Reportages
Pubblicato su "Galatea" settembre 2000
Un paese ancora in piedi dopo una guerra crudele
Eccezione EritreaSolo il conflitto con l'Etiopia ha riavvicinato per un attimo l'Italia alla sua “colonia primigenia”. L'oblio del Belpaese ferisce gli eritrei più di ogni altra dimenticanza. Perché la loro Africa è tutt'altro che disperazione e morte, anche se le ferite della guerra sono enormi e l'Eritrea deve ricominciare da zero
La pioggia cade leggera su Asmara, rendendo ancora più triste la pesante architettura fascista del cinema “Impero”. C'è poca gente a fare lo struscio in Corso Indipendenza, i giovani se ne stanno rintanati nei bar con i banconi in metallo e le vecchie macchine da caffè italiane. Ma più del freddo (incredibile a queste latitudini, in piena estate) sono le ronde della Polizia Militare a sconsigliare le passeggiate notturne agli asmarini. Con la popolazione dai 18 ai 40 anni in stato di mobilitazione permanente (donne comprese), ci vuole poco per avere problemi con l'esercito. La fine delle ostilità con l'Etiopia, siglata ad Algeri il 18 giugno scorso, non rappresenta certo l'inizio di un'era di pace. Ci vorranno mesi solo perché l'ONU possa predisporre una forza di interposizione fra i due eserciti, con gli etiopi che restano dentro il territorio eritreo (anche se si sono ritirati dalle città occupate, Barentu e Tessenei, lasciandosi dietro una scia di distruzioni e violenze). E ci vorranno anni per arrivare ad un vero accordo di pace, per poter stabilire relazioni almeno decenti.
E' stata una guerra “vecchio stile”, quella combattuta in tre riprese ('98. '99 e 2000) fra Etiopia ed Eritrea. Artiglierie pesanti, avanzate e ritirate, resistenze ad oltranza. Una carneficina. Scandalosa e incomprensibile per l'opinione pubblica occidentale, e subito rimossa come una delle tante follie di un continente maledetto. Ma la realtà è ben diversa, e ha una logica precisa, spietata ma comprensibilissima. Per prima cosa, occorre liberarsi di tutti, ma proprio tutti i luoghi comuni sull'Africa, e conoscere da vicino la sua nazione più giovane e forse più vera: l'eccezione Eritrea.
L'Eritrea è soprattutto una categoria dello spirito: non è l'elemento etnico che fa da collante (ci sono almeno nove diverse popolazioni, ognuna con i suoi usi e costumi), non è l'elemento religioso (l'Eritrea è islamica sulle coste, cristiana ortodossa sugli altipiani, con una forte minoranza cattolica), né quello linguistico (le lingue ufficiali sono il tigrino, parlato anche in Etiopia, e l'arabo). Essere eritreo significa essenzialmente due cose: condividere una civilizzazione di impronta italiana e aver vissuto una lunga, fierissima lotta per l'indipendenza.
Due elementi più che sufficienti a creare una forte identità nazionale (caso più unico che raro, nell'Africa subsahariana), ma che contrastano fra loro e rendono più affascinante e complicata l'immagine di questo popolo. L'impronta italiana rimanda, come un fantastico specchio dimenticato in un luogo improbabile, alla gentilezza d'animo e ad un savoir vivre quotidiano che evidentemente è la nostra eredità più grande, al di là delle violenze e dei razzismi del nostro “colonialismo straccione” (definizione ripresa da Angelo Del Boca nel suo “Gli italiani in Africa Orientale”).
