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Pubblicato su "Galatea" febbraio 2003

Un piccolo paese con un grande passato affronta la nuova sfida dell'Africa

Benin, il mistero della modernità

Era un regno potente e terribile, chiamato Dahomey.Poi diventò solo la Costa degli Schiavi. Qui è nato il vodoun (voodoo), la religione degli spiriti che nulla poté contro la legge del più forte, sancita dalla Storia scritta dagli europei. Qui il Novecento è arrivato mentre si facevano ancora i sacrifici umani. Ma oggi il Benin è uno dei paesi più liberi dell'Africa nera, in grado forse di sciogliere i nodi che riguardano tutto il continente: i rapporti fra tradizione e modernità, quelli fra città e campagna, e, soprattutto, fra ricchezza e povertà “

.…Malgrado la giustezza della nostra causa e il valore del nostro esercito, non abbiamo potuto nulla contro il nemico bianco, di cui lodiamo il coraggio e la disciplina. (…) Ma la vittoria non appartiene solo agli eserciti che annientano i loro nemici. E' veramente vittorioso l'uomo che, rimasto solo, continua la lotta nel suo cuore. (…) Andate dunque, con la vita salva e forse una nuova libertà. Andate, eroi sconosciuti di una tragica epopea che finisce. Addio, soldati, addio”. Con queste tristi parole di commiato, il re Gbehanzin, ultimo vero discendente dei sovrani del Dahomey, si consegna ai francesi, rifiutandosi di firmare la resa e accettando il tradimento del fratello Agboliagbo, re-pupazzo nelle mani dei nuovi padroni bianchi, che stanno per impadronirsi completamente del continente nero (1894). Il nuovo secolo seppellisce nell'esilio (Gbehanzin in Martinica e Algeria, Agboliagbo in Gabon) una dinastia di dodici re che avevano governato il Dahomey per tre secoli.
I dodici sovrani del Dahomey, condottieri coraggiosi e spietati, imponevano il terrore ai loro sudditi, vivevano in un orribile splendore intriso di sangue e di morte, ossessionati dal potere, dagli intrighi familiari e dalla potenza di una religione, quella che ha dato origine al vodoun, per cui nutrivano un sacro timore. Si sentivano assolutamente alla pari dei loro colleghi europei, con i quali scambiavano doni e informazioni, inviando ambasciatori e organizzando traffici su scala mondiale. Il più redditizio e allucinante vedeva uomini in uscita e armi in entrata: la tratta degli schiavi, altrimenti detta “negriera”. A lungo i re guerrieri, chiusi nei loro palazzi di Abomey, la capitale del regno, si illusero di poter gestire alla pari un gioco che era fin dall'inizio troppo grande per loro: alla fine restò solo la vergogna di aver contribuito alla più grande deportazione di massa del genere umano, di aver venduto i propri fratelli per alimentare un potere impotente. Per gli europei, la solita doppiezza morale, la solita ipocrita visione di una civiltà che si dichiara universale, ma viene destinata ai pochi eletti di razza bianca (e spesso nemmeno a loro).
Uomini come bestie, ammassati, incatenati, marchiati a fuoco (la proprietà va protetta), venduti a peso e pronti a sostituire e integrare buoi, cavalli e somari nei campi, o ammaestrati come orsi e scimmie,e sempre con gli armamentari riservati alle bestie: fruste, lacci, catene, collari. E questo avveniva mentre splendeva l'Illuminismo, mentre i princìpi della Rivoluzione francese conquistavano l'Europa, perfino mentre era stato enunciato il comunismo, quando già si giocava a calcio e a rugby. La tratta degli schiavi finì anche e soprattutto perché non era più conveniente.
