Questo strano 2013 si chiude all'insegna del populismo. E' la moda di stagione. Dopo un'epoca in cui tutti si definivano “democratici” e dopo quella che vedeva “liberali”dappertutto, adesso, dopo i primi “outing” (“Ebbene sì, sono un populista”) dobbiamo confrontarci con questa nuova (si fa per dire), dilagante tendenza.
Al di là del doveroso tocco di sarcasmo, il populismo è una cosa seria, una categoria politica cha ha la sua legittimità. Lo ha spiegato bene, qualche anno fa, Marco Tarchi, bravo intellettuale di destra.
Partendo addirittura dal motto della Rivoluzione Francese, “ liberté , egalité , fraternité ”, Tarchi sosteneva che il populismo in qualche modo esprimeva la fraternité .
Se la libertà era stata la massima preoccupazione dei liberali, e l'uguaglianza dei democratici, il populismo cercava di rispondere all'esigenza di “fraternità”, partendo da una certezza di base: che i governati siano, per principio, migliori dei governanti, che il popolo sia migliore dei “politici”.
Il popolo è la sede primaria della virtù, il potere politico è la sede naturale della corruzione.
Il populismo, attenzione, o è in buona fede, o non è, spiega Marco Tarchi. Non va perciò confuso con la demagogia, che è l'uso strumentale del popolo-massa per inseguire i propri fini, privati o politici che siano.
Non è nemmeno il caso di tirare in ballo i “forconi”, che sono una pura espressione di rabbia, per quanto largamente condivisa, a quanto ci dice il sociologo Diamanti.
Ci torneremo più avanti.
Il populismo, per definizione, si nutre di carisma, e tende quindi ad identificarsi in un leader. Gli esempi sono numerosi. Il più classico è indubbiamente quello di Juan Domingo Peròn nell'Argentina degli anni Quaranta e Cinquanta. Ancora oggi in Argentina non si sa bene se il peronismo sia da considerare un fenomeno di destra o di sinistra.
Ai tempi nostri, l'esempio più fulgido di populismo è quello di Chavez in Venezuela; ma Chavez si richiamava esplicitamente al socialismo, Peròn era un ammiratore di Mussolini e aveva accolto a braccia aperte i gerarchi nazisti nel suo paese. Tarchi faceva anche altri esempi, citando perfino il socialista Papandreu (il vecchio Papandreu) in Grecia: si può dire che non c'è populismo senza personalizzazione della politica.
In Italia, il convento passa tre leader carismatici: Berlusconi, Grillo e Renzi, in ordine di apparizione. In senso inverso, si potrebbe titolare “Il buono, il brutto e il cattivo”, e sono tanti, come abbiamo già scritto, a prevedere per il 2014 il duello finale fra i tre (che nel film, fra l'altro, si svolge in un cimitero).
In realtà, dei tre, solo Grillo – chiamiamolo “il Brutto” - si potrebbe definire “leader populista”, e già la definizione farebbe acqua.
Berlusconi – “il Cattivo” – è il classico demagogo senza scrupoli, lo hanno capito almeno due italiani su tre.
Rimane Renzi, “il Buono”. La categoria per lui esiste da tempo: il sindaco fiorentino non è populista, è semplicemente “pop”.
In questa rubrica il termine è stato usato per descrivere un passaggio di Berlusconi, ai tempi del divorzio da Veronica Lario (vedi “Avanti Pop”). Ma il precedente politico è così evidente da essere imbarazzante: Walter Veltroni. Certo, non aveva gli anni di Renzi, né la sua presenza scenica, né la sagacia della risposta pronta e della battuta, ma per tutto il resto sembra proprio un “déjà vu”: la retorica vuota della modernità, la disinvoltura nei riferimenti culturali e politici, la voglia di maggioritario, l'approccio che guarda ai “moderati” e non si sofferma su impegnativi, fastidiosi giudizi riguardo al berlusconismo. Più democristiani che democratici, sono il meno “divisivi” possibile. Veltroni sognava forse un ritorno all'egemonia culturale, magari in versione anni Sessanta. Renzi pensa, con più ragioni, di cavalcare la spinta generazionale. Ma insomma, scordiamoci di aver trovato il leader carismatico che ci porta fuori dalla crisi solo per il fatto di essere lì (spiegatelo a Galli Della Loggia e molti altri).