L'Italia di pelle nera e a sud del tropico del Cancro si ritrova ogni mattina nei caffè di Asmara, ignorata da oltre mezzo secolo eppure fedele a se stessa, ad un amore mille volte tradito e forse per questo ancora più ostinato: fra le aspre parole del tigrino, risuonano chiaramente i nomi della nostra quotidianità, “macchiato”, “cappuccino”, “cornetto”. Anziani impeccabili nelle loro giacche, nei loro gilè, nelle loro coppole, leggono il giornale sorseggiando il caffè. Le insegne dei bar sono tante dediche ad altrettante città italiane, gli interni sembrano usciti direttamente dai film degli anni Cinquanta, tipo “Poveri ma belli”. E' la nobiltà nella miseria, occultata sapientemente come sapevano fare i nostri nonni. E' l'attenzione per le piccole cose, la dignità della pulizia (non c'è un rifiuto nelle strade di Asmara), una religiosità tanto intensa quanto discreta (ogni giorno, nella cattedrale di Santa Maria del Rosario, si dicono due messe in italiano senza che ci sia alcun connazionale presente). E tutto ciò è comunque Africa, abbandonata da tutti, dimenticata come il Sudan o la Somalia, disprezzata senza saperne assolutamente nulla. Un amore grande e testardo, quello degli eritrei per l'Italia, assurdo, irrazionale.
Irrazionale come l'inizio della politica coloniale italiana, che parte proprio da qui, o meglio da un posto dove non c'è “né acqua, né vegetazione, né strade verso l'interno; ma deserto infuocato, malsano, abitato da tribù barbare o selvagge” (così scriveva un quotidiano dell'epoca). Il posto descritto è la baia di Assab, comprata dalla compagnia Rubattino (un armatore genovese con forti legami governativi) nel marzo 1870.
Gli italiani arrivano nel lunare deserto della Dancalia prima che a Roma: segno evidente della totale assenza di un progetto politico, fosse stato anche il più becero imperialismo (che in effetti connoterà buona parte della politica estera italiana negli anni a venire). Così, un manipolo di avventurieri e di militari frustrati gestisce il minuscolo possedimento che nel 1890, dopo aver sfrattato gli egiziani da Massaua e dal resto della costa sul Mar Rosso, prende il nome di Eritrea, invenzione di stampo ellenistico dovuta a Francesco Crispi.
Il colonialismo italiano nasce razzista e muore umanitario, quasi per paradosso involontario. Già la figura di Ferdinando Martini, il primo governatore civile dell'Eritrea, rasenta la schizofrenia: le sue idee sull'Africa sono deliranti (come testimoniato nel suo “Diario Eritreo”), eppure si batte per la “colonia primigenia”. Vuole a tutti i costi la ferrovia fra Asmara, la nuova capitale, e Massaua; cerca di dare una buona amministrazione interna, di limitare al massimo il ruolo dei militari. Più di lui farà Salvago Raggi, governatore dell'età giolittiana, soprattutto perché diffonde l'istruzione e l'avanzamento professionale della popolazione indigena.
Il dato forse più importante nella prima metà del Novecento è la separazione dell'Eritrea dalle infinite guerre interne dell'Etiopia, che resterà sempre il vero obbiettivo dell'Italia. Così, nonostante le violenze e il sostanziale regime di apartheid che il fascismo eredita già dallo stato liberale (in termini di politica coloniale - sostiene Del Boca - Mussolini non ha dovuto inventare nulla), l'Eritrea vive in pace e in una relativa prosperità, prosperità che aumenta notevolmente proprio con i lunghi preparativi dell'invasione dell'Etiopia nel 1935. “In quegli anni si stava sicuramente meglio qui che in molte zone dell'Italia” ricorda Isaak GhebreYesu, scrittore, ex religioso e guerrigliero e nipote di un “ascaro”, la milizia eritrea inquadrata nel regio esercito italiano. “Noi ci sentivamo e ci sentiamo molto più avanzati rispetto agli etiopi”.
