Reportages
Pubblicato su "Galatea" settembre 2006
Il lungo cammino verso l'indipendenza
Un poker chiamato Kosovo
Era la più povera e dimenticata regione della Yugoslavia. Eppure qui è iniziata la politica criminale che ha riportato nel cuore dell'Europa orrori che sembravano dimenticati. In bilico fra vendetta e perdono, albanesi e serbi cercano di diventare cittadini europei
La partita non è ancora finita, ma si trascina sempre più stancamente. I principali protagonisti, a partire da Ibrahim Rugova e Slobodan Milosevic, il buono e il cattivo, non ci sono più. Centinaia di migliaia di persone nel frattempo hanno cambiato vita, emigrando, cambiando casa, ripartendo da zero. Altre cercano ancora giustizia, o quantomeno la verità, vogliono sapere che fine hanno fatto i figli, i genitori, i fratelli, ingoiati dalla violenza nel corso della più crudele partita a poker giocata dalla politica nell'Europa contemporanea.
Il Kosovo. Completamente ignorato da tutti per decenni, poi diventato familiare nella geografia dei conflitti. Un nome da apertura dei telegiornali, un nome che resta nella storia, perché ci fu una “guerra per il Kosovo”, altrimenti detta “guerra umanitaria”. Sembrano passati secoli, ma era solo sette anni fa: la gente andava a vedere lo spettacolo inedito dei bombardieri che decollavano dalla base di Aviano, in quella triste primavera del '99. Michele Santoro andò a fare la sua trasmissione a Belgrado, dove c'era anche l'ottimo Ennio Remondino, mentre a Pristina, ultimo reporter straniero, resisteva Antonio Russo di Radio Radicale, poi assassinato dai servizi segreti russi in Georgia, anche se ufficialmente non si può dire.
Certo non sono mancate le immagini, nell'immane tragedia della ex Jugoslavia. L'orrore è stato ridotto a show televisivo, perché i fatti, le responsabilità, gli accordi, (in una parola la verità), sono stati sistematicamente occultati, distorti, interpretati in modo parziale e tendenzioso.
Il Kosovo, un altopiano verde incorniciato da montagne sempre innevate in direzione del mare Adriatico, che sembra lontano ma non lo è, è tornato nel suo torpore mediatico, aspettando l'indipendenza prossima ventura nell'indifferenza generale. E tutto sommato è meglio così, perché i Balcani, secondo una vecchia definizione, hanno prodotto più storia di quanta se ne potevano permettere.
Milosevic lo sapeva bene. Dirigente comunista di lungo corso, conosceva i suoi polli, cioè la stragrande maggioranza dei cittadini serbi che stavano appoggiando la sua irresistibile ascesa. Ma conosceva anche gli occidentali, perché aveva vissuto diversi anni negli Stati Uniti. Infine, capiva di economia, anzi di finanza, perché veniva dal settore bancario. A queste caratteristiche aggiungeva l'assoluta mancanza di scrupoli e l'abilità nel bluff del grande giocatore di poker. Far apparire ciò che non è, far credere agli altri ciò che vogliono credere e continuare a fare il proprio gioco, sempre. E' incredibile constatare oggi quante persone abbiano creduto alle sue menzogne. La sua micidiale partita di poker è iniziata e finita in Kosovo, ed è durata dieci anni esatti.
