sventolando la bandiera dei successi calcistici del Milan, che hanno mantenuto viva la penosa illusione di essere città di spicco in Europa.
Ma oggi Milano non è modello di niente, come ricorda Ilvo Diamanti su “Repubblica”, nemmeno in Italia.
Scivolata in posizioni di ombra in tutte le classifiche, Milano dà l'idea di non cambiare mai, al di là di tutte le promesse e dei tanti cantieri aperti. Non basta rifare la stazione centrale, o allungare un po' le linee della Metropolitana: il senso di decadenza morale (ma anche culturale, sociale, e alla fine perfino economica) non si può nascondere a colpi di “happy hour” e di sfilate di moda.
L'episodio della casa (abusiva) in stile Batman del figlio di Letizia Moratti è l'esempio grottesco, perfetto, di questa parabola in discesa: metafora italiana di ultima generazione, cioè di de-generazione.
Superato anche il modello ultra - americano di Milano 2 e Milano 3, cioè la città separata da se stessa, in una privacy blindata e un po' deficiente (come ricorda Marco D'Eramo, Canale 5 venne pensata all'inizio come tv a circuito chiuso per i nuovi residenti), siamo arrivati al poligono di tiro casalingo, al garage fantascientifico da fumetto, roba da menti deviate, capricci da bambino viziato o da boss in stile “Scarface”.
Tutta la ricchezza esibita dai tempi della “Milano da bere”, senza più pudore, fa la fine che si merita: il falò delle vanità.
In termini crudi, si può dire che il paninaro di 25 anni fa è diventato un cocainomane, e l'ironia (presunta) delle ragazze fast-food di “Drive in” si fa squallida cronaca quotidiana nelle “olgettine”: la prostituzione diventa la continuazione della politica con altri mezzi.
Berlusconi sorrideva, 25 anni fa. Oggi ghigna. I milanesi lo hanno capito da un pezzo. Si tratta di vedere se ne vogliono prendere atto, e provare a voltare pagina, o se sono ancora prigionieri dell'incantesimo. Si potrebbe dire che è già un buon segnale che un candidato di sinistra come Pisapia, vincitore a sorpresa delle primarie, se la giochi fino in fondo con la Moratti , cosa improbabile fino a non molto tempo fa. Ma il fatto è che siamo allo stato di emergenza, e occorrono segnali forti, inequivocabili.
In questo senso, ha la sua importanza, fra le altre, la sfida di Cagliari. Anche qui, un candidato di Vendola, che ha vinto le primarie contro un ras di partito come Antonello Cabras (PD). Di più: mentre Pisapia non è proprio nuovissimo, Massimo Zedda invece ha solo 35 anni. E anche qui, dopo oltre mezzo secolo di giunte moderate (prima DC, poi di centrodestra), potrebbe vincere un candidato di sinistra. Dove sta l'importanza, al di là della novità rappresentata da Zedda? Sta nel fatto che soltanto due anni fa, nel febbraio 2009, con la clamorosa affermazione del commercialista di Berlusconi proprio in Sardegna, il premier seppelliva la leadership di Veltroni (per la serie: non tutto il male viene per nuocere) e sembrava avviato a regnare incontrastato per un altro decennio (vedi “Nel mezzo del cammin di nostra vita”).
Aleggiava lo spettro del “moriremo berlusconiani”, anche per noi che avevamo pronosticato il “Viale del tramonto” (vedi “Sunset Boulevard”) a Silvio-Norma Desmond all'indomani della vittoria alle politiche del 2008., sulla base di un po' di logica e di buon senso.
Oggi cominciano ad esserci le basi concrete di quel (rabbioso) ottimismo. Ma nel frattempo sono passati altri due anni, e quindi siamo scesi ancora un po' più giù. Per tornare in ambito milanese, siamo arrivati appunto alla casa di Batman, a Nicole Minetti che gestisce le “olgettine”. Ai manifestti che danno dei brigatisti ai magistrati. Alla ‘ndrangheta penetrata a fondo nel tessuto imprenditoriale lombardo e milanese. Può bastare, per un cambiamento, o qualcuno riesce a vedere dove si potrebbe arrivare fra quattro anni, se diamo ancora tempo e spazio alla Moratti, cioè ossigeno per l'agonia di Berlusconi?
Se i milanesi (ma anche i cagliaritani, i triestini e tutti gli altri) dovessero sciaguratamente decidere di rimanere nel regime, possiamo provare ad azionare l'ultimo freno a mano di questo treno verso il nulla che è l'Italia odierna, il 12 e 13 giugno, con i referendum. Che non sono solo un nuovo voto pro o contro Berlusconi, ma pro o contro l'establishment, che è quasi tutto per il nucleare, per la privatizzazione dell'acqua (in atto da anni, in maniera strisciante), per la giustizia accomodante con i potenti.
Non possiamo più aspettare: cominciamo a costruire “l'Italia dopo l'Italia”. Quell'idea di paese che in tanti avevamo in mente ai referendum del 1993 e che ci hanno scippato per quasi venti anni.


Cesare Sangalli