Reportages
Pubblicato su "Galatea" luglio 1999
Il 31 dicembre 1999 il Canale tornerà ai suoi legittimi proprietari
Panama, la fine del “secolo americano”
Nato nel 1903 come protettorato USA per la costruzione del passaggio fra Atlantico e Pacifico, lo stato panamense ha sognato a lungo una vera sovranità. Un sogno che sembrò svanire dopo l'invasione dei marines per catturare Noriega. Ma la data tanto attesa sta per arrivare e Panama vive una stagione di grande cambiamento con l'elezione di Mireya Moscoso, la prima donna presidente nella storia della repubblica
Se ne vanno. La smobilitazione è iniziata nelle basi militari di Howard e Fort Clayton: aerei, mezzi di terra, installazioni. L'ultimo soldato americano lascerà il suolo di Panama a mezzogiorno del 31 dicembre 1999. E allora il Canale, grandiosa costruzione dell'ingegno umano, nata nello spirito ottimista e visionario di fine Ottocento, sarà tutto dei panamensi. Entrati nel Ventesimo secolo da servi, ne escono da padroni, almeno simbolicamente.
Ma forse l'enfasi nazionalista non appartiene più di tanto a questa gente amabile, sempre pronta alla battuta, abituata a vedere il lato comico anche nelle vicende più drammatiche. Panama City è un po' Napoli sull'Oceano Pacifico, porto e ponte fra due Americhe, adesso anche fra due secoli, fra due millenni. Le prospettive ingannano, qui, a cominciare dai punti cardinali, visto che il sole sembra sorgere dal Pacifico e tramontare verso l'Atlantico: qualcosa nasce, qualcosa muore, ma non è detto che tutto sia come appare a prima vista.
“E' un peccato che gli americani vadano via: ci saranno meno dollari in circolazione”: l'opinione del classico tassista è condivisa da molti, perché Panama ha un lato affaristico, da Paese di servizi a tecnologia avanzata e lusso ostentato, anche se intorno alle società “off-shore”, alle banche, ai “duty free” e alla più grande marina-ombra del mondo, c'è un paese agricolo e di foresta pluviale.
Con una popolazione di solo due milioni e mezzo di abitanti, Panama potrebbe essere la Svizzera dell'America latina, il miracolo post-industriale, tutto capitali stranieri e niente tasse. E invece no. Anche se gli indici di sviluppo umano la collocano al 45° posto nel mondo (l'Italia è al 21°, il vicino Nicaragua al 127°), Panama ha il 46 per cento della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà, e la peggiore distribuzione della ricchezza dopo il Brasile. Il contrasto c'è e si vede, passando dai grattacieli dell'Avenida Balboa alle vie di Casco Viejo, quartiere storico che resta bellissimo nonostante la decadenza, o agli agglomerati di Barraza e Chorrillo, zone “off limits” dove agiscono bande dai nomi fantasiosi (come “Los Angeles de Dios” o “Madre Naturaleza”). La violenza, però, non è la caratteristica di questa nazione. Non c'è mai stata guerriglia, a Panama, e anche la peggior dittatura militare, quella di Noriega, non ha lasciato dietro di sé una scia di crimini impuniti.
Il trauma più grande nella storia del Paese resta sicuramente l'invasione americana del 1989. L'”Operazione Giusta Causa” venne presentata al mondo dal presidente Bush come un'azione di polizia internazionale: da tre anni Manuel Noriega, detto Cara de Pina (“Faccia d'ananas”), misterioso capo dei servizi segreti panamensi, quindi generale golpista e presidente, era accusato di essere un esponente del narcotraffico. Fu il New York Tomes a iniziare la campagna contro il dittatore, parlando del riciclaggio di denaro sporco attraverso le banche di Panama City. Il Congresso americano lo accusò successivamente anche di traffico di armi e spionaggio industriale a favore di Cuba, e di essere il mandante dell'omicidio di Hugo Spadafora, un leader politico dell'opposizione. Noriega giocò la carta nazionalista contro l'interferenza americana, e sfidò il boicottaggio internazionale deciso dagli USA.
Il 20 dicembre 1989 un corpo di 26mila soldati americani occupò la capitale panamense, dopo un violento bombardamento aereo sulle postazioni militari. Dopo alcuni giorni di scontri, Noriega, che si era rifugiato nella rappresentanza diplomatica del Vaticano, si arrese. L'“Operazione Giusta Causa” venne minimizzata nei suoi “effetti collaterali”: in realtà, secondo fonti della Chiesa cattolica, è probabile che i morti panamensi siano stati un migliaio (24 furono i soldati americani caduti).
