Il più grande spettacolo dopo lo spread
Cuccù, la bancarotta non c'è più. O forse sì. Cuccù, l'Europa c'è ancora e l'euro pure. O forse no. Di sicuro, non c'è più Minzolini al TG1, e questa almeno è una notizia sicura (quindi una vera notizia). Impossibile non continuare a essere ironici (vedi “Balle d'agosto”) sul pirotecnico spettacolo a cui stiamo assistendo, una sorta di insostenibile leggerezza dell'essere (e dell'etere), per dirla alla Milan Kundera.
Viaggiamo a un ritmo di un miracolo (virtuale) al giorno. Monti che salva l'Italia. Monti e Draghi che salvano l'Europa (lo ha detto Scalfari, mica Pinco Pallo). I politici che si salvano tutti, perché, com'è noto, è colpa mia o vostra se ci siamo ridotti così.
Noi che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Noi che dovevamo aprirci alla flessibilità, alla globalizzazione, dovevamo raccogliere la sfida e le opportunità che ci si offrivano. Noi che dovevamo essere pronti a cambiare città, lavoro, e perché no, famiglia, in perenne formazione. Noi così inclini all'antipolitica, al qualunquismo.
Ora invece siamo tutti sulla stessa barca, perché c'è la crisi. Ci siamo fermati (?) ad un millimetro dal baratro, e quindi tutti quelli che contano sono autorizzati a continuare a pontificare, a spiegarci cosa è necessario fare e pensare.
Cerchiamo di decodificare la fuffa, di orientarci in mezzo a tante parole. Partiamo dall'Europa, ché mai se n'è parlato così tanto, così male, così a vanvera. Un esempio per tutti: i discorsi sul ritorno alla lira, che, fateci caso, hanno unito persone e commentatori diversissimi per orientamento politico (grande, ripetiamo, è la confusione sotto il cielo).
Partiamo dall'unico fatto importante in sei mesi di chiacchiere: l'accordo del 9 dicembre rifiutato dal Regno Unito. Un buon angolo visuale da cui interpretare i fatti.
Da un punto di vista teorico, si è trattato indubbiamente di una sconfitta, un passo indietro, una crepa vistosa nella già fragile costruzione europea.
In realtà, si tratta di un discreto passo avanti. Non sempre i percorsi della storia sono lineari; a volte ci vuole un po' di conflitto, e qualche rottura per andare avanti. Vediamo perché.
Nella versione corrente, all'ultimo vertice europeo (presentato con toni drammatici come decisivo per le sorti dell'Europa, dell'euro, dell'economia mondiale, di quella del pianeta Marte e perfino dell'Italia), ha vinto la Germania , che fin qui era stata dipinta come la strega cattiva della favola (finanziaria, quindi sempre un po' virtuale).
L'obiezione di fondo che univa un po' tutti (destra, sinistra e centro) era del tipo: la Germania è paurosa e meschina, tesa a salvare solo le banche tedesche piene di titoli del debito pubblico della Grecia, e a non rischiare un euro per salvare gli altri stati (e quindi, nel medio periodo, se stessa, per tutte le esportazioni tedesche nell'eurozona); Angela Merkel, dicevano, è preoccupata solo di non perdere il consenso elettorale, l'Europa invece ha bisogno di pensare in grande, ci vorrebbe una specie di New Deal per evitare la Grande Recessione in arrivo (per tutti).
La critica era fondata, indubbiamente. Ma è fondata anche la difesa: la Germania , nel decennio (ventennio) di follia globalizzata, è riuscita a preservare il suo modello sociale, il suo grande Welfare (che vale per 80 milioni di persone - mica parliamo dei quattro gatti scandinavi - con una delle più alte percentuali di stranieri immigrati), quando tutti la dipingevano come vecchia, ripiegata su un modello perdente, nell'economia aperta della globalizzazione. Bassa crescita, disoccupazione in aumento, conti pubblici non in linea con il rigore fissato a Maastricht.
Il modello era l'Inghilterra, e da ultimo l'Irlanda, la tigre celtica: economie centrate sui servizi e non sulla produzione, aperte ai capitali stranieri, molto finanziarizzate (Londra è di gran lunga la capitale europea della finanza), ergo molto moderne, col futuro in tasca.
Un autentico dominio culturale, una sorta di dittatura del pensiero, dimostrata dal fatto che usiamo tutti l'inglese del computer, l'inglese della TV, l'inglese del marketing, l'inglese dell'economia.
Altro che Nanni Moretti che si scandalizzava perché la giovane giornalista parlava di “trend negativo” (il famoso: “Chi parla male, pensa male: le parole sono importanti”). Qui da qualche mese ci stavano convincendo che il nostro destino era deciso dello “ spread ”, cioè dalle quotazioni degli allibratori (li vogliamo chiamare bookmakers , che ci è più familiare?) della finanza mondiale, che scommettono sulle sorti dei paesi, e alla fine scommettono sulle scommesse (l'essenza della finanza è tutta qui, lo diceva Keynes, non noi che siamo piuttosto ignoranti).
