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Pubblicato su "Diario" giugno 2001

Storia di una baraccopoli cresciuta nel posto sbagliato

Miracolo a Manila

Due mondi divisi da un viale (“Roxas Avenue”). Da una parte il lusso e la volgarità di un paese già “globalizzato”(le Filippine), dall'altra la povertà estrema degli esclusi, sparuta minoranza islamica in una città cattolicissima, aggrappati allo loro moschea già minacciata dalle ruspe

In principio fu il commercio. O meglio, la speranza di una vita un po' più confortevole, il miraggio della modernità. Le luci della città continuano ad abbagliare i poveri delle campagne, ed è così che Manila è diventata MetroManila, un aggregato di 14 milioni di abitanti, una bella fetta dei circa 75 milioni di filippini sparsi su un arcipelago di 7mila isole.
Le bancarelle dei musulmani di etnia Maranao cominciarono a riempire piano piano il lungomare del quartiere Baclaran, la parte meridionale della lunghissima Roxas Avenue, che fiancheggia tutta Manila da sud a nord, sul lato del Mare della Cina. Il sole va a morire verso il Vietnam, regalando l'illusione della bellezza a uno dei posti più brutti del mondo. Eppure, vent'anni fa, quando arrivarono i primi immigrati di questa tribù islamica, la gente veniva qui per fare il suo picnic sulla spiaggia, sotto le palme che oggi sono il ricordo pallido del verde che fu. Là dove c'era l'erba ora c'è una città. Più che una città, un incubo metropolitano.
Baclaran è considerato un quartiere di “terza fascia”: niente a che vedere con Makati, lussuoso centro finanziario e di residenze diplomatiche, o con Intramuros, piccola e graziosa cittadella storica di impronta spagnola, nonché unica oasi pedonale in mezzo al mare di traffico; però distante anche da Payattas, il tranquillo inferno urbano, la città dei rifiuti che crollò un anno fa, facendo decine di morti.
Baclaran è la terza fascia della globalizzazione, probabilmente la più vera, la massima aspirazione per chi vuole a tutti i costi uscire sia da una miseria disperata sia da una povertà dignitosa che è tutto quello che può offrire l'ambiente rurale. Baclaran è il vero mercato di Manila. Tutto si compra e tutto si vende, in un mondo costituito di tre elementi: cemento, asfalto e plastica. Illuminato con i neon la sera, soffocato da un sole pallido di giorno, il mondo della terza fascia respira anidride carbonica e olio fritto, cherosene e ketchup, con qualche zaffata di fogna e di carne alla brace 24 ore su 24. C'è un MacDonald a ogni angolo, oppure un Jollybee (che è lo stesso, versione filippina), spesso a fianco di una stazione di benzina, in un brulicare allucinante di gente e di auto a passo d'uomo. Si esce dalla stazione della metropolitana e si entra in uno shopping center di serie B, aggrediti dai rumori e dalla musica trash sparata a tutto volume dai venditori ambulanti di cd, o dal karaoke (una mania nazionale) urlato senza ritegno da uomini e donne. Quintalate di brutti vestiti, di imitazioni di borse, orologi, scarpe, giubbotti di pelle; e poi gadget elettronici, giocattoli “made in Taiwan”, fiori finti, frutta vera, verdura marcia. Agli angoli delle strade, sui marciapiedi, nel fango o sull'asfalto, decine di poveracci sopravvivono senza infastidire nessuno, quasi fossero invisibili: la maggioranza accetta tutto, in un misto di gentilezza e passività, sorridendo spesso, perfino. Con i motel per il sesso veloce affastellati intorno alla grande chiesa intitolata alla Madonna e sempre incredibilmente affollata di fedeli, la devozione convive con la decadenza, l'amore sacro con quello profano. Sono tutti bravi ragazzi cattolici, i filippini, con un radicato senso della famiglia, appassionati di basket (lo sport nazionale), ferventi consumatori di tutto, spettatori appassionati di telenovelas e video musicali.