Per metà Panama fu una liberazione, per l'altra metà un'invasione brutale. La gente si era in qualche modo abituata al regime dei militari, che di fatto avevano sempre detenuto il potere. Una storia tragicomica, quella della democrazia a Panama, per fortuna infinitamente meno violenta di altri paesi latinoamericani. Una storia con due grandi protagonisti e un denominatore comune: Arnulfo Arias, ossia la società civile, e Omar Torrijos, cioè l'esercito; nemici storici uniti dal nazionalismo populista.
I loro destini si incrociano nel 1968: Arnulfo Arias, un medico di enorme carisma, autoritario fino all'arroganza, con una visione paternalistica della società, vince per la terza volta nella storia del paese le elezioni presidenziali. E per la terza volta, viene spodestato da un colpo di stato. La leggenda metropolitana vuole che i veri golpisti andarono a chiamare Omar Torrijos, un ufficiale di secondo rango, a casa sua e lo trovarono ubriaco: avevano bisogno di un prestanome da presentare all'opinione pubblica. Omar Torrijos obbedì: era un uomo di umili origini e continuava a sentirsi uno del popolo. Ma la personalità non gli faceva difetto: prese saldamente in mano le redini della nazione e le lasciò solo alla sua morte, in un incidente aereo nel 1981 (qualcuno sostiene che non si trattò di un incidente).
Se Arnulfo Arias aveva creato la previdenza sociale e portato il diritto di voto alle donne, Omar Torrijos fu l'autore di grande riforme sociali e per il diritto allo studio, con una politica di intervento statale nell'economia e di nazionalizzazioni anche se all'insegna del deficit spending, dell'aumento del debito pubblico. La sua fama negli anni Settanta arrivò a competere, per lo meno in America Latina, con quella di Fidel Castro e raggiunse l'apoteosi con gli accordi Carter- Torrijos del 1977 che abrogarono il vergognoso trattato del 1903 e posero un termine (il 31 dicembre 1999) alla sovranità americana sul Canale.
Arnulfo Arias e Omar Torrijos, autoritarismo democratico contro dittatura dal volto umano. In mezzo, la difficile accettazione del gioco elettorale, la sfida sempre incerta del consenso popolare, con una tradizione incredibile di trucchi, intimidazioni, brogli spudorati.
Prima di morire, nel 1986, Arias fece in tempo a vincere le sue quarte elezioni, nel 1984: ma il “poker” non gli sarà mai riconosciuto, perché i militari fecero risultare vincitore, per una manciata di voti, Nicolas Ardito Barletta (da allora chiamato “Ardito fraudito”: i soprannomi sono una divertente mania dei panamensi). Il dominio incontrastato dei militari veniva camuffato in maniera grottesca, atteggiamento che alimentava la vena ironica della gente. Ci fu addirittura un presidente, Aristides Royo, che venne “dimissionato” da Omar Torrijos per un mal di gola (“gargantazo” , secondo la definizione popolare, di quelle che poi restano nella memoria collettiva, come la “legge truffa” o il “ribaltone” in Italia).
Questo atteggiamento del “vivi e lascia vivere”, sempre a metà fra la tragedia e la farsa, viene interrotto con l'invasione americana. La società è spaccata in due, gli “arnulfisti” beneficiati dall'intervento americano e rappresentati dal nuovo presidente Endara cercano di vendicarsi degli eredi di Torrijos, organizzati nel PRD (Partido Revolucionario Democratico), che non dispone più dell'ombrello militare, visto che l'esercito è stato abolito.
La frattura provocata dall'intervento americano poteva diventare irreversibile. Ma la classe politica panamense, scioccata dallo spettro della guerra civile, comincia a cercare una faticosa riconciliazione. La prima esigenza è quella di trovare un terzo soggetto, che sia arbitro e interlocutore delle due fazioni. Questo soggetto viene individuato nella Chiesa cattolica, attraverso la commissione “Justicia y Paz”, che inizia a lavorare per “tendere ponti” (vedi intervista a Stanley Muschett).
Il “patto etico - elettorale” del '93 porta alle prime elezioni veramente libere e democratiche di Panama, quelle del 1994. Vince il candidato del PRD, Ernesto Balladares, detto “El Toro”. Per la prima volta nella storia del paese, tutti i candidati riconoscono la vittoria del nuovo presidente. Fra i perdenti ci sono un cantante molto amato dai giovani, Ruben Blades, del movimento “Papa Egorò” (ribattezzato ironicamente “Papa engordò” - cioè “papà è ingrassato”), ma soprattutto Mireya de Gruber Moscoso, vedova di Arnulfo Arias, che ottiene il 30 per cento dei voti.
