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Un lungo cammino verso la dignità

Belize, “Dio salvi la Regina”

Unica colonia inglese in CentroAmerica, si chiamava “Honduras britannico”, ed era una nazione fondata dai pirati. Quando Elisabetta II salì al trono, la gente qui non aveva ancora il diritto di voto. Eppure, lo strano rapporto con il Regno Unito ha evitato a questo piccolo paese la violenza delle repubbliche delle banane, e lo ha salvato dal vicino Guatemala

Belize. Pronunciato in inglese, anzi in kriol, diventa Biliis, un suono dolce, come fosse un vento leggero (breeze) che soffia dai Caraibi. Il Belize è mare e foresta, un paese grande come la Toscana letteralmente incuneato fra Guatemala e Messico, a sud dello Yucatan. La foresta è maya, il mare dei neri. Più si va verso l'interno, verso il Guatemala, più è facile sentire lo spagnolo, mangiare tortilla e frijoles, cominciare ad avvertire la malinconia degli indigeni, per quanto da queste parti i maya non furono dominati dai Conquistadores, perché lottarono ferocemente e furono aiutati da un ambiente ostile all'uomo (e privo di oro e argento). Strade vuote per chilometri e chilometri, il verde prepotente intorno, le piantagioni di pompelmo, canna da zucchero, banane, qualche bar di lamiera ai bordi del cammino, poche cittadine vicine alla frontiera e l'anonima, piccolissima capitale legale, Belmopan (13mila abitanti su 300mila totali).
Ma il vero spirito del Belize, la sua diversità totale dal resto del CentroAmerica, sta sulle rive dell'oceano Atlantico, che videro arrivare gli schiavi dall'Africa. Facevano quasi sempre tappa in Giamaica, isola che era la vera base di Sua Maestà Britannica nella zona. Il fiume Belize, che dà il nome alla nazione, arriva al mare nella città più importante, Belize City, che non è più capitale per colpa di Hattie. Hattie è stato l'uragano più devastante del Novecento, da queste parti: era il 1961, il governo decise di spostarsi all'interno, a Belmopan, appunto. Belize City rimase il centro principale, sede dell'unico aeroporto internazionale, una “ruvida città di mare” come la definisce la guida della Lonely Planet.
Belize City più che ruvida è soprattutto povera, fatta eccezione per qualche grande hotel nella zona della Marina, e per il quartiere residenziale del Fort George District con le sue ville bianche con giardino. C'è molto poco di turistico qui, e si dice che la città stia diventando sempre più pericolosa, piena di “crack” e di pistole, che girano nascoste nell'eterna siesta di stradine sterrate e putride, di case di legno che sarebbero pittoresche se non cadessero quasi a pezzi. Poco traffico, tante barche che passano sotto lo Swing Bridge, il ponte girevole che è un po' l'orgoglio e forse il simbolo della città. Il disagio si vede chiaramente, ma è difficile percepire ostilità con ritmi di vita così blandi e rilassati. Un po' come in Giamaica, si sente piuttosto un approccio “rasta” alla quotidianità: la marijuana (e il rum) sempre a disposizione, un atteggiamento distaccato dalle cose (e dall'attività lavorativa, che il turismo, sempre di passaggio qui, non stimola molto), ma fondamentalmente positivo. Insomma, i black e colored, classificati come “Creoli”, sembrano mediamente tanto orgogliosi quanto disponibili. Se poi si cerca il mare vero, i piccoli centri di pescatori nel sud popolato dai Garifuna (incrocio di africani con indios del Caribe) , allora si scopre il cuore mite, benevolo, della gente, a partire da bambini che sembrano davvero felici della loro vita, pur abitando in un paese che ha gravi squilibri sociali e un terzo abbondante della popolazione sotto la soglia di povertà, ma dove il sistema scolastico di base è garantito, e gli indici di sviluppo umano (95° posto nella classifica mondiale), per quanto non eccelsi, sono nettamente superiori a quelli del vicino Honduras e del confinante Guatemala. Il Belize poteva diventare un'oscura provincia guatemalteca, sostanzialmente identica al Petén, la zona più selvaggia del paese dei Maya.
E invece il Belize ha iniziato una storia diversa (anche se non meno difficile) da quella classica latinoamericana, fatta di padroni spagnoli e servi indigeni, proprio perché era una terra off-limits, una zona franca, adatta ad ospitare la gloriosa feccia europea che, nel XVII secolo, si dedicò alla “guerra da corsa”: i corsari, appunto.