Ma la piccola comunità islamica che, espulsa dai miniappartamenti per gli affitti esosi, si è costruita il suo villaggio di Asterix di lamiera e compensato, sembra completamente al di fuori di Baclaran - Babilonia.
E' una comunità unita dall'emarginazione, che sembra vivere il suo stato d'assedio senza risentimento alcuno. Un minuscolo campo di pallacanestro fa da accesso alla baraccopoli. A pochi metri, ci sono i panni stesi sul filo spinato. Alle spalle, la moschea, un povero edificio che è l'orgoglio di queste 180 famiglie. Sullo sfondo, al di là di un fossato, la città, che sembra mandare in avanscoperta un paio di ruspe minacciose a scavare nel fango, rendendo ancora più desolato il paesaggio. “Questa terra è nostra e non ce ne andremo mai” dichiara con forza l'amministratore del villaggio “abbiamo già fatto domanda per l'acquisizione definitiva nove anni fa, e abbiamo mandato tutta la documentazione al presidente Estrada, che purtroppo è caduto”. Ma poi corregge subito l'avverbio unfortunately, perché ora comanda Gloria Macapagal Arroyo, e aggiunge “Abbiamo fiducia nel nuovo presidente, che è conosce bene la realtà di Mindanao (e quindi i filippini musulmani N.d.A.) per via di antichi legami familiari; Estrada era un corrotto, quelli che ci vogliono mandare via sono amici suoi”.
Gente della P.E.A., la “Public Estate Authority”, l'agenzia governativa che si occupa del suolo pubblico, di espropriazioni e vendite, in pratica l'immobiliare dello Stato. Controllata direttamente dal presidente delle Filippine, è chiaramente uno dei luoghi strategici per la commistione fra politica e business, e quindi anche della corruzione, dello scambio di favori, di sfacciati interessi privati portati avanti in nome del “bene comune”. Nelle Filippine queste sono, da sempre, le caratteristiche della politica: la continuazione degli affari con altri mezzi. Non esistono veri e propri partiti, i sindacati sono deboli e divisi, non c'è mai stata una sinistra degna di questo nome (a parte un piccolo partito comunista, fuorilegge dal '57 al '92, fiancheggiatore della guerriglia della “National People Army” negli anni Settanta e ora diviso in litigiose fazioni).
Una fisionomia simile a molti altri paesi asiatici, che hanno anticipato la globalizzazione sposando un capitalismo senza freni inibitori, che li rende, nei consumi e nello stile di vita, più occidentali dell'Occidente.
Le Filippine aggiungono un tocco latinoamericano, triste e gioioso al tempo stesso, eredità della dominazione spagnola prima e di quella americana poi). Triste per la ricchezza in mano a 400 famiglie, un'oligarchia che controlla il potere con ogni mezzo, di fronte a metà della popolazione che vive sotto la soglia di povertà (questo dicono le statistiche ufficiali: più probabilmente si tratta del 60-70 per cento dei filippini). Triste per la presenza ingombrante di un esercito che non ha mai abbandonato le tentazioni golpiste (dietro il recente tentativo di occupazione del palazzo presidenziale c'era probabilmente la mano dell'ex ministro della difesa Enrile) e di una Chiesa cattolica che non è mai riuscita (o non ha mai voluto) formare una coscienza sociale nel paese, avallando una mentalità tradizionalmente succube di ogni potere costituito. La gioia sta nella cultura delle fiestas (uno dei numerosi vocaboli spagnoli rimasti nella lingua parlata), nella vitalità della gente (che non perde occasione per mangiare, cantare e fare l'amore), nella grande partecipazione ai riti religiosi.
“Le Filippine hanno passato 300 anni in convento e 50 anni a Hollywood”, ha sintetizzato una scrittrice filippina. Come per Cuba, il sogno indipendentista filippino matura durante la guerra ispano-americana del 1898. Ma al contrario dell'isola caraibica, le Filippine non sono mai uscite dal cono d'ombra dello Zio Sam (anche se il presidente Ramos ha fatto chiudere le basi americane). Nella mentalità cattolica e anticomunista (qualcuno qui la definisce “clerico-fascista”) forgiata nei decenni non trovano riferimento né la sinistra, né la componente islamica. Non a caso la doppia guerriglia che da Marcos in poi ogni leader filippino ha dovuto affrontare è islamica a Minadanao (al sud) e comunista a Luzon e dintorni (al nord).
