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Pubblicato su "Galatea" luglio 2000

Un paese dimenticato nel cuore dell'Europa
Slovacchia, l'età dell'innocenza

Indipendente da sette anni, la più giovane nazione europea vive tranquillamente lontano dai riflettori dei media. Dipinti come filonazisti prima e comunisti di ferro dopo, gli slovacchi si sono lasciati alle spalle gli orrori del Novecento e oggi vivono senza molte angosce “occidentali”

A volte la normalità stupisce. Arrivare in treno a Bratislava da Vienna è più banale che prendere un Eurostar da Bologna a Milano. Sono solo sessanta chilometri, poche fermate, poca gente, giusto un rapido controllo dei passaporti a ricordare che c'è una frontiera. Eppure questa era la cortina di ferro fino al 1989, e con ben altre emozioni migliaia di giovani venivano per la prima volta a vedere “il mondo libero” (un'espressione ricorrente da queste parti) facendo il tragitto opposto. L'immaginario è spesso più colorato della realtà: lo stupore nel vedere il Paese dei Balocchi veniva poi temperato da una certa delusione.
Così, consapevolmente o meno, uno si aspetta di trovare il mondo prosaico del post - comunismo, magari camuffato dal greve intonaco del capitalismo dominante. E in parte, ovviamente, è proprio così. Ma c'è fin da subito una piacevole sensazione di familiarità, una serenità diffusa, aiutata forse dall'estate che qui sembra meno afosa e meno agitata.
Dopo pochi giorni, o dopo poche ore, si scopre che Bratislava è una bella città, anche se ignorata, visto che tutti vanno a Praga e quasi nessuno passa dalla capitale della Slovacchia.
Praga e Bratislava, la Repubblica ceca e quella slovacca. Fino al 31 dicembre 1992 esisteva solo la Cecoslovacchia. E in questa parola, in questo concetto, c'era già una storia e forse un destino: molta Cekia, poca Slovacchia. Non a caso una delle dispute più accanite prima della definitiva separazione riguardava il famoso (da queste parti) “trattino” di distinzione fra l'aggettivo “ceco” e “slovacco” riferito allo stato rinato dalle ceneri del comunismo. Una questione che può far sorridere, ma che nasconde invece la legittima voglia di “esserci” (qualcuno direbbe il complesso di inferiorità) di un popolo al quale era stata negata l'identità per troppo tempo.
Per l'esattezza, fino al 1918, anno della fine della Prima Guerra Mondiale e dell'Impero asburgico, detto anche austro-ungarico. Ancora una volta il trattino, a separare due realtà. Da una parte la cultura mitteleuropea, di lingua tedesca, impregnata di efficienza e buone maniere e audace nelle avanguardie intellettuali (da Freud a Kafka), entrate nel “secolo americano” a passo di valzer. Dall'altra l'arretrato feudalesimo agrario ungherese, la Storia scandita dalle campane dell'immutabile Chiesa cattolica.
Gli slovacchi sono da questa parte del “trattino”. Ufficialmente non esistono, sono semplicemente “gli ungheresi di montagna”, la loro lingua, una parlata slava dei bassi Tatra codificata nell'Ottocento come idioma nazionale, era vietata, le università chiuse, l'accesso all'istruzione ridottissimo. A Bratislava, già collegata a Vienna con uno dei primi treni a elettricità, si era costretti a parlare una lingua, l'ungherese, che non ha nessuna parentela in Europa se non con il finlandese.
Contadini e montanari, cattolici bigotti e poveri. Questo erano gli slovacchi, nella realtà e nella percezione comune. In pratica, i fratelli scemi dei colti e raffinati boemi. Perché la regione di Praga era una delle aree più sviluppate dell'Impero di Francesco Giuseppe, con la sua borghesia cosmopolita e tendenzialmente laica, la stessa che si incontrava a Vienna, Trieste, Zagabria.
I cechi e gli slovacchi, comunque, lottano insieme per l'indipendenza, in una guerra nella guerra con passaggi perlopiù sconosciuti (chi ha mai saputo che una “ Legione Cecoslovacca” ha combattuto a fianco degli italiani nel 1917 ?). Gli eroi dell'indipendenza, i padri della patria sono almeno due, Masaryk, ceco, e Stefanyk, slovacco. Ma Stefanyk muore a bordo di un aereo italiano nel '19, e alla fine la Storia si ricorda solo di Masaryk.