Era il 28 giugno del 1989, pochi mesi prima della fine del comunismo (qualcuno disse della “fine della Storia”). Milosevic, da poco presidente della Serbia, celebrò davanti ad un milione di persone entusiaste l'anniversario della battaglia di Kosovo Polje, avvenuta seicento anni prima. “Sei secoli fa – disse Milosevic – la Serbia si difese eroicamente a Kosovo Polje, ma difese anche l'Europa. La mancanza di unità e il tradimento in Kosovo continueranno a seguire il popolo serbo come un destino malvagio per tutto il corso della sua storia”. Nessuno o quasi si accorse del messaggio di delirante nazionalismo contenuto nel discorso, che era un capolavoro di ambiguità. Milosevic parlava allo stesso tempo da comunista e da liberale, da falco e da colomba, da laico sostenitore della Jugoslavia e da difensore della tradizione ancestrale e religiosa della Serbia, anche se il suo malefico illusionismo non avrebbe retto ad una critica seria. Per gli albanesi del Kosovo suonava la campana a morto. I “traditori”, anche se non lo si diceva apertamente, erano loro, e tutti quelli che si erano lasciati conquistare dall'Impero Ottomano e convertire all'Islam (come i bosniaci musulmani). Nella versione di Milosevic, i serbi, che sei secoli prima avevano dovuto in gran parte ritirarsi dai luoghi sacri della Chiesa ortodossa, continuavano ad essere le vittime della Storia, in questo caso le vittime degli albanesi (di lì a poco diventeranno anche vittime dei croati, dei bosniaci, del mondo intero). Una mistificazione clamorosa, resa possibile dal controllo pressoché totale dell'informazione e dal black-out di molte coscienze, a partire da una pletora di intellettuali che, strano a dirsi, venivano in gran parte dall'opposizione al regime comunista.
La storia degli albanesi del Kosovo dimostrava chiaramente che le vittime erano loro, gente che non aveva mai potuto scegliere il proprio destino. Sottomessi per secoli ma mai assimilati del tutto dai turchi, si erano ritrovati a far parte della Serbia al momento dell'indipendenza dell'Albania (1913), secondo il volere della diplomazia europea.
Schiacciati dal re Alessandro nella Prima Jugoslavia (vedi ultimo reportage sul Montenegro), epurati con pugno di ferro dalle truppe di Tito, che li castigò per aver fatto parte della Grande Albania creata dai nazifascisti negli anni della Seconda guerra mondiale, gli albanesi del Kosovo erano cittadini di seconda classe nella Jugoslavia socialista dell'”unità e fratellanza”. La loro regione, pur disponendo di importanti risorse minerarie, era la più povera e trascurata della Jugoslavia. I serbi che abitavano in Kosovo cercavano migliori opportunità altrove, e questo flusso migratorio, unito al minor tasso di natalità rispetto alle famiglie albanesi, fece sì che già alla fine degli anni Settanta la popolazione kosovara fosse composta da albanesi all'80 per cento. Consapevoli di questa situazione, gli albanesi avevano via via richiesto una maggior autonomia, cioè la fine della discriminazione strisciante nei loro confronti, con periodiche ribellioni. Fra loro c'era anche un'esigua minoranza estremista che sognava la riunificazione con l'Albania. Ma il “Paese della Aquile” era un bunker isolato dal resto del mondo, le relazioni fra Enver Hoxha e Tito, entrambi comunisti, erano pessime, e la frontiera fra Kosovo e Albania era sigillata come la Cortina di ferro fra Est e Ovest, tanto che ancora oggi le differenze fra le due comunità sono assai profonde.
Tito aveva parzialmente accolto le richieste dei kosovari albanesi nella nuova costituzione del '74, che secondo molti commentatori accentuò le differenze fra le varie repubbliche che componevano la Jugoslavia. Ma la maggiore autonomia significò in pratica solo maggior libertà di manovra per la nomenklatura comunista locale, tanto albanese quanto serba. Il vero nodo della questione, non solo in Kosovo, era il rapporto fra il regime autoritario e corrotto e la popolazione, ma alla classe politica conveniva trasformarlo in conflitto fra i differenti gruppi etnici, o addirittura fra le diverse comunità religiose, quando la religione in tutta la Jugoslavia non significava quasi niente.
A partire dagli anni Ottanta, i serbi del Kosovo diventarono così, per l'informazione di regime, le “vittime” dell'estremismo albanese, amplificando tutti gli episodi di cronaca che avvenivano ai loro danni, e che spesso non erano legati a questioni etniche. Si farà altrettanto in tutte le repubbliche jugoslave. Se c'era uno stupro, ad esempio, non era più la persona X che violentava la donna Y, ma l'uomo albanese (o bosniaco, o croato) che violentava la donna serba. Il trucco mediatico riusciva perfettamente anche quando gli episodi erano pura invenzione.
