Reportages
Pubblicato su "Galatea" giugno 2003
Il paese sudamericano cerca di uscire da una crisi drammatica
Venezuela, la sottile linea rossa
Quarant'anni di democrazia (e di corruzione) non sono bastati ad armonizzare una società divisa dalle ingiustizie. La ricchezza petrolifera si è rivelata, come sempre, una maledizione. Hugo Chavez sembrava il messia della “rivoluzione bolivariana”, oggi sembra il fratello scemo di Lula. Ma l'opposizione che ha paralizzato il paese per due mesi è di gran lunga peggiore. La speranza di uscire dall'incubo di una guerra civile annunciata sta tutta nel popolo venezuelano
In Venezuela, una sottile linea rossa separa la verità dalla menzogna, la politica dalla propaganda, la realtà dalle apparenze. Una sottile linea rossa divide il pessimismo più cupo dalle speranze più rosee. E' come se il paese fosse incinto, con una gestazione lunga e difficile, e non sapesse ancora se alla fine partorirà un mostro, una nuova creatura o un aborto storico. Per i mass media occidentali c'è solo un padre, il presidentissimo Hugo Chavez Frias, l'uomo che avrebbe fecondato la storia del Venezuela attraverso un coito elettorale durato due anni, dal 1998 (anno della prima sorprendente elezione) al 2000 (anno della riconferma dopo l'approvazione della nuova costituzione).
Ma come nella storia dell'uovo e della gallina, il rapporto di creazione si può invertire: è “la piccola Venezia”, la Venezuela, nazione femminile in spagnolo, ad aver generato Chavez e il chavismo, proprio come aveva creato dal nulla Simon Bolìvar, il grande libertador dell'America del Sud, punto di riferimento obbligato di ogni comandante, di ogni presidente, di ogni dittatore di questo paese indefinibile.
Le piazze e le strade di Caracas ricordano i due in continuazione: monumenti, statue e insegne per Bolìvar, scritte sui muri (pro e contro, più pro che contro) e perfino sulle chiese per Chavez. Slogan e insulti, insulti e slogan. Una sequela interminabile, che prosegue sui giornali (quasi tutti contro Chavez) e in televisione (quasi tutti contro Chavez). Il presidente però ha il suo bel canale di stato a disposizione e la possibilità di andare in onda quando vuole a reti unificate (le temibili cadenas, interminabili messaggi alla nazione piazzati spesso nel bel mezzo delle telenovelas più seguite o durante gli incontri di baseball, lo sport nazionale).
Dal basso del loro ruolo di spettatori-elettori, i venezuelani osservano e giudicano, probabilmente più saggi di come i loro leader se li immaginano, anche se l'ignoranza del venezuelano medio è notevole rispetto a quella di un europeo (però Berlusconi ci ha spiegato che la capacità critica del pubblico italiano è quella di una ragazzino di undici anni poco sveglio e i fatti gli danno ragione). Con Chavez o contro Chavez, uno scontro che le due fazioni vorrebbero titanico, manicheo, il Bene contro il Male, e invece è puerile, grottesco, penoso. E ingannevole. Chavisti e antichavisti vorrebbero entrambi rappresentare il popolo, ma il popolo sembra sempre più scettico. Per chi ama le semplificazioni, si può dire che la maggioranza dei poveri sta con Chavez, ma la maggioranza dei poveri non significa necessariamente la maggioranza del paese.
“Chavez è un prodotto della storia del Venezuela, più precisamente è un prodotto del vuoto politico di questo paese”. Il professor Agustin Blanco Munoz, docente di storia moderna all'Università Centrale del Venezuela, ha una visione molto netta, di chiara scuola marxista, di Chavez e del rapporto fra la società venezuelana e i suoi leader. Un rapporto fra dominatori e dominati, che nasce fin dal trauma profondo dell'invasione dell'America (quella che normalmente si chiama “scoperta”) del 1492 e riproduce all'infinito e sotto varie forme il rapporto fra coloni e colonizzati, che non viene mai messo veramente in discussione, né all'interno, né all'esterno. “L'indipendenza del 1811, per esempio, – spiega Munoz – è solo un patto che permette agli eroi e caudillos, militari e civili di essere i nuovi proprietari della patria”. C'è una linea liberale, più laica e innovatrice, più legata al commercio, e una conservatrice, più legata alla tradizione religiosa e alla terra; c'è una forma civile di governo e una forma militare; ma in sostanza “la libertà è per il capitale, il suo commercio, la sua industria”. Lo stato è il garante della sicurezza e della proprietà dell'oligarchia, in tutte le sue forme, dalla dittatura militare alla socialdemocrazia, contro il “popolo-poveri”.