Nella sincera solidarietà dei cechi nei confronti degli slovacchi c'è sempre l'ombra del paternalismo, che viene quasi sempre accettato dai secondi, come un fratello più piccolo accetta la tutela del più grande. Masaryk manda un esercito di docenti a insegnare le nuove lingue nazionali, ceco e slovacco, molto simili fra loro. Si cerca di portare istruzione, di colmare il gap: ma il centro del potere resta sempre Praga.
Per venti anni, l'esperimento della nazione cecoslovacca funziona egregiamente. Mentre il continente si abbandona progressivamente alla follia totalitaria, la Cecoslovacchia è un'oasi di pace e democrazia, nel vero spirito “occidentale”. Eppure, quando Hitler chiede e ottiene a Monaco il via libera per l'invasione, la Cecoslovacchia viene liquidata dal primo ministro britannico Chamberlain come “un paese lontano di cui non sappiamo nulla”. Allora (1938) si disse che non si poteva “morire per Praga”: ma nella notte più buia dell'umanità moderna, quasi nessuno può dirsi innocente.
Non lo furono gli slovacchi, che per salvarsi dall'occupazione tedesca e dalla guerra imminente, accettarono l'infamia del collaborazionismo, la vergogna dell'alleanza con Hitler di uno tanti governi fantoccio, che a Bratislava si identificò in un prete cattolico con aspirazioni politiche: monsignor Josef Tiso, che proclamò l'indipendenza della Slovacchia nel 1939.
A questo punto, sarebbe fin troppo facile fare il paragone fra la Slovacchia alleata dei nazisti e la Croazia di Ante Pavelic e dei suoi sanguinari ustascia: due stati slavi e cattolici, in ottimi rapporti con l'Italia di Mussolini, che trovano un'indipendenza grottesca, specchio dell'egemonia tedesca. Ma le cose non stanno così: in Slovacchia non è mai esistito un fenomeno paragonabile a quello del nazionalismo croato, né prima né dopo la seconda Guerra Mondiale. La figura di Josef Tiso, che sarà impiccato dai comunisti nel 1947, nella percezione comune e in quella storica , è vista soprattutto come simbolo di ambiguità, di compromesso, di “male minore”. Tiso sembrerebbe più vicino al vescovo croato Stepinac o allo stesso pontefice Pio XII (anche se, grazie a Dio, nessuno ha proposto la sua beatificazione) che non al maresciallo Pétain o al norvegese Quisling.
“Nulla era normale a quei tempi”, “Tiso non aveva molte altre opzioni”, si dice oggi a Bratislava: nessuno difende quell'esperienza, ma, soprattutto per le nuove generazioni, quel passato è abbastanza lontano da poterne parlare senza grande imbarazzo. Certo, in Slovacchia il “male minore” ha significato la consegna di 70mila ebrei, arrestati dalla polizia collaborazionista (la “Linka Garda”), con beneficio della popolazione locale, proprio come in Ungheria, Polonia, Austria.
Il mostro nazista ha avuto una culla cattolica, e questo paese così ordinato e pulito, così tranquillo, non ha costituito un'eccezione. Ma al contrario della vicina Austria, per esempio, la Slovacchia può commemorare oggi, ogni 29 agosto, la rivolta nazionale contro i nazisti del 1944, una delle più importanti del continente.
La Slovacchia ebbe anche il dubbio privilegio di conoscere la liberazione (aprile 1945) da parte dell'Armata Rossa, mentre in Boemia arrivavano gli americani. Il vecchio presidente Benes aveva già dichiarato l'indipendenza della Cecoslovacchia da Kosice, cioè dall'estremo lembo orientale del paese, a pochi chilometri dall'Ucraina. Nella logica di Yalta, della spartizione dell'Europa, la Cecoslovacchia era in bilico fra Stati Uniti e Unione Sovietica, fra due mondi, due sistemi.
“Ma il comunismo per noi è arrivato da Ovest”, sostiene Michal Zoldy, 47 anni, responsabile delle relazioni internazionali del Movimento per la Slovacchia democratica. Sembrerebbe una battuta, ma non lo è. “Alle elezioni del 1946, i comunisti vinsero a Praga, in Boemia e Moravia, non qui” spiega Zoldy . La Slovacchia era troppo cattolica e tradizionalista per buttarsi nelle braccia del “sol dell'avvenire”, mentre “quello che a Praga nel 1948 si annunciava come assolutamente moderno era la rivoluzione socialista” (Milan Kundera, “L'immortalità”). La scelta del comunismo fu una scelta sostanzialmente libera, portata avanti dai settori intellettuali e borghesi in nome del progressismo. “Mi fa ancora effetto - dice Zoldy - quando vedo, nei filmati dell'epoca, il tripudio dei praghesi per l'avvento del comunismo, mentre tutti in Slovacchia erano tristi. Anche perché sembrano identici a quelli che nel 1989 festeggiavano la velvet revolution sotto il balcone di Havel ”.