Asmara diventa “la piccola Roma”, Cheren è una gemma circondata da campi fertili. C'è il cinema e si gioca a pallone e a biliardo. Perfino in Etiopia, nonostante le brutalità dei fascisti e dei militari del generale Graziani, l'influenza italiana rimarrà indelebile. Per amore o per libertinaggio, gli italiani continuano ad accoppiarsi con le donne locali. Il razzismo del regime viene contraddetto puntualmente nella vita quotidiana, come riconosce uno dei massimi esperti della storia del Corno d'Africa, il professor Richard Pankhurst, docente inglese dell'università di Addis Abeba.
Sono proprio gli inglesi a unire, nel 1941, i destini di Etiopia ed Eritrea. Gli italiani arroccati sull'altopiano di Cheren hanno resistito oltre ogni logica militare: un eroismo disperato e inutile che vale l'onore delle armi da parte dell'esercito di Re Giorgio. Gli inglesi cominciano a smantellare tutto quello che gli italiani avevano costruito, tanto in Etiopia quanto in Eritrea. Per loro e per gli americani conta solo Hailé Selassié, l'imperatore deposto da Mussolini, e le sue aspirazioni alla Grande Etiopia.
Lo stato abissino deve essere il garante della stabilità in tutta la regione del Corno d'Africa, rimanendo in posizione dominante. Questo è il leit motiv della diplomazia occidentale negli ultimi cinquant'anni, e non è cambiato affatto, nella sostanza.
Hailé Selassié è un politico scaltro, con una cultura raffinata, un notevole carisma e una concezione mistica del potere. “Ultimo imperatore d'Etiopia, Leone di Giuda, Eletto di Dio, Potenza della Trinità, Re dei Re”: così lo definisce, elencando i suoi titoli con sarcasmo feroce, Oriana Fallaci nella sua intervista del 1972, dalla quale emerge il ritratto di un despota oscurantista fino al delirio, triste erede di un'epoca arcaica che stava per tramontare. Il negus abissino forgia con la violenza il secondo elemento fondante dell'identità eritrea: l'orgoglio irriducibile di chi ha saputo resistere contro tutto e contro tutti.
“Nel 1958 Hailé Selassié invia l'esercito a chiudere il parlamento federale eritreo” ricorda Zacharias Uoldegheorghes, 61 anni, ex guerrigliero. “Ci furono morti e feriti. L'insegnamento del tigrino fu abolito, ogni autonomia cancellata, e nel 1962 l'Eritrea venne annessa formalmente come quattordicesima provincia dell'Etiopia”. Hailè Selassié cercò di fare leva sulla religione cristiana come elemento di unione, agitando lo spettro di una dominazione islamica. La divisione fra la gente dell'altopiano, cristiana copta come gli etiopi fin dal IV secolo dopo Cristo, e i musulmani della costa, era stata alimentata ad arte già dagli inglesi: fra i due gruppi, erano indubbiamente gli islamici a subire le angherie dei cristiani. Per questo il primo gruppo di indipendentisti nacque sotto il segno del Corano, guidato da un ex ufficiale musulmano dell'esercito italiano, Idriss Awaté. La prima azione rivendicata dal neonato ELF (Fronte di liberazione eritreo) risale al settembre 1961. Iniziava la più lunga guerra di indipendenza del continente africano.
La guerriglia dell'ELF non poteva ottenere grandi risultati: privi di un vero programma politico, divisi in fazioni di natura tribale, diffidenti nei confronti degli indipendentisti cristiani, i combattenti eritrei dovevano fronteggiare uno dei più grandi eserciti africani. Ma più la repressione era dura, più la guerriglia otteneva l'appoggio della gente.
Alla fine degli anni Sessanta emerse una seconda generazione di guerriglieri, i cui leader, come Isaias Afeworki (l'attuale presidente dell'Eritrea), si erano formati in Cina, in una rigorosa ideologia marxista di guerra di liberazione popolare. Nasceva un nuovo esercito, l'EPLF (Fronte di liberazione popolare eritreo), organizzato, disciplinato, con una coscienza politica radicale, in grado di ottenere l'appoggio compatto della popolazione.