Chavez sarebbe solo l'ultimo prodotto di questa storia gattopardesca, un rivoluzionario a parole, l'ennesimo “uomo della provvidenza” che non cambia alla radice il sistema sociale, non incide sulla sua ingiustizia fondamentale. Sembra la visione di Eduardo Galeano (che Munoz conosce, ma che considera poco rigoroso, “emocional”) nel suo classico “Le vene aperte dell'America Latina”: “…Il benessere delle nostre classi dominanti – dominanti all'interno, dominate da fuori – è la maledizione delle nostre moltitudini condannate ad una vita da animali da soma”.
Ma il Venezuela presenta anche un'altra storia, diversa da quella di tutti gli altri paesi latinoamericani. “Se si fa il paragone con il passato, o con gli altri stati, possiamo dire che in Venezuela la democrazia esiste, senza alcun dubbio”, sostiene il professor Samuel Moncada, altro docente di storia all'Università Centrale del Venezuela. Cita subito un dato concreto, a sostegno della sua versione dei fatti: “Questa università venne fondata nel 1725: i laureati sono stati 30mila in oltre due secoli di storia, fino al 1958; ma dal '58 al 1995 se ne contano 170mila, segno di una società profondamente cambiata, dove l'istruzione non è più privilegio esclusivo di una casta di oligarchi”.
La scelta delle date non è casuale: nel 1958 finisce l'ultima dittatura militare del Venezuela, quella di Perez Jimenez. Ma il primo vero sussulto libertario della società venezuelana risale al 1935, alla morte del grande dittatore e padrone assoluto del Venezuela, Juan Vicente Gòmez. Finiva un lunghissimo tunnel dispotico, iniziato addirittura nel 1908. Ventisette anni che vedono la trasformazione del paese secondo tre direttrici fondamentali: il passaggio all'economia petrolifera; l'urbanizzazione ( con la crescita demografica); l'affermazione della società civile e delle sue aspirazioni democratiche.
Lo sfruttamento del petrolio inizia nel 1914, e nel 1926 l'economia venezuelana si può già considerare petrolifera, visto che più della metà delle esportazioni si deve all'oro nero estratto quasi tutto nell'enorme lago di Maracaibo. La società rurale legata al latifondo e alla produzione di cacao e caffè comincia a declinare rapidamente, e altrettanto rapidamente la popolazione comincia a lasciare le campagne per trasferirsi in città. Caracas si moltiplica per sette in trent'anni, e diventa il centro della vita politica.
Il leader per eccellenza di questa nuova fase è Romulo Betancourt. Comunista di formazione, Betancourt opta per una sinistra non ideologica, moderata e populista. Il suo partito Acciòn Democratica (AD) porta avanti le istanze popolari di avanzamento sociale. A destra, è invece il nazionalismo cattolico di Rafael Caldera ad orientare gli istinti reazionari dei settori tradizionali verso una specie di Democrazia Cristiana, che più tardi si chiamerà COPEI e darà vita al perfetto sistema bipolare (perfetto soprattutto nella spartizione del potere) alternandosi con gli “adecos” (quelli di Acciòn Democratica).
Però la partita con i militari è ancora tutta da giocare, negli anni Quaranta.
Quando i successori di Gomez si trovano la gente nelle piazze, non sanno che fare; fra il massacro indiscriminato e l'apertura alle nuove forze politiche, scelgono la seconda strada. Ma il processo è irto di difficoltà: gli stessi militari che permettono le prime elezioni libere, nel 1947, si riprendono il potere poco tempo dopo, con il colonnello Marcos Perez Jimenez.