La catastrofe veniva preparata con cura dai vari leader comunisti, che volevano salvarsi dalla fine imminente del regime, sfruttare il capitalismo di rapina che bussava prepotente alle porte, e diventare “padri della patria” prima e condottieri di guerra indiscussi poi. Il maestro di questa banda di criminali fu appunto Milosevic, che fece le prove generali in Kosovo. Nessuno si sarebbe più permesso di toccare un serbo, tuonò Slobodan, acclamato come il salvatore di un popolo minacciato. Vittime e carnefici si scambiavano le parti, accusandosi a vicenda. Il mondo non capì, o fece finta di non capire.
Sarebbe bastato conoscere ciò che accadeva in Kosovo, due anni prima dell'inizio delle ostilità. Milosevic cancellò ogni forma di autonomia, sciolse il parlamento locale, licenziò in massa insegnanti, funzionari e impiegati non serbi, abolì lo studio della lingua albanese. La repressione si fece durissima, con un numero altissimo di arresti, torture, violenze, omicidi.
Contro l'oppressione brutale del regime serbo, non si levò un capopopolo speculare a Milosevic, per rispondere colpo su colpo, ma un mite intellettuale albanese chiamato Ibrahim Rugova. Nato nel 1944 in un villaggio kosovaro, Rugova aveva perso il padre per mano dei partigiani di Tito, ma era stato educato dal nonno a non avere nessun risentimento nei confronti dei serbi, vittime a loro volta di violenze feroci, per non dire di un tentato genocidio, ad opera degli ustascia croati alleati dei nazisti. Laureato in letteratura albanese all'università di Pristina, si era specializzato a Parigi in scienze sociali sotto la guida di Roland Barthes. Rugova è presidente della società letteraria albanese, quando fonda , nel 1989, la Lega Democratica del Kosovo, sfidando apertamente il regime di Milosevic: parla con coraggio di indipendenza per il Kosovo, ma senza nessuna traccia di nazionalismo. Rugova ha fatto sua la lezione di Gandhi e Martin Luther King , chiama il popolo albanese alla resistenza civile non violenta. La sua popolarità è immensa, alle elezioni non ufficiali del '92 viene eletto “presidente del Kosovo” (carica simbolica) con il 90 per cento dei voti.
Milosevic lo lascia fare, perché sa che alla comunità internazionale non importa niente del Kosovo, e che il giornalismo europeo si muove solo quando scatta la guerra vera e propria, una spettacolarizzazione assolutamente fine a se stessa, come si vede dal lento martirio in diretta della Bosnia (vedi “Galatea”, settembre 2002).
Gli albanesi continuano a soffrire in silenzio, non hanno l'onore delle prime pagine nemmeno dopo la fine dei conflitti nella ex Jugoslavia (dicembre 1995).
I massacratori, i criminali di guerra, gli ideologi della “purezza etnica”, agiscono per il momento da statisti, fanno parte delle istituzioni, partecipano alla ricostruzione. I primi a contestare le leadership uscite dalla guerra sono proprio i serbi, o meglio, i belgradesi, che scendono in piazza contro Milosevic nell'inverno del '96 come avevano già fatto nel 1991, solo che allora erano una minoranza, mentre adesso cominciano a vedere la fine di “Slobo”. Nello stesso periodo, in Kosovo, piccoli gruppi di autodifesa si organizzano nei villaggi di campagna. Nella primavera del '97, ai funerali di una famiglia albanese sterminata dai reparti speciali serbi, si vedono per la prima volta giovani armati e incappucciati che dicono di chiamarsi “Esercito di Liberazione del Kosovo”, (UCK) e chiamano gli albanesi alla lotta armata. La resistenza non violenta non ha ottenuto nessun risultato in otto anni. Nessuno, a livello internazionale, ha appoggiato veramente Rugova: questi sono tempi di Realpolitik. E infatti. Nel patriottismo ribelle dell'UCK si infiltrano rapidamente la mafia kosovara e quella albanese, che si sono arricchite enormemente con il mercato nero degli anni di guerra, soprattutto con il traffico di carburanti per la Serbia e la Bosnia isolate dalle sanzioni internazionali.