La “tragica epopea” che si chiudeva è incarnata perfettamente dalla figura di don Francisco de Souza, detto “Chacha”. Leggendario avventuriero brasiliano, venne spedito in Dahomey (che per gli europei era la Costa degli Schiavi) dal governatore di Bahia nel 1812, per riorganizzare la tratta negriera. Don Francisco amava il rischio, e sempre a cavallo fra la gloria e la morte, stabilì una fatale alleanza con il re Guézo per organizzare l'esercito, la tratta degli schiavi e la produzione di olio di palma. Il dinamismo di De Souza (per questo soprannominato “Chacha”, cioè “rapido” in lingua fon) contrastava con il torpore secolare di un'Africa calda e umida come l'utero del mondo, carica di febbri malariche e apparentemente immobile. Don Francisco ne finì risucchiato, come la sua ricchezza, e perse le sue radici, la sua identità, senza mai appartenere a quella nuova terra ostile, sognando un ritorno in Brasile che non arrivò mai. Morì povero e solo, rinnegato da tutti quelli che aveva arricchito, bollato come infame negriero, scaricato come una reliquia di cui vergognarsi, con uno stuolo incredibile di figli. Era il viceré di Ouidah, la città sacra del vodoun, e il titolo ha ispirato l'omonimo libro di Bruce Chatwin, grande scrittore di viaggi (oltre al film “Cobra Verde” di Herzog).
Ma l'Africa sembra avere una memoria atavica, che resta nei cromosomi dei suoi figli anche quando non è mai stata fissata nei libri. A Ouidah, passato e presente si mescolano proprio come storia e leggenda, magia e religione, sacro e profano, Bene e Male. Ecco la cattedrale dell'Immacolata Concezione, splendida nella sua decadenza di chiesa coloniale, che guarda con un po' di superiorità il Tempio del Pitone, protettore della città, luogo sacro del vodoun. Una di fronte all'altra, la religione dei bianchi e quella dei neri, il Dio dei vincitori e il dio dei vinti, uniti nel vincolo indissolubile che gli specialisti hanno chiamato “sincretismo religioso” e per gli africani è solo il senso del sacro che non hanno mai perso, perché è l'essenza della vita stessa.
“Il culto del vodoun è stato vietato solo negli anni della Rivoluzione”, spiega Modeste, giovane guida di Ouidah. Gli anni della rivoluzione sono quelli della dittatura del generale Mathieu Kérékou, quasi un ventennio (1972-1991). Come molti altri paesi africani, il Dahomey conobbe l'ossessione modernista dei regimi comunisti e diventò la “Repubblica popolare del Benin” nel 1975. Ricominciare daccapo, azzerare il passato, costruire la storia sulle pagine immacolate del futuro: operazione assai improbabile dovunque, assolutamente impossibile in Africa. “La Rivoluzione ha avuto solo due meriti” – sostiene Laurent Tolomé, 37 anni, addetto alla cooperazione nel settore agricolo – “In primo luogo, ha portato un senso dello Stato, dell'autorità, nella totale anarchia beninese; poi ha creato un sentimento di unità nazionale superando le differenze etniche. Per il resto, è stata solo una dittatura, inefficiente e corrotta come tutte le dittature”. Si può aggiungere un altro aspetto positivo: Kérékou ha sempre evitato spargimenti di sangue, non ha mai governato con metodi criminali. Questo non dovrebbe costituire un merito, normalmente, ma basta pensare che il Benin confina con la Nigeria dei massacri e il Togo della spietata dittatura di Eyadéma , nella stessa regione di Liberia, Sierra Leone e Costa d'Avorio.
La breve storia del Benin dall'indipendenza (1960) all'avvento di Kérékou sembra davvero una farsa, una teatrale commedia del potere politico. Cinque colpi di stato, tutti incruenti, uno dei quali descritto da Kapuscinski nel suo ultimo libro ,“La prima guerra del football”: è il novembre del 1965, presidente e vicepresidente della repubblica sono coinvolti in una disputa interminabile che paralizza il paese. Ad un certo punto, ognuno dei due cerca di far arrestare l'altro, ma l'unico ad avere un po' di autorità è un generale, che già aveva deposto il primo presidente della repubblica due anni prima, minacciandolo con un mortaio mentre questi si era rinchiuso nel suo palazzo. Il generale impone ai due di rassegnare le dimissioni e nomina un nuovo governo.