“La mia politica è costruire”, dichiara l'ultimo caudillo modernizzatore, e porta avanti la sua dittatura all'insegna delle grandi opere, delle infrastrutture, ponti, strade e palazzi finanziati dal petrolio. Nella sua visione tranquillamente razzista, è importante migliorare etnicamente il popolo venezuelano, formato in gran parte da meticci discendenti degli indios e degli schiavi neri, considerati indolenti e irrazionali per eredità genetica. Porte aperte quindi all'immigrazione europea, dai paesi poveri, latini e cattolici: Spagna, Portogallo, Italia. Sono anni di forte crescita, il Venezuela promette ottime prospettive, gli italiani arrivano in massa, grandi lavoratori e fedeli sostenitori del regime (come la stragrande maggioranza degli italiani in Sudamerica – e non solo - hanno un'ottima propensione all'economia e una scarsissima coscienza politica).
Non sono certo loro i protagonisti della caduta del regime di Pérez Jimenez (anzi subiranno anche un certo numero di rappresaglie), né del ritorno trionfale della democrazia e di Romulo Betancourt nel 1958.
Ne l 1961 si approva la nuova costituzione, la ventiseiesima dall'indipendenza (ogni generale golpista si sentiva obbligato a cambiare lo stato a sua immagine e somiglianza) che durerà fino al 1999, fino all'avvento di Chavez..
Gli anni Sessanta sono i più turbolenti della storia venezuelana. La rivoluzione cubana di Fidel Castro e Che Guevara ha incendiato il continente, innescando la tenaglia che per un quarto di secolo strangola la democrazia nel continente: guerriglia comunista, più o meno appoggiata dall'Unione Sovietica, contro regimi militari fascisti, sostenuti spudoratamente dagli USA. La giovane democrazia venezuelana nasce consociativa per forza: deve lottare contro la guerriglia e guardarsi le spalle dalle tentazioni golpiste dell'esercito (i tentativi di colpo di stato si alternano come le stagioni). Per questo, con il famoso “patto di Punto Fijo” si costruisce un'alleanza di ferro fra centrosinistra (Acciòn Democratica) e centrodestra (Copei), coinvolgendo la Chiesa cattolica, gli imprenditori e i sindacati. Questa è la grandezza e al tempo stesso il limite del sistema politico venezuelano, fin dalle origini. Questo paese non conoscerà mai la notte dei diritti umani, i desaparecidos, gli squadroni della morte, le camere di tortura di tutti gli altri paesi del continente, anche quelli storicamente più avanzati (come il Cile e l'Argentina). Negli anni Settanta, il Venezuela è il solo paese libero che esiste fra il canale di Panama e la Patagonia, e questo non è risultato da poco.
Ma allo stesso tempo, tutto il sistema politico ruota attorno alla congrua spartizione della torta petrolifera. E' un sistema che radica la corruzione a tutti i livelli, elimina i conflitti sviluppando una cultura parassitaria aberrante, costruisce una mentalità consumista di stampo americano che è il trionfo dello spreco, dell'ignoranza e del cattivo gusto. Il Venezuela democratico degli anni Sessanta è fin dal principio una nazione di rentiers , uno stato in cui l'abbondanza di petrolio è la chiave per risolvere ogni problema.
La guerriglia rivoluzionaria fallisce soprattutto perché parte dalle campagne, che nel frattempo si sono svuotate. Oltretutto gran parte della terra appartiene allo Stato, anche se proprio in questi anni si crea una nuova classe di latifondisti che si accaparrano spesso in modo illegale migliaia di ettari abbandonati. Nel 1966 i guerriglieri sono già sconfitti militarmente; a partire dal '69, proprio con la presidenza del democristiano Caldera, vengono integrati nel sistema politico, quasi senza eccezione: faranno tutti carriera (uno di loro, Alì Rodriguez Araque è oggi il presidente della potentissima compagnia petrolifera di stato PDVSA).
Gli anni Settanta sono vissuti in assoluta controtendenza rispetto non solo al resto del continente, ma al mondo intero. Sono gli anni della “Venezuela saudita”, la cuccagna petrolifera, data dal continuo aumento del prezzo del petrolio. A raccogliere i frutti della bonanza è soprattutto il presidente Carlos Andrés Pérez di AD (il centrosinistra è tornato al potere).