La guerra dei mari che ha appassionato la letteratura e il cinema, da Steinbeck fino a “Pirati dei Caraibi”, era una specie di “tutti contro la Spagna” per contrastare il monopolio commerciale di Madrid nell'Atlantico. La Corona inglese non andò mai troppo per il sottile, quando si trattava di guerra, fin da Elisabetta la Grande e da Sir Francis Drake, l'uomo che aveva fermato l' “Invincibile Armata” spagnola che doveva sbarcare in Inghilterra nel 1588.
Criminali nel Golfo del Messico ed eroi in patria, i corsari inglesi usavano come basi le piccole isole (Cayes) della barriera corallina e le coste sull'estuario del Belize River. In questi mari dai bassi fondali e dai passaggi tortuosi, i vascelli pirata erano praticamente imprendibili per le pesanti navi da guerra spagnole. Gli spagnoli attaccarono gli insediamenti dei corsari partendo sempre dallo Yucatan. Il conflitto durò ben oltre il trattato del 1670 che metteva fine alla guerra da corsa. Per ben tre volte gli spagnoli cacciarono gli inglesi, che ormai, lasciata la professione di bucanieri, si facevano chiamare semplicemente baymen (gli uomini della baia). I baymen, indomiti, ritornarono ogni volta, fino all'ultima sfida, la battaglia navale di Caye Saint George (1798): con l'aiuto degli schiavi africani e dei militari di Sua Maestà, dettero una batosta definitiva agli spagnoli, che da allora non provarono più a sloggiare dai loro insediamenti quegli strani sudditi britannici, che da pirati si erano trasformati in pionieri, e andavano a cercare nelle foreste del Belize il loro nuovo tesoro: il mogano.
In realtà, nella foresta ci andavano perlopiù gli schiavi africani, che erano in buona parte Ibo della Nigeria (tanto che il primo nome di Belize City fu “Eboe City”); per quanto i loro padroni fossero spietati, la foresta permetteva una libertà sconosciuta ai loro fratelli delle piantagioni nel resto del continente americano. Piccole squadre di taglialegna abbattevano gli alberi di mogano e li trasportavano sul fiume fino allo sbocco sul mare. Lì, venivano imbarcati verso Londra e gli altri porti atlantici. Per circa due secoli questa fu la vita economica e sociale del Belize, che ancora non si chiamava Honduras Britannico, ma era un posto senza nome e senza altra legge che non fosse quella sulla proprietà terriera stabilita dai discendenti dei corsari. In pratica, dodici famiglie controllavano l'ottanta per cento delle terre disponibili, come rilevò un sovrintendente inglese agli inizi dell'Ottocento.
Ci vollero svariati decenni per stabilire l'autorità di Londra in questo angolo selvaggio dell'America centrale. Alla fine, nel 1862, la nuova colonia venne ufficializzata con il nome di Honduras britannico. Negli stessi anni si formò una compagnia privata che agiva su mandato reale, la “British Honduras Company”, fondata da alcuni grandi commercianti inglesi, che poi diventò la “Belize Estate Company” (B.E.C.) . Da allora la storia del Belize fu in gran parte la storia della B.E.C.: i presidenti della compagnia erano pappa e ciccia col governatore di Sua Maestà, rappresentante del governo inglese: “gli interessi di entrambi sono praticamente identici”, dichiarò uno dei primi presidenti della compagnia. Il Belize rappresentava ormai il perfetto modello coloniale, in cui il potere politico e il potere economico si saldano, nella doppia dipendenza da Londra. Le decisioni strategiche si prendono in Europa, e vanno in un'unica direzione: avere la materia prima che interessa, in questo caso il mogano, a basso costo, ed esportare prodotti finiti, per la gioia della Compagnia e della casta di proprietari e commercianti.