“Ci sono tre tipi di musulmani “ spiega ancora il segretario del villaggio “i praticanti, che seguono la vera religione e rispettano ogni uomo, i credenti, che sono la maggioranza, e i falsi musulmani, cioè i maiali del Fronte islamico di liberazione, quelli che uccidono e rapiscono le persone”. Nessuno approva la violenza o anche solo il fanatismo; ma tutti si dicono pronti a battersi per difendere questa minuscola baraccopoli. Già una volta hanno respinto i funzionari della P.E.A. che, appoggiati dalle forze dell'ordine, volevano far sgombrare gli abitanti. “Qui c'è la casa di Dio, il nostro luogo di preghiera, e non permetteremo a nessuno di profanarlo”. Dove c'è la moschea, là si forma la comunità musulmana, come i piccoli borghi europei arroccati intorno al campanile della chiesa. Ma la religione del soldo impera nell'arcipelago e nel mondo: il terreno serve per un nuovo, enorme parcheggio e per l'ennesimo tempio del consumismo, il “mall” della SM, grande catena di shopping center gestita dalla lobby cinese, molto forte a Manila e strettamente legata al deposto presidente Estrada (che doveva essere “il presidente dei poveri”). Difficile che le cose possano cambiare con Gloria Macapagal Arroyo, imposta dal sollevamento di massa di gennaio che qui chiamano “people power revolution 2” (la prima fu quella che portò alla caduta di Marcos nel 1986). Il nuovo presidente sembra per ora solo il volto presentabile dell'oligarchia di sempre. Figlia del presidente Diosdado Macapagal, un liberale che smantellò il ruolo già limitato dello Stato nell'economia nei primi anni Sessanta, moglie di uno degli uomini più ricchi del paese, Gloria (familiarmente chiamata GMA sui giornali filippini) si è formata negli U.S.A., studiando fra l'altro con Bill Clinton. Nessuno discute la sua competenza economica, né la sua onestà personale. D'altra parte, fare peggio di Joseph “Erap” Estrada, puttaniere e giocatore d'azzardo, sembra impossibile. Ma nei suoi primi cento giorni di presidenza non ha voluto affrontare nessuna delle grandi questioni del paese (la distribuzione del reddito, la riforma agraria, la lotta alla corruzione, la diaspora degli emigranti e degli “overseas workers”). La campagna elettorale per il rinnovo di camera e senato ( si è votato il 14 maggio)è stata assolutamente priva di contenuti, tutta basata sulla pubblicità personale dei candidati, che spesso risultano più mondani delle stelle del cinema. In compenso, però, sono già più di sessanta i morti per le violenze a sfondo politico, una sanguinosa abitudine per le Filippine (non c'è stata elezione, dalla caduta di Marcos in poi, che non abbia visto decine di vittime negli scontri fra le fazioni dei diversi candidati). Qui non sembra cambiare niente, alla faccia dell'enfasi sulle due “rivoluzioni”.
Gli abitanti di questo posto quasi surreale nel suo abbandono, hanno già presentato la domanda per un insediamento definitivo al nuovo presidente, e hanno incontrato il sindaco di zona, ricavando una qualche assicurazione (sembra che il terreno possa ricadere sotto la sua giurisdizione e non sotto quella della P.E.A.). Ma le ruspe continuano a scavare, come se volessero creare un fossato invalicabile fra il villaggio e la metropoli, per poi inghiottire baracche e moschea nella tomba che farà da fondamento allo shopping center progettato. Difficile immaginare un finale diverso, dati i tempi. Per un miracolo a Manila ci vuole una fantasia più fervida di quella che ispirò a Zavattini la sceneggiatura di “Miracolo a Milano”. O la fede in Allah, “compassionevole e misericordioso”.

Cesare Sangalli