Nel decennio 1973-1983 un fiume di petrodollari si rovescia nel paese: il barile di greggio passa da 4 a 12 dollari in un anno (1974); nel 1980 è più che raddoppiato (30 dollari); arriva al massimo storico (36 dollari) nel 1983, anno che segna però l'inizio della crisi economica.
Caracas è diventata “un centro della cultura del petrolio che preferisce il consumo alla creazione e che moltiplica i bisogni artificiali per nascondere quelli reali”, scrive un profetico Eduardo Galeano (“Le vene aperte dell'America Latina” è del 1971). Ma “nelle baracche di lamiera sulle colline, oltre mezzo milione di dimenticati contempla, dalle sue capanne circondate di spazzatura, lo sperpero degli altri”. Ecco la bomba a orologeria economica e sociale di cui nessuno sembra avvertire il ticchettio.
Nessuno fa niente per ridurre le disuguaglianze all'interno della società. Nessuno si accorge che la popolazione del Venezuela praticamente raddoppia in un decennio (da otto a 14 milioni, oggi sono 24) con una nuova immigrazione povera dagli altri paesi sudamericani, in particolare dalla Colombia. Le briciole che cadono dalla tavola dei privilegiati sembrano tenere buoni tutti quanti, le vacche grasse non finiranno mai, si pensa.
Così, i partiti, dediti alla scrupolosa spartizione della torta, si allontanano dalla gente che non fa parte del gioco (AD arriva negli anni Ottanta alla cifra pazzesca di 2 milioni e 300mila iscritti al partito). Il sindacato si limita a rappresentare i numerosissimi dipendenti statali: per trovare lavoro si deve pagare la tangente. Gli imprenditori (se così si possono definire) procedono da un investimento sballato all'altro, continuamente finanziati a fondo perduto dallo Stato. Si importa di tutto, non si produce quasi niente, i ricchi fanno shopping a Miami ogni settimana. Le banche, emanazione del sistema politico, continuano a concedere crediti praticamente illimitati ai numerosi clienti, ovviamente “amici degli amici”. Nessuno paga, nessuno rimborsa, tanto c'è il petrolio. Carlos Andrès Perez nazionalizza l'industria di raffinazione e distribuzione del petrolio: PDVSA, la madre di tutte le ricchezze, che diventa uno stato nello stato, una tecnocrazia che vive in un mondo a parte, ultraconservatrice, con i suoi adepti che restano fedeli all'azienda dalla culla alla tomba. In un paese dove praticamente le tasse non esistevano, l'ottanta per cento delle entrate statali era dato dal petrolio.
Nel 1983, quando la crisi finanziaria in Messico spaventa le banche internazionali, finalmente si fanno un po' i conti (di cui i politici avevano perso completamente il controllo): il Venezuela si ritrova con un debito estero di 30mila milioni di dollari, dopo aver incassato più soldi in un decennio che in tutta la sua storia precedente. Per la prima volta la follia economica viene certificata. Ma non basta ad invertire la rotta. Bisogna arrivare all'esplosione sociale, che arriva puntuale il 27 febbraio del 1989, il giorno nero della democrazia venezuelana, il punto di non ritorno di un sistema politico marcio fino al midollo.
Carlos Andrés Pérez aveva vinto da poco le elezioni presidenziali per la seconda volta, promettendo l'impossibile, cioè il ritorno agli anni della “Venezuela saudita”. Una demagogia senza scrupoli: Pérez aveva già accettato la cura da cavallo imposta dal FMI, e appena insediato alla presidenza calò la scure monetaria: prezzi liberi sul combustibile, aumento spropositato dei trasporti, tagli alle spese sociali. Mentre i capitali continuavano tranquillamente a uscire dal paese (oggi i venezuelani tengono all'estero, in forme diverse, 140mila milioni di dollari), i commercianti stoccavano i beni di consumo, soprattutto alimentari, per lucrare sull'aumento dei prezzi al momento dell'inevitabile svalutazione del bolivar, la moneta nazionale. Questi fattori combinati (la gente si trovò a fine mese senza soldi e senza generi alimentari) portarono al saccheggio indiscriminato di Caracas. Un'autentica rivolta del pane: i poveri esasperati scesero dai barrios delle colline per prendersi tutto quello che potevano. Al terzo giorno di anarchia, scattò la mattanza: l'esercito scese nelle strade e penetrò nei barrios, sparando senza pietà sulla gente (ladri, delinquenti, immigrati clandestini, poveri vagabondi). Ci furono 246 morti ufficiali, almeno tremila nella realtà, una carneficina fatta passare per limpieza social (fare piazza pulita delle persone più scomode). Il presidente Pérez finirà la sua carriera politica condannato per corruzione qualche anno dopo.
