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Pubblicato su "Mondo e Missioni" maggio 1999

Viaggio nella diocesi di mons.Ruiz assediata dai potenti del “pensiero unico”

Chiapas, quando la neutralità è impossibile

Il papa arriva in Messico mentre continua la guerra sporca contro gli indios (zapatisti e non) e il governo del presidente Zedillo sta isolando la comunità cattolica chiapaneca. Obiettivo: “normalizzare” il Messico degli emarginati con l'appoggio massiccio dei mass media


“Cristo è venuto per i poveri, non per i milionari”. Una verità semplice, che Pablo, contadino di Amparo Aguatinta, attribuisce alla Chiesa cattolica, “che non ci racconta bugie”. La comunità indigena di questo paesino sperduto nella selva Lacandona (il cuore tropicale del Chiapas) ha vissuto sulla sua pelle tutta l'ipocrisia del linguaggio ufficiale, delle versioni di un giornalismo prostituito, della solidarietà ambigua delle organizzazioni internazionali, così poco disposte alla denuncia che finiscono per essere un “placebo” funzionale al mantenimento dello status quo.
Un caso emblematico, quello di Amparo Agua Tinta, una delle tante comunità autonome che si erano formate in Chiapas in seguito all'insurrezione zapatista del 1994. Un'esperienza di vera democrazia, che rispettava al massimo quella che si potrebbe definire l' “ossessione comunitaria” degli indios: si discute tutto con tutti, perché il primo strumento democratico è l'ascolto. “Era incredibile lo zelo con cui i rappresentanti eletti nel Consiglio municipale cercavano di seguire le leggi del codice” afferma Luisa Cremonesi, dell'Alto Commissario per i Rifugiati di Comitan. Un'autentica riappropriazione civile delle istituzioni, del territorio, della legalità vera. In altre parole un esempio, imitabile, imitato, in potenziale espansione geometrica. Pericoloso, molto più dell'Esercito di Liberazione Nazionale Zapatista del subcomandante Marcos, perché dimostra chiaramente che esiste un'alternativa al modello dominante, al Messico costruito intorno al Partido Revolucionario Istitucional (PRI), al potere dal 1929.

Il Chiapas era (e resta) un suo feudo elettorale, un'importante riserva di voti che serve da foglia di fico per quella che è tutto meno che una vera democrazia. Le municipalità autonome (o “rebeldes”, secondo il linguaggio ufficiale), rifiutando le regole di un gioco falsato, hanno squarciato il velo nero dell'ipocrisia, un velo che il governo messicano cerca di calare di nuovo su tutta la regione, trovando a volte complicità inaspettate. Nel caso di Amparo Agua Tinta, quella dell'Alto Commissario per i rifugiati, presente da queste parti per le migliaia di guatemaltechi fuggiti dalla guerra civile nel loro paese. Uno di loro era stato arrestato dalle autorità del municipio autonomo per una banale questione di disboscamento in una zona vietata. La notizia è pervenuta all'agenzia governativa per i rifugiati Comar e all'Acnur. Il capo dell'Acnur in Messico, Michel Gabaudan, francese, scavalcando la sezione regionale di Comitan, ha espresso la sua preoccupazione per il rifugiato chiedendo l'intervento del governo. Risultato: una massiccia operazione di esercito e polizia, che ha portato all'arresto di tutti i consiglieri comunali e altri esponenti della comunità indigena, con percosse, minacce, intimidazioni (anche su donne e bambini). L'ordine, cioè l'oppressione, era stato ristabilito. Michel Gabaudan, incalzato dalle critiche, ha parlato di “penosa coincidenza”, liquidando poi l'intera faccenda come “una tempesta in un bicchier d'acqua”.

La versione ufficiale è che ad Amparo Agua Tinta, come in molti altri villaggi, era stata ripristinata la “legalità istituzionale”. La stessa “legalità istituzionale” che ha portato alla clamorosa espulsione del gruppo di osservatori italiani, colpevoli di essere venuti a portare una solidarietà internazionale di cui il Chiapas (e tutto il Messico) ha bisogno come dell'ossigeno.

“Non abbiamo mai visto un esponente dell'opposizione (il Partido Revolucionario Democratico, PRD: tutti rivoluzionari in uno dei paesi più conservatori del mondo N.d.A.) qui ad Amparo. Non vediamo nemmeno un sacerdote da più di un anno”, si lamentano i contadini. La messe è tanta e gli operai sono pochi. E deboli. E assediati. L'aspetto più triste è che perfino molti indios (grazie ad aiuti economici e a piccoli privilegi) stanno dalla parte del PRI. “Sono stati los priistas ad indicare le case degli esponenti della comunità indigena all'esercito. Sono i loro manovali, fanno il lavoro sporco, contando sulla totale impunità”, affermano alcune donne di Amparo. Questa è la legalità messicana, questa è la legge dell'ordine costituito, incapace di trovare i mandanti del massacro di Acteal, incapace di individuare i responsabili del riciclaggio di denaro sporco (quello del narcotraffico) legati all'ex presidente Carlos Salinas de Gortari, fuggito a Dublino. Una legalità che non ammette la presenza di Amnesty International, che ha segnalato 56 casi di violazione dei diritti umani in Messico lo scorso anno.