Sempre all'avanguardia, i cechi, sempre a spiegare il futuro ai lenti, recalcitranti slovacchi. Milan Kundera conosce questo lato della medaglia, e in quasi tutti i suoi libri (più di ogni altro “Lo scherzo”) c'è l'amara ironia del dissidente messo al bando dalle “avanguardie rivoluzionarie”, il sarcasmo nei confronti degli intellettuali che per inseguire a tutti i costi il nuovo, diventano, quasi tragicamente, “gli alleati dei propri becchini”.
Il pendolo della storia si muove di nuovo in controtendenza, per la Cecoslovacchia, con un'esattezza impressionante. Venti anni di democrazia ( mentre a Ovest trionfava la dittatura), venti anni di stalinismo (mentre l'Occidente ritrovava la libertà). Ogni esigenza di autonomia della Slovacchia era stata cancellata: Husak, leader dei comunisti slovacchi, era stato arrestato con l'accusa di separatismo; il prestigioso istituto di cultura slovacca trasferito da Bratislava a Praga per ordine di Antonin Novotny, un cupo e ottuso burocrate, segretario del partito e pupillo di Breznev che guidava l'URSS.
Poi, nel gennaio del 1968, la svolta: al posto di Novotny il partito comunista nomina Aleksander Dubcek, destinato a rimanere nella storia come l'eroe della “Primavera di Praga”. Ma Dubcek non era praghese: era nato nel 1921 nel cuore della Slovacchia, nella stessa casa di Ludovit Stuhr, il padre della lingua slovacca. I suoi genitori, comunisti da sempre, erano emigrati in un primo tempo negli Stati Uniti, ma poi avevano scelto di trasferirsi in Unione Sovietica. Il fratello di Dubcek era morto da partigiano nella rivolta nazionale slovacca contro i nazisti. Il nuovo segretario aveva un “pedigree” di ferro.
Dubcek avvia, a partire dal marzo del '68, una serie di riforme sempre più audaci. Il suo progetto politico, appoggiato dall'ala riformista che aveva preso il sopravvento, andava molto oltre l'introduzione del “socialismo dal volto umano” (formula passata alla storia): senza rinnegare i principi di base del marxismo, si voleva dare spazio al pluralismo delle opinioni, rompere definitivamente con l'ortodossia imposta dall'alto. Fra i punti basilari del suo programma c'era anche la fine del centralismo di Praga, la scelta federale per dare pari dignità alla “sua” Slovacchia.
Il sogno di riformare il comunismo finì in agosto, con l'invasione sovietica. Fu un trauma per tutti, ma alla fine gli slovacchi vennero esclusi dalla memoria di quei giorni: è stata fatta passare la versione assurda secondo la quale gli eterni conservatori avevano paura del cambiamento, e Breznev premiò la fedeltà slovacca imponendo, qualche anno dopo, la federazione. Nella sostanza, l'ennesima mistificazione ai danni degli slovacchi, che avevano tutto da guadagnare dalla leadership di Dubcek e che si videro invece appioppare una riforma federale di puro valore formale (a nulla valse il fatto che venne richiamata al potere molta nomenklatura slovacca, fra cui il vecchio Husak).
Circa venti anni dopo, quasi il solito ciclo storico, l'esperienza del comunismo arriva al capolinea. Il trauma del '68 aveva scavato un fossato incolmabile fra il partito e la gente. La società cecoslovacca viveva da anni quasi come se il regime non ci fosse. L'importante era non mettersi contro, non farsi notare: non si faceva carriera, ma si poteva vivere tranquillamente. Così, quando Gorbaciov lanciò la perestrojka in Unione Sovietica, la classe dirigente in Cecoslovacchia si trovò spiazzata, più realista del re, distante anni luce dalla società civile, totalmente incapace di leggerne le richieste di cambiamento, clamorosamente muta di fronte all'esigenza di libertà e democrazia.
La “rivoluzione di velluto” divenne un fatto compiuto quando la polizia non seppe più come comportarsi con i dimostranti. “Ricordo i cecchini sui tetti delle case, qui a Bratislava, mentre la folla manifestava pacificamente”, dice Martin, 27 anni, ricercatore all'università, “e la gioia, qualche tempo dopo, di poter finalmente andare a Vienna, che a noi sembrava lontanissima, impossibile da raggiungere”.