E' in questo contesto storico che emerge la figura di Hugo Chavez Frias. Classe 1954, origini umilissime, tenente colonnello dei paracadutisti, ottimo giocatore di baseball, Hugo Chavez decide che è l'ora di farla finita con il sistema politico vigente. Si identifica in Bolìvar, perché crede nell'alleanza fra popolo ed esercito, crede nell'onestà, nel riscatto della sovranità nazionale, nella giustizia sociale. Prepara con altri ufficiali un colpo di stato per il febbraio 1992. Il golpe fallisce miseramente, ma Chavez si garantisce un enorme popolarità, assumendosi tutta la responsabilità dei fatti e accettando per questo la galera (in Venezuela non lo fa nessuno) e dichiarando come un profeta: “Ritornerò”.
Dopo cinque anni di prigione, graziato dal vecchio presidente Caldera, rieletto come “ultima speranza bianca” nel '92, Chavez decide di abbandonare la via insurrezionale per darsi alla politica.
L'elettorato non ne vuole più sapere dei vecchi partiti, tanto che il candidato presidente più popolare in quel momento è una ex Miss Universo, Irene Saez. E quando i democristiani si schierano con lei, la gente subito si allontana: anche Irene è parte del sistema, resta solo Chavez. Un uomo coraggioso contro quelli che comandano (partiti politici, imprenditori, sindacati, tecnocrazia petroliera, Chiesa cattolica). Hugo Chavez vince per questo, e perché è l'unico che sa parlare alla povera gente. E' certamente un populista a tutto tondo, ma è sincero, perché è un vero uomo del popolo, uno zambo (mezzo nero mezzo indio) che non ha nessuna intenzione di assimilarsi al mondo dei ricchi, che si esprime come la gente più umile, che per la prima volta nella storia del Venezuela tratta gli ultimi con rispetto, anzi con amore.
Ancora oggi è capace di far fermare l'auto presidenziale per abbracciare una vecchia donna di colore, tutta sudata e malvestita. Le donne povere si innamorano di lui, l'uomo più potente del Venezuela che le tratta meglio dei loro mariti: “Con hambre y desempleo, con Chavez me resteo” (“con la fame e la disoccupazione, resto con Chavez”).
Le classi dominanti del Venezuela sono inorridite dall'uomo. E' anche una questione di estetica: gli insulti personali (“pezzente”, “scimmia”, “sguattero”) sono più significativi di quelli politici (“dittatore”, “comunista”, “complice di Fidel Castro”, “socio dei terroristi colombiani”).
Perché Chavez è un militare con chiare tendenze autoritarie, ma agisce sempre nel rispetto della costituzione (la prima approvata a suffragio universale, e con il rinnovo totale di tutte le cariche elettive) e non fa mai intervenire l'esercito per reprimere qualsiasi tipo di manifestazione. Perché minaccia una rivoluzione sociale, ma in realtà abbassa l'inflazione con una politica di spesa restrittiva, non cambia di una virgola gli accordi commerciali con gli USA (anzi pare abbia già venduto agli americani le riserve di gas naturale del delta dell'Orinoco), non concretizza né una vera riforma fiscale, né una vera riforma agraria, anche se triplica i contributi alla scuola pubblica e chiama l'esercito a sistemare un po' di scuole, a creare mense per i bambini poveri, a ristrutturare un po' di ospedali (il “Plan Bolivar 2000”).
La verità è che Chavez difetta di competenza e di capacità politiche. Che sta gestendo male l'economia e usa toni barricadieri tanto inutili quanto sciocchi. Che si sta impelagando nell'eccesso di poteri che la nuova costituzione gli garantisce e che i suoi amici militari piazzati dovunque non sembrano all'altezza della situazione.