Dopo una sanguinosa guerra civile, a metà degli anni Settanta, il vecchio ELF venne praticamente liquidato sul campo. Nel frattempo (1974), Hailé Selassié era stato deposto da un colpo di stato militare, guidato da Menghistu Hailé Mariam. Nonostante l'ideologia adottata ufficialmente dal nuovo regime fosse il comunismo, Menghistu non cambiò una virgola nei confronti dell'Eritrea: la campagna militare si fece ancora più intensa, sostenuta da una politica estera spregiudicata. L'Etiopia comprava armi dall'Unione Sovietica, pagandole soprattutto con gli aiuti umanitari dell'Occidente, mobilitati con un uso sapiente dei mass media che documentano siccità e carestie (come denunciò André Glucksmann nel libro “Silenzio, si uccide”, pubblicato dopo la straordinaria operazione mediatica del “Live Aid” nell'estate 1985). Gli eritrei erano drammaticamente soli nella loro lotta, il mondo intero li ignorava.
Eppure, nonostante l'incredibile disparità delle forze in campo, l'Eritrea avrebbe affossato, dopo l'impero del negus, anche il regime collettivista di Menghistu. A nulla valsero otto offensive lanciate dagli etiopi nel vano tentativo di chiudere la partita eritrea: ogni volta l'EPLF ne usciva più forte, e ormai Menghistu doveva fronteggiare anche gli insorti del Tigray, sostenuti e inquadrati dai “cugini” eritrei. La politica di terrore interno, le epurazioni feroci degli alti ranghi dell'esercito, la fine degli aiuti sovietici, il logoramento di una guerra non voluta provocarono la disfatta finale, nella primavera del 1991: Davide aveva umiliato Golia, un intero esercito era allo sbando, i guerriglieri eritrei e tigrini, uniti, entravano ad Addis Abeba alla fine di maggio. Per l'Etiopia era la fine di una dittatura spietata, per l'Eritrea l'indipendenza: una doppia liberazione, accolta favorevolmente in tutto il mondo (meglio tardi che mai).
“Ricordo perfettamente il 24 maggio del 1991, quando venne liberata Asmara e la radio eritrea diceva di lasciar passare i soldati etiopi che si ritiravano”. Luca Milesi, 76 anni, vescovo di Barentu, è l'ultimo missionario italiano rimasto in Eritrea, dove vive da quasi cinquant'anni. Ha visto tutte le sofferenze di questo popolo, è rimasto per giorni sotto le bombe dell'aviazione etiopica, ma spiega che “non c'era risentimento, alla fine della guerra di indipendenza, nei confronti degli etiopi: nessuno se la prese con i soldati che si ritiravano in condizioni pietose, la gente capiva che anche loro erano vittime”.
L'Eritrea voleva semplicemente esistere come nazione, e il voto a senso unico (99,8 per cento) nel referendum del 1993 dimostrò la compattezza della gente unita all'EPLF e al suo leader Isaias Afeworki. Ora la sfida era quella di costruire uno stato moderno, di avviare un programma di sviluppo per un paese fra i più poveri del mondo. In altre parole, vinta la guerra, gli eritrei dovevano “vincere” la pace. Abituati a fare da soli, cresciuti nella totale austerità e nello spirito di sacrificio, i dirigenti eritrei si trovano a disagio nel mondo della diplomazia internazionale, anche se rinunciano fin da subito alla militanza ideologica comunista.
“Erano diffidenti nei confronti dei paesi donatori, e dell'Italia in particolare, anche se oggi siamo i primi negli aiuti - ricorda Andrea Senatori, vice-direttore della Cooperazione Italiana in Eritrea - “non amavano le lunghe negoziazioni. Il loro programma di sviluppo si basava sulla self reliance, cioè sull'autosufficienza, e sulla ownership, ossia il massimo controllo da parte dello stato”. In pratica, l'atteggiamento di partenza era del tipo “dateci i soldi e lasciateci fare”.