I brutali meccanismi della schiavitù si fanno più articolati e perfidi, perché adesso le catene sono invisibili, e si chiamano debiti. I lavoratori, con contratti stagionali, ricevono un anticipo dei loro miseri salari a Natale, da spendere con la famiglia per le feste; quindi partono per la foresta già indebitati, e lì si caricano di altri debiti perché pagano a prezzi elevati il cibo, le bevande e tutto il resto; se non bastano i prezzi alti imposti dai proprietari, ci pensa la svalutazione della moneta nazionale, che alza i costi delle importazioni dall'Inghilterra e abbatte il potere d'acquisto dei salariati, per la gioia della Compagnia che controlla il business su mandato della Corona. Tutto è perfettamente legale: il diritto aiuta i più forti, la legge che regola i rapporti di lavoro lo dice anche nel nome: si chiama “Masters and Servants Act”, atto dei padroni e dei servi, e dal 1883 durerà fino agli anni '40. Un lavoratore indebitato è obbligato a sottoscrivere un nuovo contratto-capestro; se si assenta, può venire immediatamente arrestato; ogni occasione era buona per applicare multe, cioè detrazioni da un salario di pura sussistenza.
La foresta non aiuta a compattarsi, e neri e maya sono ancora divisi. Se fosse per l'Inghilterra, culla della democrazia e del liberalismo, la situazione durerebbe in eterno.
Ma le cose cambiano. Tanti fattori cominciano a favorire la nascita del movimento indipendentista, le cui radici stanno tutte nella questione economica e sociale.
I reduci della Prima Guerra Mondiale (ebbene sì, c'erano pure i soldati del Belize a combattere in Europa), che hanno sperimentato il razzismo dell'esercito di Sua Maestà, organizzano una rivolta, chiedono che l'Honduras britannico diventi un “Black man's country”. Il loro leader è un seguace del giamaicano Marcus Garvey, primo esponente del movimento rasta. La loro canzone “Terra degli Dei”, diventerà l'inno nazionale del Belize, come “Terra dei liberi”.
I cambiamenti arrivano dal mare, e dagli Stati Uniti. Alla monocoltura del mogano, si affianca quella del chicle, la pianta che serve a produrre la gomma da masticare. Negli anni Venti, grazie ai rapporti con gli USA, si afferma una élite di produttori neri che apre una crepa nel monopolio della ricchezza. Su tutti, Robert Turton che lavora per la “Wrigley's” (chewing gum) di Chicago. Altri “imprenditori” di colore si danno alla produzione di alcol da contrabbandare negli States durante il proibizionismo. Non saranno certo loro i protagonisti della protesta sociale: ma nella loro scia si forma una nuova classe dirigente, quella che guiderà il paese nel lungo cammino verso l'indipendenza, a partire da George Prize, segretario mulatto del businessman creolo Turton.
La prima vera ribellione, comunque, nasce dal basso, dai lavoratori che subiscono le conseguenze della Grande Depressione del 1929 e del tremendo uragano del 1931, che fa emergere tutta la meschinità dell'amministrazione coloniale britannica. E' un latino, Antonio Soberanis, a guidare la rivolta dei disoccupati e dei salariati. Denuncia la B.C.E. come una banda di “succhiasangue” , dice che il Governatore e Re Giorgio di Inghilterra sono due “truffatori”. Lo mettono in galera, lui ne esce ancora più popolare. L'establishment coloniale comincia a perdere terreno, fino ad ammettere, incredibile ma vero, la legalità dei nascenti sindacati (1941).
In questi anni si forma l'alleanza che sarà la base del paese: quella etnica, fra neri e maya, che gli inglesi cercheranno invano di scalfire; e quella politica e sociale fra il sindacato e il partito, il “People's United Party” (PUP) fondato nel 1949 e guidato dalla middle class creola. Per tutti, è ormai evidente che lo sfruttamento è legato al regime coloniale, e che la lotta sociale deve diventare lotta per i diritti politici, subito, e quindi per l'indipendenza. L'arretratezza del Belize, agli inizi degli anni Cinquanta, è spaventosa.
“Belize City è forse il posto più depresso dell'intero Commonwealth. E' incredibile la situazione di fame, povertà e sporcizia in cui vive la popolazione”, scrive un reporter britannico dell'epoca. I diritti politici sono fermi all'Ottocento, solo il due per cento della popolazione può partecipare al voto. Nell'ottobre 1952, proprio mentre Elisabetta II sale al trono d'Inghilterra, George Price leader del PUP e del sindacato (la General Working Union) lancia la sfida: sciopero generale. Nel mirino, la mitica B.E.C. e anche la famigerata multinazionale americana, la United Fruits, che ha aggiunto un tocco yankee allo sfruttamento coloniale britannico. Washington spadroneggia in tutto il resto dell'America latina, a partire dalla più classica “repubblica delle banane”, il Guatemala. Qui la United Fruits si sente defraudata dalla riforma agraria e dalle politiche progressiste di Jacobo Arbenz; e per questo chiede e ottiene un golpe militare condotto alla luce del sole dalla CIA, in nome dell'”anticomunismo”.