Mireya sembra uscita da una telenovela a sfondo politico: giovanissima attivista del partito arnulfista, diventa segretaria personale del dottor Arias alla fine degli anni Sessanta. I due si innamorano, e il golpe di Omar Torrijos nel '68 accelera la loro unione: esiliati negli Stati Uniti, Arnulfo e Mireya si sposano, nonostante la differenza di età: lei ha ventisei anni, lui, fino a quel momento il più grande leader panamense, ne ha settanta. Arriveranno quasi a celebrare le nozze d'argento: alla morte di Arias, Mireya eredita la leadership del partito arnulfista, dimostrando fin da subito un'autorità indiscutibile.
Mentre l'opposizione cresce, il “Toro” Balladares porta avanti una politica liberista, privatizzando tutto ciò che il generale Torrijos aveva nazionalizzato. Il suo carattere aggressivo non lo salva dall'accusa di aver ricevuto 50mila dollari da un boss del narcotraffico colombiano per la campagna elettorale del '94. La corruzione dilaga nel paese, la distanza già grande fra ricchi e poveri aumenta. Il PRD resta di gran lunga il partito più solido e organizzato, ma il vento del cambiamento si fa sempre più forte, a Panama. La “cupola” del partito se ne accorge nel 1998, quando cerca di riformare la costituzione con un referendum popolare, per dare la possibilità a Balladares di ricandidarsi (la classica vocazione del caudillo latinoamericano, basta pensare a Fujimori in Perù o a Menem in Argentina). Il risultato è clamoroso: oltre il settanta per cento dei panamensi boccia la proposta. Per il “Toro” Balladares è uno schiaffo insostenibile, anche perché aveva totalmente personalizzato il referendum. Bisognava cambiare, e in fretta, visto l'approssimarsi dell'appuntamento elettorale; e chi vinceva nel '99, “vinceva” il Canale ed entrava di diritto nella Storia.
Così, nuova puntata della telenovela politica, spunta la candidatura di Martin Torrijos, 35 anni, figlio del leggendario (per molti famigerato) generale Omar.
Il giovane Martin è cresciuto secondo i princìpi del padre, che lo spedì giovanissimo in Nicaragua ad aiutare i sandinisti (un'esperienza simbolica). Con una solida formazione universitaria, tutta di marca americana, e un'esperienza di manager per la “Mc Donald's” a Chicago, Martin trova subito spazio nel governo di Balladares, di cui sembra il delfino (e infatti viene immediatamente ribattezzato “el Ternero” - “il vitello”, visto che Balladares è “il toro”). Ma le cose non stanno così: Martin rappresenta la nuova generazione che chiede cambiamenti, è pulito, ha un curriculum di tutto rispetto. I sondaggi lo danno vincente, ma i “vecchi” del PRD non lo aiuteranno veramente.
Il 2 maggio 1999 si vota in un clima elettrizzante: la vedova di Arnulfo Arias, all'opposizione, contro il figlio del generale Omar Torrijos, che rappresenta il governo in carica. Un derby politico che raccoglie la storia moderna del Paese, accende le discussioni nei bar e sugli autobus, trasforma Panama in un carnevale di colori, di slogan, di facce sorridenti attaccate ai muri, di bandiere sventolanti dalle macchine in corsa. Nessuno si nasconde, le dichiarazioni di voto sono esplicite, nessuno si sottrae alle discussioni, vivacissime ma mai violente, grazie al grande senso dell'umorismo di tutti.
Durante la campagna, gli scambi fra i candidati sono duri, ma non scadono nell'insulto. Retorica a fiumi, citazioni letterarie, frasi ad effetto: qui non si vuole sentire parlare di tassi di sconto o aliquote, si vuole il brivido dell'emozione, la libertà di sognare la Panama che verrà, il Nuovo Millennio.
Saranno anche i sintomi di un'adolescenza politica, ma quella di domenica 2 maggio diventa una “verdadera fiesta democratica”, come ripetono in coro le giovani scrutatrici e gli scrutatori dei seggi nei centri popolari, come San Miguelito, quelli dove tradizionalmente si imbrogliava, dove in passato ci si scontrava violentemente, dove spesso ci scappava il morto.
Ora c'è il tempo di ridere insieme, osservatori arnulfisti e PRD, della signora che non voleva mettere il dito nell'inchiostro indelebile per non rovinarsi le unghie.Lo spoglio delle schede inizia però in un clima di religioso silenzio, con decine di persone affacciate alle finestre per sentire la nervosa litania del voto: “Martin, PRD; Mireya, arnulfista....”