I tre leader politici (che si chiamavano Maga, Apithy, e Ahomadegbé) scaricati dai militari, si ripresentano alle elezioni presidenziali cinque anni dopo. Ma dal momento che i suffragi, fra brogli e minacce, risultano equamente divisi per tre, i candidati decidono di esercitare la presidenza della repubblica a rotazione, due anni per ciascuno. All'inizio del secondo mandato “turnover”, Kérékou pone fine alla farsa e decide di impostare l'antico Dahomey, ribattezzato Benin, secondo l'ideologia marxista-leninista. Anzi, per essere testuali, secondo i princìpi del “socialismo scientifico”. Seguono nazionalizzazioni (poche, perché nel paese non c'è molto da mettere sotto il controllo dello stato), adunate obbligatorie, organizzazione dei contadini in aziende collettive, cooperazione con Unione Sovietica e Cina. Kérékou, che è un uomo del nord del paese, riesce a dare una struttura nazionale al Benin, superando con intelligenza la tradizionale supremazia del sud (di etnia fon e yoruba). Qualcuno (la Francia?) tenta anche di stroncarlo sul nascere, con un colpo di mano di mercenari paracadutisti guidato dal famoso colonnello Robert “Bob” Denard, quello che poi si dedicherà ai vari colpi di stato nelle isole Comore. Il tentativo viene respinto, Kérékou si fa la fama di osso duro (sicuramente è un animale politico di razza). Ma se la struttura militare e politica del Benin tiene, l'economia va a rotoli.
Così, marxismo o no, Kérékou è costretto a bussare alle porte crudeli del Fondo monetario internazionale, perché lo Stato sta andando dritto verso la bancarotta. Ma le cure del FMI sono quasi sempre peggiori del male: la concessione di crediti è vincolata all'applicazione delle “misure di aggiustamento strutturale”, che immancabilmente vengono scaricate sulle fasce più deboli della popolazione, mentre i governi si invischiano nel meccanismo perverso del debito, cioè diventano sempre più dipendenti dai loro creditori. Kérékou non riesce ad invertire la rotta, i tagli alla spesa sociale e i pagamenti a singhiozzo degli stipendi fanno infuriare la popolazione. E'il 1989: un anno storico, rivoluzionario, l'inizio della fine per i regimi comunisti in Europa. L'avvento della democrazia, la vittoria della libertà.
Però c'era qualcosa di illusorio nel trionfalismo di quel momento, come poi si è visto in seguito, soprattutto in certi paesi (l'Unione sovietica e la Jugoslavia). C'erano dei punti oscuri, delle contraddizioni. La partecipazione popolare, per esempio. Le rivolte che hanno scosso molti paesi africani in quegli anni sono state più imponenti di quelle (a volte quasi inesistenti, o subito degenerate in scontri militari) di tanti paesi dell'est europeo, anche se infinitamente meno pubblicizzate. Alla base della ribellione, la richiesta di migliori condizioni di vita. I protagonisti: insegnanti senza stipendio e studenti in condizioni pessime e senza prospettive per il futuro. La voglia di emergere, di affrancarsi dalla povertà si sposava con l'ansia di potersi esprimere, di poter criticare, perfino di tirare i sassi contro l'auto presidenziale (gesto inaudito negli anni d'oro del regime). La voglia di democrazia è qualcosa di grande e confuso.