Le nazioni si vedono anche dalle piccole cose quotidiane. In nessun altro paese europeo si può scommettere su tante cose come in Inghilterra . E in nessun paese europeo si possono assicurare tante cose come in Germania.
Si potrebbe dire: rischio contro eccesso di prudenza. Il coraggio dell'impresa spregiudicata contro le certezze da impiegati. Il proiettarsi nel futuro piuttosto che essere ancorati alle sicurezze del passato. E così ci è stato detto, in tutte le salse e in tutte le lingue.
Ma si può anche dire: solidità al posto delle bolle, economia reale più che economia virtuale (lo ha spiegato bene Guido Viale sul “Manifesto”: se tutti i capitali in giro piovessero sulla Terra, non troverebbero abbastanza beni e servizi da comprare). Si può dire Stato molto presente, egoismi privati ben controllati. Si può anche dire, ed è ciò che ci interessa di più: società egualitaria contro società classista. Schematizzando, ovviamente.
L'Europa era in mezzo a questi due modelli. Schematizzando, ovviamente. Noi abbiamo sempre tifato Germania. I famosi mercati un po' meno.
Ma le formiche tedesche hanno avuto la meglio sulle cicale inglesi. E ora possono fare i primi della classe, anche perché in vent'anni hanno saputo integrare un'altra Germania, quella vissuta nel pianeta rosso del comunismo. Difficile citare un'altra esperienza tanto brillante, alla fine, di integrazione fra ricchi e poveri.
Basta pensare a Nord e Sud Italia.
Insomma, la Gemania certi valori di solidarietà li ha dimostrati in concreto, sul campo, e senza squilli di tromba. In quanti sanno ad esempio che la Germania da sola ha ospitato più profughi della ex Jugoslavia che tutti gli altri paesi dell'UE messi insieme? In quanti sanno che la Germania ha già adottato la legge sul diritto di cittadinanza per chi nasce nel paese, cosa che l'Italia comincia a discutere adesso ( faremo prima noi a raccogliere le firme della legge di iniziativa popolare che il Parlamento ad approvarne una di sua iniziativa)?
E' normale, anche se criticabile da molti punti di vista, che la nazione più importante del continente sia restia ad aiutare i paesi che hanno gestito malissimo i loro conti (rubando a quattro mani, fra l'altro). I tedeschi sono abituati da anni a guardare l'Italia, la Grecia , il Portogallo e la Spagna come i paesi del “Club Med”, dove si vive alla grande sul debito pubblico (e proprio tutti i torti, ripetiamo, non ce li hanno). E non è la massa dei tedeschi che ha speculato sui titoli di questi debiti, ma le banche. E' così strano che la Merkel sia preoccupata del giudizio popolare? Fa parte anche questo della democrazia.
Del resto, l'Europa è nata prima nelle menti degli statisti (la famosa triade De Gasperi – Adenauer – Schumann) che nel comune sentire dei popoli.
La Storia ci sta dicendo a gran voce che è arrivato il momento di fare il contrario: i popoli devono spingere i loro governi ad andare avanti nell'integrazione politica.
In questo senso, l'accordo voluto dai tedeschi, con la sponda francese e quella italiana, è solo un timido segnale dell'Europa che verrà, e che sarà assai più grande di questi leader, e soprattutto molto più grande degli ottusi tecnocrati della Banca Centrale Europea, gli ultimi alfieri del vecchio mondo, il mondo che credeva alle magnifiche sorti e progressive (verso la distruzione) del capitalismo.
E torniamo all' Italia. Stiamo davvero assistendo al “più grande spettacolo dopo lo spread”.
Berlusconi sembra non sia mai esistito. PD e PDL si fanno i salamelecchi nei talk show, è tutto un Grande Centro, tutto un senso di responsabilità benpensante, moderato e un po' cattolico. I l primo pippone che capita si sente autorizzato ogni sera a parlare di economia internazionale e dare la ricetta buona per il paziente malato, l'Italia. Sembrano appena arrivati da Stoccolma o da New York, come se avessero passato gli ultimi vent'anni all'estero. C'è molto di surreale, di felliniano in questo tramonto, in questa caduta del nostro ancien régime.
Intanto, primo strappo nel tendone del circo berlusconiano- nazionalpopolare, saltano i Minzolini. Quando toccherà a Bruno Vespa, con la solenne cancellazione di “Porta a porta” ( nunca màs ), la rivoluzione sarà arrivata a buon punto. Buon 2012 a tutti.
Cesare Sangalli