La sera, più o meno a sorpresa, vince Mireya, vince l'opposizione, la voglia di cambiamento, il voto delle donne e delle classi più disagiate. Ha votato più del settanta per cento della popolazione, gli osservatori internazionali dichiarano che tutto si è svolto nella più trasparente regolarità. Per le strade del centro sembra la vittoria della Coppa del Mondo, caroselli di auto, gente che balla e canta, ingorghi paurosi: e quando senti le voci dei bambini che gridano in coro “se siente, se siente, Mireya presidente” , non puoi non sentire un po' di commozione per un'altra piccola, grande vittoria della democrazia in una America latina così tormentata, in un mondo (il nostro) così indifferente alla politica.
Domani è un altro giorno, tutti i problemi ritorneranno nella loro grigia concretezza: primo fra tutti, l'acquisizione del Canale e il rapporto con gli Stati Uniti. “A livello tecnico, di gestione operativa, siamo già pronti da un pezzo - spiega Jaime Boccanegra, 39 anni, gerente dell'ufficio amministrazione della Commissione del Canale - Abbiamo lavorato insieme agli americani fin dal 1990, il personale è ormai quasi esclusivamente panamense. L'Autorità del Canale funzionerà come un'impresa privata con controllo pubblico: dobbiamo lavorare secondo gli standard del mercato mondiale, che è estremamente competitivo, e questa è forse la migliore garanzia per l'efficienza della nuova gestione”. Nessun problema, quindi? “C'è un certo nervosismo, insieme al legittimo orgoglio, per la forte valenza simbolica e il grande impatto psicologico sulla nazione: ci sentiamo un po' come un giovane che esce dalla casa dei genitori per vivere la sua vita indipendente”. Questo è forse il paragone migliore per spiegare la sensazione dei panamensi. I legami con gli USA non finiranno certo il 31 dicembre, considerando l'enorme influenza economica e politica di Washington su tutto il continente. Panama poi ha un'economia “dollarizzata” da sempre: non esiste una Banca Centrale, la valuta panamense (il balboa) serve solo per le somme infime, è il dollaro la vera moneta nazionale. I panamensi ne sono perfettamente consapevoli.
Eppure, i “tutori” americani sentono l'esigenza di minimizzare ulteriormente l'importanza del passaggio, ma faticano a nascondere un certo imbarazzo. All'ufficio stampa del consolato statunitense non sanno come presentare la faccenda: si parla del trattato Carter-Torrijos del '77 (che è comunque favorevole agli Stati Uniti, soprattutto per la “clausola di neutralità” che prevede la possibilità di un intervento militare USA qualora sia minacciata la libera circolazione nel Canale) come di un “errore”, dovuto al fatto che Carter “si vergognava di avere una specie di colonia”. Una generosa concessione, insomma, e non il frutto di una volontà storica di Panama per ottenere ciò che gli spettava. Alla fine, si opta per una “separazione consensuale” che mette fine ad un rapporto “agrodolce”. Ma basta allargare il quadro a tutta l'America Latina per percepire tutta l'arroganza e l'ipocrisia dei padroni del mondo, che negano qualsiasi responsabilità nelle tragedie del loro continente.
Non è così per tutti i figli dello Zio Sam che vivono qui. Alcuni, soprattutto i “sudisti” di religione battista, non si sono mai mescolati con la gente del posto, vivendo un isolamento totale. Molti altri, invece, soprattutto i figli delle numerose famiglie miste, sono cresciuti qui e non sanno quasi niente della vita negli “States”. Le scuole americane hanno finito il loro ultimo anno di scuola, e alla festa di fine anno le lacrime scorrevano a fiumi. Molti “emigreranno” negli USA, altri resteranno qui. Passaggi difficili, scelte di vita.
Prospettive incerte come il sole di Panama: qualcosa nasce, qualcosa muore, nessuno sa esattamente quale America sarà quella del prossimo secolo.
Però non c'è, non ci può essere vera malinconia nel perdere (e solo parzialmente) i protettori, i tutori dell'Ordine Mondiale (che è “Nuovo” solo nell'ipocrita definizione coniata da George Bush).
Panama può costituire un piccolo, grande esempio per i tanti, troppi paesi a “sovranità limitata”: quella che poteva essere l'ennesima, insignificante “repubblica delle banane” gestirà da sola uno dei più grandi collegamenti mondiali, il passaggio fra due oceani.
Il messaggio che i panamensi lanciano al mondo, all'alba del nuovo secolo, è un pacifico, sereno, gentile: “Yankee go home”.