Ma la verità è anche e soprattutto che buona parte dell'opposizione è classista ai limiti del razzismo (perché più si fa scuro il colore della pelle, più si scende nella scala sociale), che ha cercato in tutti i modi il colpo di stato, con l'esplicito appoggio della chiesa cattolica in generale e della nunziatura apostolica in particolare, che non accetta di perdere i suoi privilegi ed è disposta a tutto per questo. Il problema è che ha cercato il braccio di ferro, nel dicembre dello scorso anno, e l'ha perso clamorosamente.
I principali attori della sfida a Chavez sono anche i più grandi sconfitti: i dirigenti di PDVSA. I tecnocrati filoamericani (l'ex presidente Luis Giusti oggi lavora per Bush) dell'azienda petrolifera di stato miravano dapprima ad una privatizzazione, per mettersi al sicuro come “stranieri in patria”, in alternativa cercavano una soluzione di forza (cioè un colpo di stato dei militari) per assumere il controllo ferreo del paese, contando su un regime sostenuto dall'esercito. Pensavano che bloccando la produzione e la distribuzione del paese e sabotando gli impianti, avrebbero provocato la fine di Chavez in una settimana. Risultato: l'esercito è rimasto fedele a Chavez, la popolazione ha stretto i denti, l'azione dell'opposizione è miseramente fallita. Per tutta risposta, Chavez, più forte che mai, ha cacciato 13mila dipendenti fra dirigenti e quadri intermedi, ripulendo PDVSA dai suoi nemici e liberandosi di un eccesso di burocrati che appesantivano i costi. Una mossa da perfetto imprenditore liberista. L'esercito aveva già subito un'epurazione soft dopo il tentato golpe guidato dal leader di Fedecamaras (la Confindustria venezuelana) Carmona (che è scappato in Colombia). Gli altri leader della protesta, cioè il nuovo presidente degli imprenditori e il leader del maggiore sindacato venezuelano (che rappresenta solo il 20 per cento dei lavoratori, quasi tutti dipendenti statali) sono uno agli arresti domiciliari e l'altro rifugiato in Costarica.
Per l'opposizione sconfitta, queste sono già le prove tecniche della dittatura che Chavez sta inesorabilmente costruendo. Ora puntano tutto sul referendum revocatorio, un istituto previsto dalla nuova costituzione: trascorsa la metà del mandato per ogni carica elettiva, un certo numero di elettori può chiedere un referendum per confermare o meno la persona eletta.Ma sostengono che Chavez non accetterà mai di perdere il potere per via elettorale.
Dal canto suo Chavez accusa indiscriminatamente l'opposizione di essere golpista e fascista, fa appello un giorno sì e l'altro pure al popolo perché si opponga anche con la forza alla fine della “rivoluzione bolivariana” . Insomma, entrambe le parti usano toni da guerra civile, e i mass media sono indecorosi in questo senso. Ora , con una società letteralmente spaccata, in cui il 60 per cento dei lavoratori dipendenti guadagna il salario minimo (cento dollari scarsi al mese), in cui i disoccupati e i lavoratori irregolari sono quasi il 70 per cento della forza lavoro, dove lo squilibrio sociale assume la fisionomia della delinquenza, con un tasso di violenza allucinante (un centinaio di morti ogni fine settimana nei barrios), aumentare il livello di conflittualità è come accendere la miccia in una polveriera.
Ma una speranza c'è: l'avvento di Chavez, nel bene e nel male, ha dato una scossa enorme al paese, ha fatto parlare di diritti costituzionali un intero popolo, ha fatto sentire cittadini gli esclusi di sempre, ha portato una classe media indifferente e qualunquista a scendere in piazza, a discutere di politica. L'esercito ha accettato due mesi di caos senza colpo ferire. Tutta la potenza delle televisioni si è dimostrata inutile in un paese storicamente teledipendente. Tutte le forme di quello che Munoz chiama liderazgo vertical (comando dall'alto) sono messe in discussione. Il Venezuela, con tutte le sue enormi tensioni, potrebbe anche essere un laboratorio di futuro. Forse ha ragione Eduardo Galeano quando scrive che “…nella storia degli uomini ogni atto di distruzione trova la sua risposta, presto a tardi, in un atto di creazione”.
Cesare Sangalli