Il regime si sgretolava, impotente. Non c'erano partiti ben definiti a contrastarlo, ma coalizioni di dissidenti che chiedevano principalmente una transizione pacifica (a Praga la polizia aveva sparato sulla folla). La coalizione slovacca, gemella del “Civic Forum” ceco, si chiamava semplicemente “Il pubblico contro la violenza”: un mix di partiti moderati, di ispirazione cristiano-democratica.
Ne faceva parte Vladimir Meciar, che presto sarebbe diventato la figura emergente della Slovacchia, fino a far confondere (erroneamente) il paese con lui (sarebbe come far coincidere, oggi, l'Italia con Berlusconi). Meciar era all'epoca un avvocato rampante, uno che si sentiva al posto giusto nel momento giusto. Comunista in gioventù, era stato espulso dal partito, come molti altri, dopo gli avvenimenti del '68. Fisico massiccio, ambizioni enormi, carattere sanguigno da “uomo del popolo”, Meciar sembrava l'opposto antropologico di Vaclav Havel, brillante autore teatrale praghese ammirato all'estero per la sua lunga opposizione al regime (mentre a Meciar si rimproverava un oscuro periodo di formazione in Unione Sovietica).
“Meciar ha il dono della comunicazione. Sembrava sempre schietto, diretto, semplice: la gente lo capiva al volo” sostiene Monika, 27 anni, laurea in Relazioni Internazionali, “ma è sempre stato autoritario come un despota, i giovani oggi non lo sopportano più”.
Meciar stravince le elezioni del parlamento slovacco nel giugno 1992: il suo populismo, in un delicato periodo di transizione, si contrappone alla voglia di capitalismo duro e puro del primo ministro Vaclav Klaus. Nella visione di Klaus, che sembra il clone di Margaret Thatcher, solo una ricetta ultraliberista guidata con polso di ferro da Praga può portare il paese in Europa. Si capisce chiaramente che la Slovacchia viene considerata, ancora una volta, una palla al piede per la modernizzazione, con le sue industrie obsolete, il settore agrario arretrato, la sua voglia di protezione statale.
La separazione delle due repubbliche avviene in un clima kafkiano: ufficialmente non la vuole nessuno, però si litiga su tutto, ci si accanisce sul famoso trattino del nome, il presidente Havel vorrebbe un referendum popolare, ma il parlamento federale ha paura di un esito schizofrenico nei due paesi. Alla fine, la cocciuta intransigenza di Praga (che equivale ad un aut-aut: “o sotto di noi, o senza di noi”), fa il gioco di Meciar, che sicuramente preferisce essere il primo a Bratislava che il secondo a Praga.
Il primo gennaio 1993 la frittata è fatta: nascono la Repubblica ceca e quella slovacca. Il mondo accoglie stupefatto la nascita della nuova nazione: sono tutti condizionati dal dramma della Jugoslavia, la Slovacchia viene subito tacciata di “nazionalismo” e Meciar paragonato a Milosevic perfino dal bravissimo Paolo Rumiz, che segue l'est europeo per conto del “Piccolo” di Trieste.
La Slovacchia viene dipinta come una Vandea dove, in nome dell'identità nazionale, si saldano l'integralismo cattolico di stampo ultraconservatore e antisemita con la peggior tradizione bolscevica. Catto-nazi-comunisti, gli slovacchi; laici, democratici, liberisti e moderni i ceki.
“Nessuno pensava che la Slovacchia avrebbe potuto farcela da sola” sostiene l'ambasciatore italiano a Bratislava, Egone Ratzenberger, “ma Meciar, piaccia o no, ha fatto cose molto importanti per questo paese”.
Sicuramente Meciar rallenta le privatizzazioni, favorendo i suoi amici e riciclando buona parte della nomenklatura comunista, soprattutto nei servizi segreti. Mantiene buone relazioni con la Russia, che d'altra parte è un paese che fornisce alla Slovacchia (con la quale ha un grosso debito finanziario) materie prime. E continua a collezionare brutte figure a livello internazionale, per i suoi atteggiamenti da despota irascibile. L'Occidente ama Havel, Meciar lo odia: lo considera un fighetto, fa battute sulla sua presunta omosessualità.
Per questo la Slovacchia perde il primo treno per l'integrazione europea e per l'adesione alla Nato (che Meciar, considerato filorusso, ha chiesto fin dal '95). A Praga sono convinti che il valore della corona slovacca non potrà andare oltre un terzo di quella ceca. Insieme alla Polonia e aal'Ungheria, la Repubblica ceca è stata promossa dall'Unione europea: loro sono come sempre i primi della classe, e gli slovacchi sono, come sempre, i somari.