Gli inglesi cercano di giocare la stessa carta ideologica contro George Price e il PUP. Ma Price, classe 1919, è semplicemente un cattolico educato alla dottrina sociale della Chiesa uscito dal Saint John College, scuola tenuta da religiosi, che è un po' la fucina degli indipendentisti. Nei suoi cromosomi meticci unisce le tre etnie del Belize, ma potrebbe anche spacciarsi per bianco; è un esponente della classe media e giornalista del “Belize Billboard”. E il PUP, più che un partito di sinistra, è una sorta di Democrazia Cristiana progressista. Nessuno parla di rivoluzione: si denuncia il sistema coloniale come responsabile dello sfruttamento, e quindi della povertà del popolo in un paese ricco di risorse naturali. L'obiettivo immediato resta il suffragio universale, primo passo verso l'indipendenza. L'amministrazione coloniale e la solita B.E.C. cercano di opporsi con tutti i mezzi, inutilmente. Nel 1954, proprio mentre in Guatemala si riportano indietro le lancette della Storia, il popolo del Belize ottiene il diritto di voto. Le prime elezioni democratiche vedono la schiacciante affermazione del PUP e di George Price. Gli inglesi hanno cercato di dividere l'ala moderata del partito, favorendo la nascita di una fazione“lealista”, ma il giochino non ha funzionato. Qualche anno dopo, i lealisti si trasformeranno nell'eterno partito di opposizione liberale, lo United Democratic Party (UDP).
George Price inizia un lungo percorso costituzionale per arrivare all'autogoverno nel 1964. Ormai ci sono tutte le condizioni per l'indipendenza, già accordata da Londra a quasi tutte le ex colonie (fra cui la Giamaica, nel 1962). Il governo laburista di Wilson sarebbe più che favorevole. Eppure, per arrivare all'indipendenza del Belize ci vorranno altri 17 anni. Per tutto questo tempo, la difesa e l'ordine pubblico sono affidati ancora al Regno Unito. Perché? La ritardata indipendenza ha un solo significato, per quanto possa apparire incredibile: proteggersi dalle mire espansioniste del miserabile Guatemala.
Ogni repubblica delle banane che si rispetti si regge sull'alleanza fra casta di latifondisti, multinazionali U.S.A. e militari. Quasi sempre con la benedizione della Chiesa cattolica, almeno fino agli anni Sessanta. Ora, i militari da sempre fanno leva sul nazionalismo, meglio se accompagnato da qualche guerra. Più i paesi del CentroAmerica erano servi zelanti di Washington, più alimentavano un grottesco nazionalismo di facciata. Così, il Guatemala stabilì fin dagli anni Quaranta che il Belize era semplicemente una sua provincia mancata. E le giunte militari che si alternarono dopo il golpe targato “United Fruits” del 1954, minacciarono più volte l'invasione. Fra i tanti paradossi di queste sconosciute relazioni internazionali, una mezza crisi (si fa per dire) fra gli storici alleati atlantici, USA e Regno Unito, negli anni Sessanta: Washington sosteneva i generali golpisti del Guatemala, tanto con Kennedy quanto con Lyndon Johnson. Gli inviati di quest'ultimo cercarono goffamente di dirimere la questione territoriale con un piano clamorosamente a favore del Guatemala, che fu ovviamente respinto al mittente; i militari guatemaltechi potevano abbaiare alla luna, ma non si sarebbero mai sognati di sfidare l'esercito di Sua Maestà.
Vista la magra figura rimediata dagli Stati Uniti, non c'è da meravigliarsi che il primo paese a riconoscere il Belize fu Cuba, seguito a ruota da Panama (per volontà del militare disobbediente Omar Torrijos, che nello stesso periodo si fece restituire il canale da Jimmy Carter) e poi dagli altri paesi latinoamericani. Quando la mozione fu finalmente votata all'ONU, solo il Guatemala votò contro. Così, il 21 settembre 1981, equinozio di autunno, il Belize diventava indipendente, rimanendo nel Commonwealth. Il capo di stato resta formalmente la regina d'Inghilterra, come per il Canada o l'Australia.