Il crollo dello stato albanese nella bancarotta delle cosiddette “piramidi” regala alcuni mesi di anarchia totale: interi arsenali vengono svuotati, le bande paramilitari fanno il bello e il cattivo tempo, ci sono armi per tutti, anche per i “cugini” dell'UCK. Dalla diaspora kosovara, soprattutto dalla comunità emigrata in Svizzera, arrivano i soldi, non sempre puliti. Per l'addestramento militare e il coordinamento si rende disponibile la CIA, perché l'amministrazione Clinton (e Madeleine Albright in particolare) si è stufata dei bluff di Milosevic e delle ambiguità europee, vuole chiudere la partita dei Balcani all'americana, cioè con la forza. Ma la diplomazia internazionale ha bisogno di legittimazioni ideali, e Milosevic, con la sua campagna di repressione che si è fatta insostenibile, gliele offre su un piatto d'argento. Probabilmente si è illuso sulla consistenza dell'appoggio russo e cinese, e forse ha pensato di poter continuare con gli americani il poker che gli era sempre riuscito con gli europei (basta pensare che in questo periodo il governo Prodi acquista Telekom Serbia, per la gioia di Milosevic, e che tanto la Lega quanto Rifondazione mandano delegati ai congressi del suo partito).
Fatto sta che la CNN, seguita a ruota dalle altre grandi emittenti, “scopre” il Kosovo e le persecuzioni degli albanesi, le trasforma in genocidio quando ancora non c'è stato nemmeno il tentativo di pulizia etnica, e legittima la guerriglia patriottica dell'UCK, considerata all'inizio “terrorista” da Washington per via di antiche ispirazioni comuniste del movimento.
La ruota sta per girare, si offre un ultimatum chiaramente inaccettabile per Milosevic, mentre già si scaldano i motori dei bombardieri NATO. E' la primavera del '99: Milosevic non cede, e iniziano a cadere le bombe su Belgrado, Pristina, Novi Sad.
Per reazione, e in vista di un intervento militare da terra che non arriverà mai, Milosevic decide di liberarsi una volta per tutte degli albanesi. La vera pulizia etnica scatta adesso, e la “catastrofe umanitaria” tanto strombazzata quando ancora non c'era, diventa realtà senza che nessuno si senta davvero coinvolto. Nella sostanza, a salvare i poveri kosovari sono i poverissimi cugini albanesi: la comunità internazionale di “umanitario” fornisce solo i bombardamenti, che aggiungono vittime innocenti ad altre vittime innocenti. Un solo scopo viene raggiunto: dopo due mesi abbondanti di attacchi aerei, Milosevic accetta di ritirare le truppe dal Kosovo, che viene occupato dalle forze della Nato e della Russia.
Ora la situazione è capovolta: i serbi del Kosovo non hanno più chi li “protegge”, e la rabbia degli albanesi è grande. Il povero Rugova ha fallito miseramente: nessuno riesce a capire come abbia potuto stringere la mano a Milosevic nel momento di massima sofferenza per gli albanesi, e chiedere la fine dei bombardamenti. E' tempo di vendette: i serbi, considerati in massa collaborazionisti del regime, vengono massacrati a loro volta, i monasteri ortodossi dati alle fiamme, i monumenti della memoria serba distrutti senza pietà. Ancora una volta, le truppe della missione ONU, che qui si chiama UNMIK, danno l'impressione di stare a guardare.
I serbi scappano a migliaia. Esattamente 159mila, secondo l'Alto Commissariato dei Rifugiati a Pristina , a cui si devono aggiungere 13mila montenegrini e 45mila Rom. In sette anni, ha fatto ritorno solo un decimo scarso dei rifugiati, anche se la situazione è andata lentamente migliorando, e nell'ultimo anno non si sono registrati fatti gravi di violenze interetniche.
“Quando sono tornata da Belgrado – dice Jelena Trajkovic, giovane giornalista di Radio B92 – ho trovato la mia casa a Pristina distrutta, e quindi ho raggiunto la mia famiglia qui a Gracanica. Ormai i serbi vivono solo nei villaggi, a Pristina non c'è più nessuno di quelli che conoscevo”. Jelena non si aspetta che la situazione possa cambiare in futuro, e probabilmente ha ragione: difficile pensare che molti altri serbi vogliano tornare a vivere in Kosovo. I “superstiti” sono circa 100mila (su una popolazione di oltre due milioni di persone), quasi tutti agricoltori, spesso anziani, insomma gente che non saprebbe dove andare, se dovesse lasciare il proprio fazzoletto di terra, il proprio villaggio.