Troppo spesso è stato detto, parafrasando Chirac, che gli africani non sono maturi per la democrazia. Si potrebbe invece sostenere il contrario, senza cadere più di tanto nel paradosso: gli africani sono troppo maturi per la democrazia. Forse perché hanno già visto di tutto, di più. Un beninese che ha la fortuna di essere arrivato a 60 anni ha avuto un nonno che gli raccontava delle terribili amazzoni e delle 400 mogli del re di Abomey, dei sacrifici umani e della schiavitù in America; è diventato cittadino francese per forza, studiando una lingua non sua e imparando a scuola la storia dei “nostri antenati, i galli”, mentre suo padre veniva mandato al massacro in Europa a combattere una guerra non sua, e ritornando in patria era ancora soggetto ai lavori forzati. Poi è arrivata l'indipendenza, la promessa dello sviluppo, di un futuro radioso che però non arriva mai. Quindi c'è stata la rivoluzione, tutti compagni in nome del “socialismo scientifico”, non si può praticare il vodoun, però il presidente marxista nomina ministro un feticheur del Mali di nome Cissé, suo consigliere spirituale, poi accusato di bancarotta. Adesso è il momento della democrazia, con un nuovo carico di promesse, e le solite parole cariche di retorica che gli intellettuali africani padroneggiano meglio di chiunque altro. Per questo il pragmatismo dell'africano comune, molto più informato di quanto non si pensi (spesso molto più dell'europeo comune, soprattutto in rapporto alle possibilità economiche e culturali) è impressionante, perfino sconcertante nella naturalezza con cui vede sistematicamente il lato sporco della politica, il mero gioco degli interessi e del potere. C'è quindi un deficit di idealismo, ma è difficile fargliene una colpa.
Il processo di democratizzazione in Benin è stato tanto spettacolare quanto paradossale. Basta dire che Kérékou, il dittatore, è oggi il presidente della repubblica per volontà del popolo sovrano, dopo essere stato mandato a casa dallo stesso voto popolare. Tutto comincia con la convocazione della conferenza nazionale del 1990, accettata obtorto collo da Kérékou. I rappresentanti dell “forze attive” della nazione devono redigere una nuova costituzione, che porti alla fine del regime e si completi con libere elezioni. Il mediatore in questa delicata transizione è un uomo straordinario, un uomo di fede: monsignor Isidore De Souza, arcivescovo di Cotonou. Ancora una volta, il passato ritorna misteriosamente, quasi per riscattarsi: monsignor De Souza è un discendente di don Francisco, il negriero. E' nato proprio a Ouidah, la capitale del vodoun, il porto degli schiavi, che nel frattempo ha visto il ritorno di tanti figli dall'America, in particolare dal Brasile e da Haiti, come a completare il triangolo dello spiritismo. Isidore De Souza, per molti il vero padre della democrazia beninese, è il garante dell'unità e della pace, perché i contrasti fra opposizione e Kérékou sono durissimi: il generale è restio ad andarsene, i suoi avversari lo metterebbero volentieri in galera.
A gestire il governo in questa fase costituente viene chiamato un economista, Nicéphore Soglo, funzionario della Banca Mondiale, che aveva lavorato all'estero per molti anni. Contravvenendo all'impegno preso con la conferenza nazionale, Soglo decide di candidarsi alle elezioni presidenziali del 1991. Per la stampa occidentale è già l'alfiere della democrazia, il rappresentante coraggioso dell'opposizione liberale che sfida Kérékou, il Grande Dittatore. La sua vittoria, niente affatto trionfale, viene esaltata in tutto il mondo (si fa per dire); per la stampa francese il Benin è diventato “il faro della democrazia” in Africa. Kèrékou cede il passo, sconfitto ma non vinto. Inizia il derby elettorale con Soglo: alle elezioni successive, nel 1996, Kérékou si prende la rivincita, nello stupore generale dei pochi europei che seguono le vicende africane, e bissa il successo nel 2001, mentre Soglo grida allo scandalo per i brogli, rifiutandosi di partecipare al ballottaggio. Com'è stata possibile questo strano gioco dell'alternanza, così tipico di ogni democrazia “matura”? Sicuramente non nei termini delle analisi europei, che avevano giudicato normale la vittoria di Soglo il “buono” e inspiegabile il ritorno di Kérékou, il “cattivo”, se non per la scarsa maturità degli elettori beninesi. Invece è vero l'esatto contrario, basta ascoltare la gente del Benin (cosa che gli europei sembrano non degnarsi mai di fare, nei paesi africani).