Ora che aveva la bicicletta, il Belize doveva pedalare. Ma i passi in avanti, nell'ultimo quarto di secolo, non sembrano essere stati esaltanti. Intanto, George Price e il PUP, invecchiando al potere incontrastati, avevano iniziato a declinare, tarpando le ali ad ogni tentativo di rinnovamento della classe dirigente. Per questo nel 1984 vennero puniti dagli elettori, che volevano più che altro dare una botta di vita alla vecchia e gloriosa leadership indipendentista, e premiarono gli avversari di sempre, i liberali dell' UDP. Non che fra i due partiti ci fossero e ci siano tuttora differenze abissali, ma le riforme in senso liberista dell'UDP non piacquero molto, tanto che nel 1989 i belizani riportano al governo il mitico George Price, ormai ottantenne, e il PUP.
L'alternanza fra i due partiti, cioè fra centro-destra e centro-sinistra, non ha cambiato la struttura profonda della nazione, che rimane profondamente squilibrata a favore della proprietà terriera e dell'élite commerciale e finanziaria. Agli imprenditori inglesi si sono aggiunti quelli nordamericani; quasi simbolicamente, la leggendaria compagnia B.E.C. fu acquistata nel 1971 da una finanziaria statunitense. E' un po' come se il Belize avesse mantenuto le sue caratteristiche di porto franco, “refugium peccatorum”: molti uomini d'affari, provenienti perfino da Taiwan, si compravano il passaporto di questo piccolo stato sconosciuto, o stabilivano qui la sede legale dei propri interessi. Poi c'erano un po' di ricchi americani che pensavano di aver trovato qui una specie di paradiso perduto a due ore di volo da Miami, e privatizzarono alcuni degli isolotti più belli, facendosi la villa al mare o costruendo esclusivi “resort” isolati dal mondo. Il Belize era diventato “trendy”: la cantante Madonna alla fine degli anni Ottanta cantava “La Isla Bonita” esaltando San Pedro, cittadina di mare situata ad Ambergris Caye; Leonardo Di Caprio e altre star di Hollywood hanno comprato bellissime residenze sulla barriera corallina. Ma il turismo dei VIP era e resta praticamente invisibile, privo di conseguenze che non siano di pura immagine.. Solo dagli anni Duemila il settore turistico è diventato il traino dell'economia, tanto che oggi rappresenta la voce più consistente del P.I.L., seguito dall'agricoltura, e dà lavoro alla maggior parte delle persone. Ma il Belize, per ora, non è stato stravolto nella sua società, che è rimasta sostanzialmente uguale a se stessa, nel bene e nel male.
Nel male, perché la ricchezza prodotta non viene equamente distribuita, e la povertà, soprattutto a Belize City, diventa rapidamente miseria e fa crescere, inevitabilmente, la delinquenza (per quanto il Belize resti un'oasi di pace, soprattutto se paragonato agli altri stati centroamericani).
Nel bene, perché l'anima della gente è intatta, rilassata e gentile nei modi, assai tosta nei ragionamenti, come si deduce leggendo “Amandala”, popolarissimo giornale nazionale, che ha un'incredibile tiratura di 45mila copie (su una popolazione di 300mila).
Nell'editoriale che celebra il 38° anniversario della fondazione del giornale, il direttore Russel Vellos scrive che il nonno, “a black man”, mandò a quel paese i soldati inglesi che lo volevano interrogare senza mandato, e ricorda ai lettori che loro sono la vera forza della democrazia, e che solo grazie a loro i giornalisti non si fanno influenzare dai due partiti, di governo e di opposizione, e dagli imprenditori che controllano il mercato pubblicitario. Duri e puri, quelli di “Amandala”, e senza peli sulla lingua. Sanno che per molti cittadini quattro dollari del Belize (cioè due dollari americani) a settimana per comprare il giornale non sono una quantità insignificante. Eppure continuano in massa a sostenere una stampa che non sia il megafono dell'establishment, ma il suo guardiano. Essere poveri non significa non avere una coscienza critica. Per questo il direttore sembra sincero quando chiude l'editoriale con il vecchio slogan “Potere al popolo”. Anzi, con il creolo “Luv Ya. (Vi amiamo) . For real (davvero). Power to the people”.

Cesare Sangalli