E invece, grazie a Meciar o nonostante Meciar, l'economia slovacca cresce nel '96 e nel '97 a ritmi di record e la corona slovacca si avvicina al cambio alla pari con quella ceca. Con l'economia, si stabilizza anche la vita politica, dopo una lunga stagione di conflitti costituzionali fra il presidente della repubblica Kovac e il governo guidato da Meciar, fra i ministri e il Parlamento, fra il Parlamento e la Corte costituzionale.
Alla fine, l'intrattabile Vladimir riesce a coalizzare mezza Slovacchia (e tutto l'Occidente) contro di sé: alle elezioni poltiche del settembre '98 il suo partito (il Movimento per la Slovacchia democratica) conserva una risicata maggioranza relativa, ma al governo va una stranissima coalizione che va dalla destra liberale agli ex comunisti del Partito democratico della sinistra, passando per i cristiano democratici, i verdi e perfino il forte partito della minoranza ungherese.
La vittoria sofferta dell'opposizione viene salutata in Europa quasi fosse l'avvento della democrazia. A Bratislava oggi sono molti ad essere certi che Meciar abbia imboccato il viale del tramonto, sostenuto ormai solo dalle vecchie generazioni. Alla sede del Movimento per la Slovacchia democratica si sostiene invece che questa “coalizione arcobaleno” non potrà durare a lungo, anche perché “non hanno altro programma che non sia quello di svendere ogni attività al capitale straniero”.
Di fatto, il risanamento della Slovacchia, iniziato sotto Meciar, ha avuto un'ulteriore impennata. Il centro di Bratislava, di Kosice, e di altre città è stato completamente restaurato. La pesante architettura del socialismo reale, per quanto possibile, abbellita. E piano piano ci si accorge che forse il ritardo della Slovacchia potrebbe trasformarsi in vantaggio. La volgarità americaneggiante che si è abbattuta su tante città europee sembra avere fin qui risparmiato la Slovacchia e la sua capitale, Bratislava. Il lusso non è sgargiante e offensivo come in altri paesi dell'Est, soprattutto perché non è contrapposto alla miseria di nessuno (anche se restano sacche di grande povertà all'interno del paese e una disoccupazione al 15 per cento).
Accanto agli hotel con prezzi occidentali, ci sono dignitosi ostelli, come il Kosmalt di Kosice, che sono bruttissimi da vedere, ma dove una camera doppia costa seimila lire. Nel centro di Bratislava c'è forse più gente alla mensa di tipo socialista, rifatta come self - service, che non al Mc Donald's. Lo stipendio medio si aggira sulle 700mila lire, ma un appartamento di tre stanze si affitta per 60mila lire al mese.
Insomma, a Bratislava si vive bene. Anzi, si vive meglio. Senza lo stress e il traffico infernale della nostra “modernità”, senza giganteschi “shopping center” o “megastore”, con meno auto di lusso in seconda fila e meno persone attaccate al telefonino.
Le strade di Bratislava sono piene di giovani, di belle donne eleganti ma sempre all'insegna della sobrietà. Osservandoli, si ha la sensazione che tutti i drammatici passaggi del secolo scorso siano stati ormai metabolizzati. Questo vale soprattutto per chi ha meno di trent'anni. Gli altri, in particolare la generazione dei cinquantenni, sembrano portarsi dentro un'ombra di rimpianto da “occasioni perdute”. Alcuni dicono che dieci anni fa c'era più tensione ideale, oggi la gente comincia a voltare le spalle alla politica e aspetta l'adesione all'Unione Europea senza entusiasmo, anche perché la Slovacchia è già europea, e in un certo senso lo è sempre stata.
Anche la Chiesa cattolica lamenta il pericolo del materialismo consumista, cento volte più insidioso di quello marxista: il “boom” religioso che si era registrato con la fine del comunismo sembra infatti già tramontato. Ma in molti casi si trattava di cercare un'identità morale a tutti i costi, quasi per dare il messaggio “io non ero comunista”, anche quando non era vero. Tutto oggi è normale, fino alla banalità. Ma la Slovacchia, un po' come l'Italia dei primi anni Sessanta, si può anche permettere questa “aurea mediocritas” dopo tutti i traumi vissuti. Disprezzata ingiustamente per troppo tempo o ignorata completamente, fino a confonderla con la Slovenia, la “Slovenska republika” si può godere, finalmente, l'età dell'innocenza.

Cesare Sangalli