“Purtroppo ancora oggi i serbi del Kosovo si lasciano manovrare come burattini da Belgrado – spiega Ismet Hajdari, giornalista albanese dell'AFP – Continuano a pensare che solo il governo serbo li può proteggere, quando invece non li considera minimamente, pensa solo alla terra, all'orgoglio nazionale della Serbia”. E' esattamente quello che si sente dire a Belgrado, almeno dagli esponenti della società civile. La gente ha bisogno di uscire dalla stagnazione economica, soprattutto in Kosovo, dove metà della popolazione è disoccupata. Certo, si nota un discreto dinamismo, tutta la regione pullula di case in costruzione, i locali sono animati, girano moltissime Mercedes (la maggior parte di seconda mano), ma si sa che, proprio come nel vicino Montenegro, i soldi che girano vengono in buona parte dai traffici illeciti, non vanno a creare vero sviluppo. Però si avverte un clima positivo, tanta voglia di fare, la società kosovara non sembra affatto depressa e vorrebbe risposte concrete sui problemi della vita quotidiana.
Ma tutta la politica ruota intorno a false questioni, come difendere una sovranità serba che non ha più alcun significato: basta pensare che anche la moneta è diversa (in Kosovo circola già l'euro), e perfino i cellulari hanno codici completamente differenti tanto che è più facile chiamare all'estero che non fare una telefonata fra Belgrado e Pristina.
I negoziati, ripresi ufficialmente in agosto, sembrano un dialogo fra sordi: la parte albanese vuole l'indipendenza e la vuole subito, la parte serba si ostina a parlare di autonomia, anche larghissima, ma sempre dentro i confini di stato.
Il fatto è che gran parte della classe politica chiamata a risolvere il problema, si è formata negli anni del conflitto, sventolando in un modo o nell'altro la bandiera del nazionalismo. Tanto i leader serbi quanto gli albanesi hanno ancora problemi con la giustizia internazionale; alcuni sono già finiti di fronte al Tribunale dell'Aja, altri se ne potrebbero aggiungere. A Belgrado avrebbero anche la pretesa ridicola di processare gli albanesi coinvolti nei crimini di guerra, quando non riescono ancora ad occuparsi dei propri. Alcuni leader albanesi, ex guerriglieri come Thaçi o Haradinaj, sono ancora ambigui riguardo all'uso della forza, come mezzo per ottenere l'indipendenza. Il risultato è un'impasse totale.
Ma la vita va avanti, giorno dopo giorno. Il problema della sicurezza non è più la priorità assoluta, tanto che il contingente militare internazionale, la Kfor, è passato dai 41mila uomini del '99 ai 17mila di oggi. Il nuovo corpo di polizia albanese, a detta di tutti, sta lavorando bene, i pericoli di scontri sono in gran parte più percepiti che reali, tanto che nella travagliata cittadina di Kosovska Mitrovica, sede delle principali violenze del 2004 e dove le due comunità si equivalgono, non ci sono più posti di blocco militari a controllare l'accesso al ponte che unisce le due parti. Nessuno comunque pensa che sia arrivato il momento di far partire le truppe delle Nazioni Unite. E pochi ritengono che la classe politica kosovara abbia sviluppato una sufficiente maturità democratica. Insomma, l'ultima mano del poker kosovaro, ammesso che l'Europa voglia giocarsela con più convinzione degli Stati Uniti (sarebbe davvero il momento) andrebbe condotta a carte scoperte, cominciando sgombrare il tavolo dalle pretese di uno dei giocatori (la Serbia).
In altre parole, la discussione sull'indipendenza del Kosovo non dovrebbe più riguardare minimamente la sovranità di Belgrado su questo territorio che non c'è e non ci sarà più, ma dovrebbe trasferirsi esclusivamente sul tema dei diritti dei cittadini, e quindi della tutela della minoranza serba. I tempi per l'indipendenza, ormai indiscutibile, dovrebbero essere quelli della maturazione democratica delle istituzioni kosovare, monitorate dalla comunità internazionale. Con l'unica prospettiva, per tutti i popoli balcanici, di diventare presto cittadini europei.
Cesare Sangalli