Cesare Sangalli
L'intervento di Stanley Muschett, presidente della Commissione “Justicia y Paz”
Scuola di democrazia
E' uno degli artefici del miracolo democratico di Panama, ma non lo fa mai notare. Lo stile è comunque molto energico, parole chiare e dirette, da persona abituata a trattare con il Potere. Stanley Muschett Ibarra, 50 anni, è il rettore dell'Università cattolica “Santa Maria La Antigua”, conosciuta da tutti come “USMA”, ma soprattutto è il presidente della commissione “Justicia y Paz”, l'organismo per la difesa dei diritti umani creato dai vescovi panamensi nel 1991, per ricostruire una società lacerata, priva di un passato e di una vera cultura democratica. Panama non era più la stessa, dopo l'invasione americana: Noriega era stato cacciato, l'esercito che aveva sempre comandato era stato abolito, la legalità istituzionale ripristinata, ma ad un prezzo enorme.
Troppi morti, per un'operazione di polizia internazionale, troppi rancori fra “arnulfisti” ed eredi di Torrijos. Bisognava “costruire ponti” fra le due fazioni, e questo è stato il lavoro di “Justicia e Paz” per i primi due anni.
Quando si è verificata la svolta, nel confronto politico?
R - Nel 1993, quando abbiamo proposto ai partiti un patto etico-elettorale, per una campagna senza violenze, minacce e insulti, ma centrata piuttosto su proposte di governo alternative. I partiti accettarono, facendo di noi i primi garanti del processo democratico. Un impegno solenne, che venne sostanzialmente rispettato. Era una novità assoluta per il Paese, che usciva da venticinque anni di dittatura militare. Il popolo panamense ha dimostrato poi la sua maturità democratica già a partire dal referendum dello scorso anno. Il referendum è stata la svolta decisiva, il consolidarsi di una democrazia, come si è visto durante queste ultime elezioni.
Chi sono, tradizionalmente, i seguaci di Arnulfo Arias e quelli di Omar Torrijos?
R- Non è facile identificare esattamente gli uni e gli altri. Sia Arias che Torrijos avevano un grande consenso popolare, e allo stesso tempo l'appoggio dei settori forti dell'economia. Entrambi hanno giocato la carta nazionalista e quella populista, anche se i loro eredi hanno dovuto ridefinire la loro politica economica. Balladares, per esempio, ha vinto le elezioni con lo slogan “il popolo al potere”, ma poi ha attuato la politica più liberista di tutti i tempi.
Adesso però tutti sostengono di essere dalla parte dei poveri: neanche Alberto Vallarino, candidato del settore finanziario, vuole fare il leader della destra...
R- Il problema della povertà è senza dubbio prioritario, nel nostro paese. Esistono di fatto due Panama, oggi più estranee che mai: quella delle banche, della finanza, della “zona franca” e quella marginale dei disoccupati, degli agricoltori, dei dipendenti pubblici. La distanza fra richhi e poveri comincia ad aggravarsi negli ultimi anni del regime di Noriega e oggi si sta ulteriormente approfondendo, anche perché il primo obiettivo negli anni Novanta è stato quello di tornare ai livelli di crescita che avevamo prima dell'invasione americana.
Non sono in pochi a pensare che Panama debba insistere sul modello di nazione “duty free”...
R- Esiste sicuramente una vocazione storica, quasi naturale di Panama ad essere centro di transito, di commercio. Il nostro è un paese che ha “saltato” quasi obbligatoriamente la fase industriale per diventare economia del terziario. Questo complica la situazione, perché abbiamo a che fare con la finanza internazionale, con una ricchezza difficile da redistribuire. Il paradosso è che la creazione della Panama “off shore” è stata concepita dal governo di Torrijos nel '79, con una forte opposizione americana, perché gli USA temevano di perdere il monopolio degli affari. Ma le 125 banche, le società anonime e il registro delle navi, a parte un buon numero di impieghi, portano ben poco alla nazione.
Però adesso sembrano esserci le condizioni per un cambiamento...
R- Sì, Panama è pronta per un profondo cambiamento. Adesso c'è una base politica trasparente e affidabile, con il totale recupero della sovranità nazionale. La gestione del canale porterà con sé nuovi stimoli per l'economia, nuove possibilità prima inesplorate. Proprio per questo, l'unico vero obiettivo è quello di lottare contro la povertà attraverso la solidarietà. E' necessaria una nuova politica sociale, che passa indubbiamente attraverso un nuovo regime fiscale. Ci sono cittadini che pagano più imposte di intere compagnie: la sovranità che abbiamo recuperato a livello internazionale deve diventare una sovranità effettiva, il sogno politico diventare sogno umano. Stiamo andando nella direzione giusta, e questo mi rende ottimista per il mio Paese.
Cesare Sangalli