Vista in chiave africana, infatti, la storia ha tutt'altri connotati, certo sempre ai limiti del paradosso (ma questo è anche il continente della magia, del mistero). Intanto, i risultati non sono affatto sicuri: l'unica certezza è che alle ultime elezioni Kérékou ha rubato a quattro mani, e questo in Benin lo sanno tutti, anche se probabilmente il verdetto finale non sarebbe stato diverso. Sono in molti a pensare che la storia dell'alternanza potrebbe anche essere stata scritta al rovescio (Kérékou avrebbe vinto nel '91, Soglo nel '96) secondo una logica tutta africana della politica, sicuramente strana ma mai irrazionale. Ecco la versione non ufficiale dei fatti: Kérékou era un despota sicuramente detestato, ma non meritava di essere cacciato malamente, per almeno tre motivi: in primo luogo, non ha usato la forza per rimanere al potere, dimostrando grande saggezza; in secondo luogo, non ha mai favorito più di tanto la gente del nord che era la “sua” gente; terzo, se si è arricchito, non lo ha fatto in modo spudorato, e quanto meno non ha mai ostentato la sua ricchezza (e in Benin l'umiltà è una delle qualità più apprezzate).
E veniamo a Soglo. Lui rappresentava il cambiamento, e ha rilanciato indubbiamente un'economia che era allo sfascio. Ma quello che per gli occidentali era il “campione della libertà” , l'esponente della famosa società civile, governava in modo arrogante e autoritario; ha lasciato che la moglie e il figlio disponessero a piacimento del suo partito; ha umiliato i veri protagonisti del processo di democratizzazione e snobbato gli studenti; ha esasperato la sua appartenenza etnica, parlando solo in fon in molte occasioni e rifacendosi direttamente alla storia dei re di Abomey, città che gli ha dato i natali; infine non ha saputo migliorare per niente gli standard sociali, nonostante la buona crescita economica. Eppure anche per lui ci potevano stare altri cinque anni di governo, visto la sua capacità di economista, e quindi molti lo avevano votato nonostante tutto. Nonostante tutto. Queste due parole sono fondamentali in Africa. In Benin c'è una democrazia “nonostante tutto”. E i veri protagonisti della democrazia “nonostante tutto” sono gli agricoltori. Gli uomini e le donne delle campagne, gli “eroi sconosciuti” della nazione, molto più dei valorosi soldati sconfitti di re Gbehanzin. Perché il Benin, come tutta l'Africa a sud del Sahara, era e resta un paese rurale. Il cuore del Continente nero si trova nei campi, nelle foreste e nelle savane. Nelle città c'è spesso solo il frutto malato di una modernità subita. L'illusione della ricchezza a portata di mano, per esempio. Quella che porta un brillante studente pieno di speranze a trasformarsi in pochissimo tempo nell'ennesimo politico o burocrate corrotto e inefficiente. O spinge tante belle ragazze a cercarsi i soldi di notte, nelle discoteche e nei pub che sono gli stessi in tutto il mondo. Tutte truccate e vestite all'ultima moda, con il cellulare in borsa, capaci di usare un videoregistratore digitale e di essere semianalfabete.