“Nessun sistema al mondo sa gestire la dissidenza e digerire gli oppositori come quello messicano - sostiene Régis Debray, intellettuale francese su “Le Monde”- se il Partito comunista sovietico avesse inviato qualcuno in missione informativa presso il PRI, sicuramente l'Unione sovietica sarebbe ancora in piedi”.

Uno dei segreti della longevità del regime sta nella sua alleanza ferrea con la classe imprenditoriale, soprattutto nel mondo dei mass media. Il Messico, insieme all'Italia, è l'unico paese al mondo dove un gruppo privato possiede tre canali nazionali TV (e una quarantina di emittenti radiofoniche): il mostro si chiama Televisa ed è nato con la presenza esplicita del partito di governo. “Fu il presidente Miguel Alemàn Valdés a dare le concessioni TV negli anni Cinquanta - spiega Jesus Ramirez, 30 anni, giornalista freelance che lavora per la Reuters e per “La Jornada”, uno dei pochi quotidiani indipendenti - suo figlio Miguel Aleman Velasco è senatore del PRI e siede nel consiglio di amministrazione di Televisa”. Nello scandalo del riciclaggio del denaro dei narcos che sta travolgendo l'ex presidente Salinas de Gortari, il padre delle riforme ultraliberiste degli anni Ottanta, sono coinvolti i più grandi imprenditori messicani, fra cui il proprietario dell'altra televisione nazionale (“Televisiòn Azteca”) Ricardo Salinas Pliegu e il magnate della telefonia cellulare Carlos Peralta.

La “modernizzazione” del Messico ha significato l'accettazione totale del modello statunitense, sancito dall'ingresso del Messico nel libero mercato nordamericano (il “NAFTA” con Stati Uniti e Canada) il 1° gennaio 1994. L'accordo era fortemente voluto dal “democratico” Clinton, che oggi appoggia in tutto e per tutto il presidente Ernesto Zedillo, e consente alla CIA di armare e addestrare il suo esercito. Nell'euforia di sentirsi finalmente un paese sviluppato, il governo priista ha abbandonato anche il laicismo estremo della Costituzione del 1917 per garantirsi l'appoggio della Chiesa cattolica. Ma a guastare la festa del capitalismo vincente è arrivata la voce degli esclusi di sempre, stanchi dell'ingiustizia ormai normalizzata, occultata nell'informazione e nelle coscienze.

“Il Chiapas è lo stato più povero del Messico - spiega padre Javier Inda, 62 anni, parroco a Comitàn - soprattutto nella zona della nostra diocesi , San Cristobal de las Casas. Il Chiapas non ha vissuto la riforma agraria come il resto del Messico, è rimasto tagliato fuori dalla rivoluzione del 1910: si stabilì un'alleanza fra i proprietari terrieri e il governo rivoluzionario che ha mantenuto lo stato di arretratezza fino ai nostri giorni. E se già è grande la differenza con il resto del Messico (a parte gli stati di Guerrero e Oaxaca), è ancora più grande la differenza fra la popolazione ricca delle città e la popolazione povera delle campagne”.

Padre Javier parla in modo gentile, quasi dimesso, da vecchio parroco di campagna. Ma i concetti che esprime non ammettono ambiguità, non concepiscono una neutralità impossibile, un'equidistanza che sarebbe scandalosa. Sa perfettamente che il movimento degli indios è molto più ampio del fronte zapatista, che il vero conflitto non è quello fra esercito e guerriglia, ma quello fra i privilegiati e gli esclusi. La diocesi di mons. Samuel Ruiz ha fatto la sua scelta, ed è compatta nel portarla avanti. Questo non significa fare politica nel senso stretto della parola. Significa semplicemente, come dice padre Javier, “non essere complici di questo sistema”. Una sfida enorme, perché il sistema è avvolgente, ti invita a visitare le spiagge di Cancùn e le piramidi azteche, ad apprezzare l'efficienza dei trasporti e la qualità dei servizi, senza porsi troppe domande. In Messico un turista è molto più libero di un giornalista. Il turista chiede solo di stare bene, e il mondo dei consumi sembra davvero un mondo perfetto. Si sta creando l'apartheid della carta di credito: i poveri non devono avere né voce né visibilità.

“La democrazia non sopporta molta miseria - sostiene Carlos Fuentes, uno dei maggiori scrittori messicani, in un'intervista al quotidiano “La Jornada” - la vera riforma economica, che significherebbe l'accesso a un certo benessere per la maggior parte dei messicani, non si potrà MAI realizzare senza le democrazia”. Il problema è che nella versione americana (quella dominante a tutte le latitudini) la democrazia c'è già, non bisogna ascoltare le calunnie dei preti e dei vescovi “comunisti”. E' questo il Messico che il Papa si appresta a visitare (ha appena visitato). E se le cose restano così, le parole del poeta José Santos Chocano, scritte nel secolo scorso, suoneranno una volta di più come una triste profezia: “Povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti”.

Cesare Sangalli