Però il film politico del 2014 potrebbe anche intitolarsi “Un genio, due compari e un pollo” (che era un western con Terence Hill degli anni Settanta). Perché c'è un quarto invitato al tavolo da gioco, che è Enrico Letta, detto il premier-nipote.
Restano da stabilire i ruoli. E' chiaro che ognuno pensa di saperla più lunga degli altri tre. Ma la logica dice che il pollo alla fine probabilmente sarà Berlusconi, se non altro perché il tempo lavora contro di lui. Letta, per gli appassionati di Machiavelli, è sicuramente la testa sopraffina che alla fine la spunterà alla democristiana, vivacchiando sul paese del “tutto sommato”, del “meno peggio” , il paese cattolico che non muore mai, che tutto perdona e tutto rimuove. Ma per noi invece è e sarà solo un gregario, e quindi lui rappresenta sicuramente uno dei due “compari”. E potrebbe essere anche l'unico.
Nel senso che la “genialata” di Renzi e Grillo, verrebbe da dire la “mandrakata” (perché siamo ancora a livelli cinematografici) sarebbe quella di far cadere il governo Letta senza andare al voto. Cioè provare in qualche modo l'altra versione dell'alleanza “ad escludere”fra due dei tre poli: invece che PD e PDL contro M5S, Renzi con Grillo contro le destre (Alfano, Berlusconi, Lega, ex AN) e contro gli sponsor delle larghe intese (Napolitano, Letta zio e nipote, Monti, Casini, Confindustria prima di Squinzi e vecchia Curia vaticana).
L'ipotesi non è facilmente realizzabile, perché Grillo dovrebbe fare un passo avanti politico che è quasi un salto mortale; mentre Renzi dovrebbe fare un passo indietro rispetto alla sua grande ambizione.
Ma le circostanze potrebbero spingerli in quella direzione. E qui torniamo ai forconi,e riparliamo un po' di Europa. Perché il movimento dei forconi e il populismo diffuso che ha accompagnato quella esplosione di rabbia sono solo una gigantesca rimozione politica ed etica..
“Tutti a casa” e “meno tasse”: ammazza, che idee folgoranti. Sparito un ventennio, anzi un trentennio, vissuto all'insegna del privato, dell'individualismo anarcoide, del “chi cazzo se ne frega”, detto brutalmente.
Era l'”Italia del fare”, che giudicava dall'alto verso il basso l'istruzione, la cultura, il senso di comunità, il senso dello Stato.
Ora che si vede il risultato di cotanto “ ghe pensi mi ”, non ci si può limitare alla rabbia contro tutto e tutti.
Anche una rivolta ha bisogno di un senso dello Stato, insegnava Gramsci, altrimenti diventa semplice (e sterile) ribellismo. E, memore dell'esperienza fascista, l'intellettuale sardo ammoniva che ci sono sempre in agguato le élites pronte a indirizzare la rabbia popolare verso esiti reazionari. Per questo, il vero appuntamento politico va ben oltre la sfida a tre fra Renzi, Grillo e Berlusconi, ed è rappresentato dalle elezioni europee di maggio. Un bivio cruciale.
O l'Europa farà un deciso passo avanti in direzione dell'integrazione politica, oppure, come il leader greco della sinistra Alexis Tsipras va ripetendo da mesi, le cleptocrazie al potere negli ultimi venti anni, insieme con le élites finanziarie loro alleate, preferiranno sfasciare il progetto dei padri fondatori pur di salvarsi in qualche modo. Chi ha più filo da tessere, tesserà. Buon 2014 a tutti.
Cesare Sangalli