In campagna, le illusioni si bruciano fra un raccolto e l'altro. L'alternativa che si pone quasi sempre è quella fra il prodotto destinato all'esportazione (i cosiddetti cash crops i “raccolti da soldi”) e quello destinato in primis all'alimentazione (food crops,”raccolti da cibo”). Per il Benin, l'opzione è fra cotone (l'unico vera entrata per la bilancia dei pagamenti, insieme a un po' di olio di palma) e mais (o manioca o igname). Il governo ha sempre favorito, per ovvi motivi, la produzione del cotone. C'è la consueta struttura di stato che compra il cotone a credito e lo rivende sul mercato internazionale. Ma chi ha puntato sul cotone, quest'anno non ha ancora visto il becco di un quattrino, ed è assai probabile che alcuni funzionari si siano venduti il prodotto sottobanco. Se non ci si mette lo stato, ci sono sempre le dure leggi del mercato: basta vedere i ribassi paurosi di prezzo sul cacao e sul caffè, che hanno messo in ginocchio la Costa d'Avorio. Meglio puntare quindi sui prodotti di consumo ad uso interno: in Benin nessuno muore di fame, come sta accadendo nell'avanzatissima Argentina. Meglio, soprattutto, contare solo su se stessi e sulle comunità dei villaggi, con buona pace delle dispute ideologiche fra liberismo e statalismo. “Uno dei problemi principali degli agricoltori – spiega Andrea Rinaldo, volontario dell'associazione LTM (Laici Terzo Mondo) – è l'accesso al credito. Si tratta spesso di somme non ingenti, per acquistare sementi e concimi per esempio, ma determinanti per ottenere raccolti sufficienti; per questo sono state create le CREP, piccole casse di credito gestite a livello di villaggio”. Il successo di queste piccole banche rurali è stato straordinario (una conferma dell'esperienza della Grameen Bank di Mohammed Yunus in Bangladesh). I prestiti vengono puntualmente rimborsati nella stragrande maggioranza dei casi, i depositi aumentano, e si cerca già di far fruttare il denaro nei primi piccoli investimenti non agricoli. Le donne, con la loro commercializzazione spicciola, sono protagoniste tanto quanto gli uomini di questa economia informale. Per diventare membri di una CREP (Caisse rurale d'épargnes et des prets) ci vogliono 2.500 franchi CFA (circa 4 euro) di iscrizione e un deposito di almeno 5.000 franchi CFA per poter ottenere un prestito fino al triplo della somma versata; le donne versano di più, perché la loro attività è commerciale e non agricola: minimo 15.000 franchi CFA (25 euro) per ottenere fino a 50.000 franchi CFA (80 euro). Somme irrisorie, per le nostre tasche, ma importantissime nella vita delle famiglie beninesi (lo stipendio medio “cittadino” si aggira intorno ai 100 euro al mese).
“Un grosso incremento alla produzione agricola è stato portato dall'introduzione della trazione animale”, continua Rinaldo. L'aratro tirato dai buoi al posto della zappa: questo è stato il cambiamento rivoluzionario per molti agricoltori nel corso del 2002. All'alba del Terzo Millennio queste sono le cose che contano veramente, forse oggi si comincia a capirlo: piccoli concreti passi avanti per le maggioranze povere, non spettacolari acquisizioni per pochi ricchi.
Un'altra iniziativa in corso nelle campagne, più difficile da realizzare, riguarda l'alfabetizzazione degli adulti. Avere solo il 37 per cento di adulti in grado di leggere e scrivere è l'ennesimo paradosso, per un paese che è stato classificato da Reporters sans frontières al primo posto in Africa per la libertà di stampa (e 21° nel mondo, molto più avanti dell'Italia).
Insomma, con tutta la sua povertà e i suoi problemi, il Benin sta andando avanti. A gennaio c'è il grande raduno del vodoun a Ouidah. Quarantuno vergini porteranno l'acqua dal fiume sacro, e percorreranno la “strada degli schiavi” fino alla porta del Non Ritorno, affacciata sull'Atlantico, verso il Brasile. Aspettando di incontrare il proprio futuro, l'Africa continua a resistere, resistere, resistere.


Cesare Sangalli