Eppure, nonostante le difficoltà iniziali, l'Eritrea conosce una stagione di sviluppo promettente: crescita intorno al sette per cento, inflazione inesistente, conti pubblici in regola (la nuova leadership difetta a volte di competenza, ma non di onestà), nessun indebitamento oneroso con l'estero. Si migliorano le infrastrutture, senza dimenticare il sociale, soprattutto l'istruzione: le scuole sono obbligatorie e gratuite, gli eritrei oggi sono probabilmente fra gli africani più istruiti.
La giovane nazione suscita stupore ed entusiasmo. “Viene da chiedersi - scrive nel '96 Peter Hillmore su “The Observer”- se questo grande slancio morale dei ribelli (riferito ai dirigenti ELPF ), che è proseguito anche in tempo di pace, non sia una realtà troppo bella per essere vera”. Nel reportage il dubbio viene cancellato: l'Eritrea, nonostante i grandi problemi da risolvere, può essere considerata un esempio di virtù per l'intero continente.
Ma presto emergono due caratteristiche assai negative, pesanti eredità dell'orgoglio (a volte smisurato) tipico dei combattenti indomiti: la totale mancanza di democrazia all'interno del paese, e, all'esterno, il complesso di superiorità nei confronti dell'Etiopia, paese cui l'Eritrea è inevitabilmente legata.
Ad Addis Abeba, in quegli anni, Melles Zenawi, leader dei tigrini che hanno preso il potere, non può contare sul consenso popolare del collega (ed ex compagno di lotta) Isaias Afeworki. L'Etiopia è una nazione di sessanta milioni di abitanti, estremamente composita, tanto che, dopo la fine del regime di Menghistu, si è data una costituzione federale: nove stati disegnati su base etnica, ognuno con diritto (almeno formale) di secessione per referendum. Zenawi e i membri del suo governo sono tigrini, provenienti da una regione tradizionalmente poco considerata dagli amarici, che si considerano, a torto o a ragione, i “veri” etiopi. Il deficit di legittimazione viene colmato con metodi polizieschi.
E' opinione diffusa, in Etiopia, che il governo di Zenawi prenda gli ordini da Asmara. La situazione economica non migliora, e fra i poveracci di Addis Abeba qualcuno arriva addirittura a rimpiangere i tempi di Menghistu. L'Etiopia ha bisogno, da sempre, dei porti sul Mar Rosso, dello sbocco al mare. Il traffico con l'Eritrea è costante, così come il flusso di lavoratori; la moneta è una sola, il birr. Etiopia ed Eritrea dovrebbero collaborare, nell'interesse reciproco. Ma nel 1997, nonostante tutte le pressioni contrarie, l'Eritrea adotta la sua valuta nazionale, il nakfa. Il pedaggio che l'Etiopia deve pagare per il commercio, invece di alleggerirsi si appesantisce. Ma soprattutto si appesantisce il complesso di inferiorità etiope, soprattutto dopo gli scontri frontalieri del '98, la miccia della guerra imminente.
Il meccanismo della botta e risposta è implacabile, e poco importa stabilire chi ha iniziato per primo, visto che al confine la situazione era fluida, con paesi in territorio eritreo amministrati dagli ex guerriglieri tigrini e viceversa. La vera e propria scintilla fu l'uccisione di quattro ufficiali eritrei (primavera '98) al termine di una disputa frontaliera: la risposta, immediata e durissima, fu di tipo militare, con il bombardamento eritreo di Badme. Orgoglio e solo orgoglio, da parte del governo eritreo: una mossa idiota e, alla fine, perdente.
Perché un paese di tre milioni e mezzo di abitanti non può continuare a sfidarne uno venti volte più grande. Perché la comunità internazionale tende da sempre a seguire la legge del più forte, e il più forte nel Corno d'Africa era e resta l'Etiopia. Perché ogni classe politica traballante, da sempre, cerca di fare leva sul nazionalismo. Perché la guerra uccide la democrazia e compromette lo sviluppo, arrestando ogni processo di cambiamento.
Il governo eritreo ha offerto all'“allievo” Zenawi un'occasione unica: quella di risollevare l'orgoglio nazionale, legittimandosi all'interno come vero etiope e leader a tutto tondo, rimandando sine die l'avvento di una vera democrazia e riaffermando la supremazia abissina su tutta la regione (la Somalia e Gibuti sono già da tempo nell'orbita di Addis Abeba).
Dal punto di vista militare, il primo round se lo sono aggiudicato gli eritrei, illudendosi una volta di più sulla loro forza (che resta comunque notevole). Il secondo (febbraio '99) è finito sostanzialmente in parità. Il terzo (e ultimo, si spera) è andato agli etiopi, anche se molti ad Addis Abeba immaginavano una sconfitta totale dell'Eritrea.
La guerra fra Etiopia ed Eritrea, dal punto di vista della Realpolitik (l'unico che sembra contare davvero in ambiente internazionale) è quindi perfettamente logica ed è stata addirittura “utile”: ha ricreato un equilibrio reale, con l'Etiopia in posizione dominante e l'Eritrea opportunamente ridimensionata, ma non umiliata, ed ha permesso a entrambe le leadership di non rimettersi in discussione per molti anni (curiosamente le prime elezioni presidenziali in Eritrea erano previste per il '98).
La triste riprova di ciò è il nuovo linguaggio adottato dal governo eritreo, quasi gandhiano, dopo la grande paura dell'invasione (l'Eritrea è stata in effetti la vittima di una vergognosa aggressione che nessuno, meno che mai l'Italia, ha condannato ufficialmente): gli ex guerrieri duri e puri hanno scoperto le virtù del pacifismo (meglio tardi che mai).
Per ottenere questo “logico” risultato, si sono inferte ferite devastanti alla popolazione: oltre alle decine di migliaia di morti (il bilancio ufficiale è “top secret” e forse non si conoscerà mai), e al milione e mezzo fra profughi e rifugiati interni, si deve considerare la “pulizia etnica” operata in silenzio prima dall'Etiopia nei confronti di chi era eritreo magari solo per i nonni (72mila espulsioni), poi, in risposta, dall'Eritrea (che però continua a negare l'evidenza e parla della faccenda come se si trattasse di regolare i permessi di lavoro della popolazione straniera).
Questo è sicuramente il metodo migliore per alimentare un odio fra due popoli che non c'era, e che adesso, purtroppo, comincia ad esserci. Al resto pensano le rispettive radio e televisioni nazionali (le stesse che, da una parte e dall'altra, esaltano la grande vittoria conseguita).
Non è più tempo di ottimismo, in Eritrea. Bisogna ricominciare daccapo, come se l'orologio del tempo fosse tornato indietro di dieci anni.
La gente eritrea che ha saputo soffrire con dignità (e continua a farlo); che ha saputo pregare insieme (anche per il “nemico”) a prescindere dalla religione; che da sempre fa della resistenza umana il suo stile di vita; che è rimasta unita quando la situazione sembrava volgere al peggio; questa gente comincia a mostrare i segni di un'infinita stanchezza. E' come se il cromosoma culturale lasciato dall'Italia, così poco incline alle virtù guerriere, così femminile nella sua tenerezza e gioia di vivere, tornasse lentamente a galla. Lo vedi nella renitenza di molti giovani alla leva; lo vedi nei sospiri delle madri con i figli e le figlie sotto le armi, lo vedi nei ragazzini che sognano di diventare grandi calciatori e non grandi combattenti. L'Eritrea, che ha saputo essere eccezionale, vuole solo un futuro di normalità.
Cesare Sangalli